L’Italia che verrà riparte dalla Cultura?
Treia (MC). Carlo Cattaneo, sostenitore del Federalismo, dichiarava che «non v’è lavoro, né Capitale che non cominci con un atto di intelligenza». L’Impresa nasce spesso da un’intuizione creativa, da una visione di cambiamento, da una concentrazione di istanze innovative. Nel mondo ci sono distretti creativi iconici, come la Silicon Valley, ma in Italia esiste una costellazione di distretti manifatturieri, che grazie alle interconnessioni fra territorio, cultura locale, artigianato, tradizione, creatività, cultura, producono valore. E parliamo di economia reale, di lavoro, di imprese e di ottimi risultati, di buone pratiche. Gli addetti ai lavori lo dichiarano da tempo; più lenta invece la presa di coscienza collettiva e a livello politico.
Dalla pubblicazione del Libro Bianco sulla Creatività, nel 2009, commissionato dal Ministero dei Beni Culturali, quando ancora lontana era la spending review, fino al Manifesto della Cultura «Niente cultura niente sviluppo» pubblicato lo scorso Febbraio nel Domenicale de il Sole24 Ore , sostanziali rivoluzioni e passi avanti sono stati compiuti nell’indagine sul comparto delle Industrie Creative e Culturali del nostro Paese, che parlano di risultati positivi. La Cultura si interroga e si analizza. Non ultimo il Rapporto Annuale di Federculture(cfr. articolo Più Cultura e Formazione per salvare l’Italia), che per il 2012 descrive un comparto che regge rispetto al trend economico generale, con consumi delle famiglie italiane in crescita. Si aggiudica quota 17% dell’export europeo in quanto a servizi per il turismo e cultura e il decimo posto nel Country Brand Index che classifica i Paesi più attrattivi al mondo[1].
La recente iniziativa di ItaliaCamp con il progetto Wethink[2] ha riunito intorno allo stesso tavolo un’assemblea inter-generazionale di realtà associative, centri di ricerca e fondazioni con il comune obiettivo di diffondere «la cultura della cultura», ovvero divulgare il dibattito intorno al valore strategico della cultura per il posizionamento del nostro Paese nell’arena internazionale.
Si aggiunge al coro, la ricerca di Symbola, Fondazione per le qualità italiane e Unioncamere «L’Italia che verrà. Industria culturale, made in Italy e territori» presentata lo scorso week end nel seminario annuale dal titolo «la Bellezza è ecologica. Cultura e green economy contro la crisi», a Treia in Provincia di Macerata.
Nella prolusione di apertura, parole programmatiche di Ermete Realacci, Presidente di Symbola: «L’Italia deve fare l’Italia. È necessario fronteggiare la crisi finanziaria e il debito pubblico senza lasciare indietro nessuno, ma per risanare l’economia serve un’idea di futuro. Non possiamo che puntare su innovazione, ricerca, green economy, e incrociarle con la forza del made in Italy, con la qualità, con la bellezza. La cultura è l’infrastruttura immateriale fondamentale di questa sfida».
Dal rapporto esce una definizione trasversale e profonda di cultura, che estende il perimetro di riferimento, includendo nell’osservazione il settore delle Pubbliche Amministrazioni che gestiscono servizi culturali, il mondo dell’associazionismo e non-profit, le Fondazioni, insieme ai settori tradizionali della cultura e dei beni storico-artistici, dai centri di ricerca delle grandi industrie come nelle botteghe artigiane, o negli studi professionali. L’analisi è capillare: le province italiane, intervistate una per una; individuati 4 macro settori: industrie culturali, industrie creative , il patrimonio storico-artistico architettonico, le performing art e arti visive.
Emerge una nuova fotografia dell’Italia: la cultura produce il 5,4% dell’economia nazionale, con il 5,6% degli occupati totali nella popolazione attiva, superiore al settore primario o della meccanica. Il valore aggiunto dell'industria culturale (intesa come architettura, comunicazione e branding, artigianato, design, made in Italy) impatta per il 15% del totale dell’economia nazionale, con impiego di ben 4 milioni e mezzo di persone, equivalenti al 18,1% degli occupati a livello nazionale. Esporta made in Italy , posizionandosi al quarto posto nel G20, dopo USA, Germania e Cina.
Il rapporto, realizzato con la supervisione del Prof. Pierluigi Sacco e con il coinvolgimento di oltre 20 esperti che hanno dato un contributo per individuare le esperienze più avanzate e le tendenze emergenti di ogni settore, descrive un trend nel quale le performing arts e l’arte contemporanea solo nel 2011 sono cresciute del 1,3% in termini di valore aggiunto, con incremento del 3,6% in termini di occupazione.
Un peso sostanziale hanno le industrie creative (architettura, design, made in Italy, comunicazione e branding) con il 47,1% del valore aggiunto, mentre le imprese vicine al patrimonio artistico sono più fragili nel loro contributo. Un elemento questo che sembra descrivere le debolezze del sistema di gestione, sostenuto principalmente fin d’ora dal settore Pubblico.
In quanto ai dati geografici, ne emerge che ai primi posti nella produzione di valore aggiunto ci sono città provinciali molto legate al made in Italy, come Arezzo, Pordenone, Pesaro Urbino, a fianco delle metropoli Milano e Roma. A livello di regione, il Lazio detiene il primato, seguito dalle Marche, Veneto, Lombardia, Piemonte. Risultati questi che restituiscono la storia dei territori italiani, nei quali si sono depositate conoscenza, capacità realizzativa, spirito imprenditoriale con un approccio votato alla bellezza, al benessere, alla cura. Questo per tutti i relatori e autori dello studio è la forza del nostro Paese.
«In risposta alle sfide dell’economia si sta affermando progressivamente un nuovo modello di sviluppo – aggiunge Ferruccio Dardanello, Presidente di Unioncamere -, in cui è crescente l’interesse verso la valenza strategica della cultura e della creatività…»
Commenta Claudio Bocci, Direttore Sviluppo e Relazioni Istituzionali, Federculture: «Il Rapporto Symbola-Unioncamere, attraverso l'analisi dei 'codici Ateco' (che registrano i settori di attività delle imprese iscritte alle camere di commercio italiane), ha il pregio di mettere in evidenza l'articolazione e la complessità delle diverse filiere delle industrie culturali e creative e dimostra il peso assai rilevante della cultura nei processi di sviluppo economico, comparabile con i settori tradizionali del manifatturiero. Ci auguriamo che questi dati aumentino la consapevolezza dei decisori politici, ai diversi livelli istituzionali, sul rapporto che lega cultura e crescita economica, favorendo l'introduzione di appropriate politiche pubbliche».
Pier Luigi Sacco però riporta l’attenzione sui punti di imprescindibile intervento, proiettando l’Italia sul piano internazionale e ricorda che il paese versa in una sorta di stato schizofrenico fra la percezione del valore della cultura e la sua scarsa partecipazione. E in un sistema dove il design orientation è diffuso in molti ambienti extra-filiera, le imprese si pongono spesso nel ruolo di produttori culturali, i professionisti del settore sono altamente competitivi e resistenti alle sfide del mercato e la partecipazione sociale è elevatissima per eventi, non ci si spiega come la Politica, i mediatori nei dibattiti internazionali non riportino mai in agenda la cultura come elemento strategico. «Fuori siamo percepiti come altamente creativi, ma deboli nell’attuare un piano strategico per le industrie culturali, che in Paesi meno strutturati, come la Bulgari ad esempio, è presente . Il rischio è la perdita della propria competenza e voce in capitolo nell’Europa 27 in prossimità del 2020, quando si attuerà il nuovo ciclo di sviluppo strategico per l’Unione, in corso di progettazione fra il 2014-2020». Non possiamo perdere il treno.
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