L’impresa è un soggetto culturale. Produce cultura al suo interno, la agisce sui territori, costruisce narrazioni. I primi dieci anni di Museimpresa
Milano. Rileggendo il manifesto sottoscritto dall’ideatore dell’associazione Museimpresa, Carlo Camerana e dai primi 15 soci fondatori, un punto risuona particolarmente attuale e quasi preveggente rispetto a quanto accaduto nell’ultimo decennio in termini di sponsorizzazioni e produzioni culturali: «l’impossibilità per l’impresa di continuare ad essere soltanto partner economico di progetti altrui, percependo la cultura come altro da sé, così da alimentare all’interno dell’azienda e all’esterno la sola proiezione economica della propria identità, senza investire risorse nella valorizzazione e comprensione della propria storia».
Consapevolezza è un termine che ricorre anche nella mission dell’Associazione e si traduce nella rivendicazione da parte dell’impresa della propria matrice intellettuale e culturale («fare è pensare» come ha sostenuto Richard Sennett in L’uomo artigiano), ma anche nella necessità di comprendere il proprio ruolo all’interno di un sistema ampio in cui interagiscono più attori: il territorio che si occupa, la comunità dei lavoratori, le istituzioni pubbliche e private che gravitano intorno, le università, i produttori e fruitori del bene, ma anche un pubblico allargato che negli ultimi anni ha maturato un interesse per la complessità e l’esemplarità del mondo dell’impresa, che si offre a più letture - dinamiche lavorative e sociali, modelli imprenditoriali di successo, trasmissione del sapere, studio di processi ed evoluzione del prodotto in cui si innestano design, innovazione e parola abusata, creatività -. Una trasversalità di saperi, ma anche un’eterogeneità di visioni e di strategie culturali dettate dalla personalità del singolo imprenditore che, se non vengono ben analizzate, rischiano di essere schiacciate da una visione penalizzante che riduce tutto alla volontà di potenza dell’azienda che si autocelebra con un museo o piuttosto un archivio d’impresa. Queste strutture, spesso raccolte nella forma giuridica della fondazione (Fondazione Pirelli, Piaggio, Dalmine, Borsalino, Lungarotti, ...) si sono rilevate nel tempo degli ottimi strumenti di dialogo paritario e cooperazione con altri partner culturali, in particolare con i musei istituzionali e le università, superando un pregiudizio radicato che ritiene che l’impresa non abbia credenziali culturali. Un atteggiamento che apre nuove prospettive di cooperazione con le istituzioni culturali. Museimpresa si è dato tra i primi obiettivi la definizione esatta del significato e del ruolo, nonché gli standard qualitativi (compresi la garanzia dell’apertura al pubblico, la figura curatoriale costante in grado di garantire un’attività continuativa) dei musei e degli archivi d’impresa. Mettendo in rete i più importanti marchi italiani (Barilla, Eni, Ferrari, Olivetti, Zegna, etc.) si è mostrato un mondo ricco e sconosciuto ai più, composto da documenti, prodotti, materiale iconografico, macchinari, ma anche fonti orali, in cui spesso arte, grafica, letteratura, cinema, sono entrate a far parte della storia produttiva delle aziende. Basti pensare alla ricchezza del cinema industriale testimoniata dalla recente web tv sul cinema d’impresa o ai progetti editoriali (pensiamo alla messa online degli house organ e periodici aziendali pubblicati in Italia tra il 1930 e il 2000), evidenziata da ambiziose catalogazioni che testimoniano il contenuto del fare impresa. Museimpresa ha svelato la densità e la presenza di significativi di musei e archivi d’impresa in Italia (se ne contano più di 400), fotografando un fenomeno che dalla fine degli anni Ottanta non ha pari in Europa né nei paesi industrialmente più avanzati.
Come afferma Michele Perini, Presidente dell’Associazione Museimpresa dal 2003, «la nostra spinta propulsiva, oltre a quella di mettere in rete e comunicare l’esistente, secondo le logiche sistema confindustriale ha reso protagonisti del progetto culturale tutte le aziende coinvolte, sottolineando che la ricchezza e la longevità di ognuna di esse è da ricercare nel territorio e nella filiera che le ha prodotte, creando con l’esempio virtuoso delle aziende fondatrici una cultura della conservazione e della valorizzazione in grado di impedire ogni forma di dispersione del patrimonio industriale, sia nella piccola che media e grande impresa».
E’ in corso un cambiamento profondo nella relazione tra mondo culturale e impresa. Un incontro sicuramente accelerato dalla perdita di centralità e di capitale della sfera pubblica. La multimedialità ha favorito un dialogo interdisciplinare e tra linguaggi, creando nuovi contenuti ibridi che spaziano dalla tecnologia all’arte, dal design alla moda. Viene meno l’antagonismo classico tra cultura alta e bassa, tra il mondo dell’arte e quello della tecnica. Nuove professionalità, spesso con formazione umanistica (storici dell’arte, filosofi, antropologi), occupando ruoli decisionali nell’adozione delle politiche culturali dell’impresa, e non solo. Un innesto che dà nuova linfa vitale ai contenuti culturali dell’impresa, recuperandone gli episodi più significativi, con l’ambizione di applicare nel contemporaneo la feconda tradizione italiana di ricerca tra imprenditori, architetti, designer, storici, architetti, grafici e artisti. «L’innovazione di processo e di prodotto, la gestione della complessità, favorite da nuove competenze e dalle tecnologie sono la chiave del successo dell’impresa contemporanea, che oggi più di ieri ha bisogno di valorizzare esperienze che provengono da mondi distanti che poi però bisogna saper raccontare. Oggi più che in passato c’è bisogno di storia e di storie. Un po’ come accadeva con il Carosello, amato dai bambini di allora e dai giovani d’oggi, che aggiungeva un plot alla comunicazione del prodotto creando pezzi di intelligenza e di cultura» afferma Perini.
Il successo dell’Heritage Marketing, ovvero il recupero della propria storia per costruire nuovi contenuti e nuovi prodotti (Ferragamo, Fiat, Piaggio), o l’affermarsi dello Story Telling nel narrare le vicende dell’impresa, evidenziano che c’è una domanda, da parte delle collettività di riscoprire in chiave narrativa e non solo economica i saperi prodotti dalle aziende. Il modo in cui l’impresa mette in scena se stessa racconta il livello di maturità, ibridazione e quindi di sostenibilità di cui è capace.
Le imprese associate sono molto diverse tra loro, ma alcune politiche ricorrono, quali la vocazione collezionistica di alcuni imprenditori che partendo dalla raccolta del proprio oggetto produttivo ne hanno tracciato la storia nel tempo. E’ il caso della Galleria Guglielmo Tabacchi della Safilo di Pieve di Cadore la cui collezione di occhiali racconta oltre 700 anni di vita dell’occhiale, o piuttosto della Fondazione Lungarotti di Torgiano, che ha creato il Museo dell’Olio e del Vino rintracciandone le origini storiche in oggetti e tradizioni produttive del passato, risalendo sino alle origini. Un’altra costante è il marketing. Aziende con brand forti investono grandi risorse nel recupero capillare, e spesso creativo, della propria storia. E’ il caso del Museo Ferragamo di Firenze, della Galleria Ferrari di Maranello o del Museo Ducati di Borgo Panigale. Il museo diventa un vero e proprio biglietto da visita dell’azienda, il luogo in cui si accolgono i clienti e ci si presenta al mondo. Aziende il cui prodotto è di difficile comunicazione o è fortemente legato al territorio di appartenenza («company town»), investono sulla propria storia connessa alla comunità di riferimento, traducendo culturalmente i propri valori. Rientrano in questa tipologia la Fondazione Dalmine del Gruppo Tenaris di Bergamo, la Fondazione Piaggio di Pontedera, in cui non a caso nel suo statuto convivono investimento pubblico e privato. Offre invece un modello di contaminazione e libera sperimentazione il caso del Museo/Archivio Alessi di Omegna che esprime perfettamente lo spirito dell’imprenditore Alberto Alessi che ha investito risorse per costruire, inventare, un nuovo modo di fare design introducendo la psicanalisi, la semiotica e l’antropologia in azienda.
La sfida per il futuro è comunicativa: come tradurre i materiali di archivio del passato e del presente in documenti e prodotti vivi e parlanti? Quali i modelli museologici a cui rifarsi? Sino a che punto la storia dell’impresa deve contaminarsi con altre discipline? Due mostre realizzate nel 2011 dalla Fondazione Borsalino e dalla Fondazione Pirelli indicano delle possibili vie destinate ad aprire nuovi scenari. Nell’esposizione «L’anima di gomma. Estetica e tecnica al passo con la moda», alla Triennale di Milano, la Fondazione Pirelli ha affidato la comunicazione del proprio know-how produttivo alle immagini piuttosto che agli oggetti, usandole in chiave interattiva e installativa, ma soprattutto adottando lo stesso linguaggio virtuale sia per i documenti del passato che per le nuove produzioni. Un risultato concettuale ed estetico di grande interesse. Nella mostra «Il cinema con il cappello. Borsalino e altre storie» la Fondazione Borsalino, partendo dal legame esistente tra l’azienda e il cinema attraverso il noto film Borsalino, ha rinunciato alla centralità della storia aziendale per lasciare parlare in maniera libera e poetica il cappello nel cinema, creando ambienti emotivi in cui raccontare più storie parallele, inserendo l’illustrazione per raccontare i documenti storici.
Con una mostra corale, attingendo al patrimonio materiale e immateriale degli associati, Museimpresa festeggia il suo genetliaco. Tema centrale la rappresentazione se, come ci si augura, vogliamo restare protagonisti della contemporaneità.
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dal Rapporto Annuale Sponsorizzazioni de Il Giornale dell'Arte, novembre 2011