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Io non ho paura

  • Pubblicato il: 16/07/2015 - 00:22
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Valeria Cantoni

L’arte di cambiare dall’io al noi
 
 

John P. Kotter scrive sulle pagine dell’Harvard Business Review che la grande sfida dei manager e degli imprenditori è quella di restare competitivi in un contesto di turbolenza e rottura, che sembra mettere in continua discussione la cultura organizzativa come la si è conosciuta fino a ora. L’articolo è del 2012, vale nel 2015 e varrà ancora di più nel 2016.

Difficile per le imprese, secondo Kotter, cogliere le opportunità che si presentano affrontando il processo di cambiamento solo con le modalità che hanno funzionato bene in passato (anche solo fino a pochi anni fa).
Le strutture gerarchiche e i processi organizzativi che sono stati usati per decenni per condurre e sviluppare le imprese sembrano non essere più strumento certo di successo in questo mondo che si muove tanto velocemente.
Discontinuità, cambiamento rapido, adattabilità ai contesti, visione strategica fluida, tutti parlano oggi di questo; ma insieme ci si chiede anche come mantenere stabilità, capacità di perseguire obiettivi solidi e a lungo termine e resistenza a logiche di mercato mordi e fuggi che negli anni hanno dato vita a prodotti e servizi di bassa qualità, orientati all’individuo e con un dannoso impatto ambientale e sociale. Chi ce la fa a trovare la quadra viene definito - impresa, città o paese che sia - resiliente. Milano è tra le 100 resilient cities individuate dalla Fondazione Rockfeller. Ne siamo orgogliosi, è un primo passo.
La sfida si gioca tra questi elementi e ogni giorno bisogna saper procedere in equilibrio, come il funambolo protagonista dell’ultimo capolavoro di Luca Ronconi andato in scena al Piccolo Teatro, Lehman Trylogy. Solomon Paprinskij camminava sulla fune tirata tra due pali davanti alla borsa di New York; da quel filo tutto ha visto, vittorie e sconfitte di una sistema che ha attraversato diverse generazioni, modelli economico-finanziari, fino alla sua fine; grazie alla capacità di stare in equilibrio, Paprinskij è sopravvissuto a tutti, mentre ha visto un intero impero sgretolarsi sotto le sue scarpette di atleta.
Essere avanti e insieme qui, tenere saldi i principi del passato su cui si è costruito il valore e insieme avere il coraggio di mettere in discussione i modi con cui questi principi vengono interpretati, rappresentati e implementati per mercati che cambiano sempre.
La tecnologia è uno straordinario strumento, ma attaccarsi ad essa per assicurarsi il successo dei processi di cambiamento significa peccare di eccessiva ingenuità e cercare fuori quello che invece va costruito e trovato dentro di sé, dentro l’organizzazione, dentro alla propria cultura.
Non basta mettere la scarpe a un bambino per pretendere che cammini da solo.
E di fronte ai cambiamenti attuali le imprese, proprio come i bambini, sono chiamate a imparare a parlare nuovi linguaggi e a camminare con le proprie gambe su terreni difficili trovando il giusto equilibrio per procedere, come faceva magistralmente Paprinskij e come continua a fare l’ormai celebre Philippe Petit, vero artista della fune, autore di libri di rara bellezza e ispirazione.
Curiosità, apertura, inclusione, consapevolezza che la rete ha rotto i paradigmi economici di mercati colonizzatori in crisi e ha aperto alla collaborazione, alle relazioni, all’innovazione sociale, a quella che Navi Radjou, co-autore del best seller Jugaad Innovation (ed. Rubettino, 2014) e del nuovo Frugal Innovation (ed. Economist Books, 2015), ha definito «ingegnosità collettiva», dando vita a una straordinaria «Onda» di cambiamento che, dopo aver raccolto casi e racconti in ogni parte del mondo, si è appena abbattuta su Milano, lasciando preziosi detriti culturali e un potente network di imprese sociali, istituzioni profit e no profit e lucide menti desiderose di essere agenti di un cambiamento che non può più essere trascurato. E l’arte è al centro, perché è tra la bellezza, la consapevolezza che l’ingegnosità collettiva batte il talento individuale e il coraggio di agire nuovi modelli che queste persone si muovono per cambiare ciò che non va più.
Questo è così evidente, che a commissionare il progetto Wave a Navi e poi la sua implementazione Italiana a Triviquadrivio, è stato un grande gruppo bancario come BNP Paribas-BNL, che ha compreso che i modi più innovativi di fare economia sono oggi nascosti nelle pieghe di una cultura che pensa «out of the box», agisce collettivamente, è allergica ai modelli convenzionali e disposta a rimettere in circolo e condividere la conoscenza, a vedere lo scarto come risorsa e a vivere il cambiamento non come una triste punizione ma come una gioiosa opportunità.
Lo spiega bene Leonardo Previ, presidente di Trivioquadrivio e curatore del programma milanese di Wave, nel suo libro fresco di stampa «Manuale illustrato di incompetenza manageriale. Sull’ingegnosità collettiva» (ed. LSWR, 2015), facendo appello alle scienze, alla filosofia, all’arte e all’estetica al servizio di una nuova cultura dell’organizzazione.
E non è un caso che per mappare gli esempi di ingegnosità collettiva BNP Paribas ha scorrazzato per il mondo dieci artisti che con il loro obiettivo tecnologico, ma soprattutto culturale e creativo, hanno permesso a un nutrito pubblico di visitatori in Europa e nel mondo di ammirare i volti e le storie di persone straordinarie che si ingegnano, collettivamente, a cambiare il mondo.
Wave ci ha fatto capire che non si procede senza disponibilità a mettersi in discussione, a guardare con attenzione gli altri diversi da noi e imparare insieme a loro, tutti i giorni, qualcosa di nuovo, a frenare i propri istinti di reiterazioni del noto per cercare domande che ancora non si conoscono.
Questo fanno i buoni artisti quando creano ispirandosi ad altri, e questo fanno ancora prima i bambini, tutti i giorni. Entrambi scopritori professionisti di nuove domande che prima non esistevano; fino a che i primi, per mano di un mercato scaltro e troppo accondiscendente, e i secondi, per mano della scuola e dei suoi programmi da rispettare, non vengono obbligati a ripetere cose note e a farsi domande di cui sanno sempre già la riposta, bloccando così i processi creativi e quelli di apprendimento.
Quest’anno con Wave abbiamo fatto un’esperienza nuova che ha aperto importanti prospettive che abbiamo iniziato a condividere con le imprese con cui collaboriamo, così come nel 2007, con il primo Art For Business Forum a Milano, si era aperta una strada piena di sorprese quando ponemmo sul tavolo delle imprese e insieme delle istituzioni culturali una domanda fondamentale: di quali strumenti culturali dotarsi per affrontare quella che sarebbe stata una crisi senza precedenti, per le sue dimensioni globali? Avevano intravisto nell’arte e nelle migliori espressioni della cultura contemporanea una leva abilitante che volevamo condividere con le imprese del nostro paese.
Abbiamo così coinvolto per prime quelle che ci sembravano avere una maggiore sensibilità alla cultura, alle sfide dei linguaggi del contemporaneo, meno paura di parlare di cambiamento e una sufficiente visione per investire parte delle loro risorse nel «perdere tempo» a frequentare i luoghi del pensiero e dell’arte. E poi abbiamo cercato di portare questa visione in quelle imprese invece più legate a logiche tradizionali. Non so se siamo riusciti ad aprire qualche breccia, la strada è ancora lunga, a volte i nostri semi hanno attecchito, altre abbiamo fallito clamorosamente. Ma abbiamo sempre imparato.
Dopo cinque anni di Art For Business Forum, due pubblicazioni ed esperienza sul campo che ci hanno dato riposte interessanti e utili, abbiamo compreso tre cose fondamentali:
1. nelle imprese tradizionali (parliamo di banche, imprese manifatturiere, energetiche, assicurazioni, ecc..) ci vuole un terreno preparato e arato perché i semi dell’arte e della cultura possano attecchire generando cambiamento nei comportamenti, nelle relazioni e nel modello organizzativo;
2. in questo genere di imprese ad arare il campo deve essere sempre la testa, il board, quelli che hanno in mano le redini della carrozza. Altrimenti si rischia di avere effetti nulli o talvolta controproducenti.
3. Il lavoro di preparazione e di semina deve implicare la disponibilità all’attesa della raccolta dei frutti, che arrivano in tempi lunghi, non certo nell’arco di un trimestre di bilancio.
 
Con l’esperienza dell’innovazione frugale, che abbiamo portato in Italia dai paesi del cosiddetto e oggi non più «terzo mondo», e con l’onda di Wave, cerchiamo di unire alla dimensione artistica e creativa il recupero di una cultura di una dimensione collettiva che, come scrive lo psicanalista Luigi Zoja in una bel libro sul dono (Dono, dunque siamo, ed. Utet, 2013) , «è sempre più lontana dall’essere istintiva, perché la piccola comunità solidale in cui istantaneamente ci si riconosce e ci si sorride è stata rimpiazzata da agglomerazioni anonime e mostruose».
Riportare il senso della necessità dell’altro nella mostruosità degli agglomerati organizzativi e urbani e farlo incontrare con la spinta alla creatività e all’artisticità è una nuove sfida che ci entusiasma. Cercasi compagni di strada.
 

 
 
Valeria Cantoni è Amministratore delegato di Trivioquadrivio