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Humanities oggi in Italia: che fare?

  • Pubblicato il: 20/01/2012 - 08:49
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Michele Dantini

Proviamo a considerare la questione «Death of the Humanities» nei suoi aspetti strategici, con riferimento al caso nazionale. Semplifichiamo. In anni recenti il discorso sull’innovazione è stato condotto in proprio e come sequestrato dagli economisti: nel momento in cui si vanno ridefinendo gli assetti universitari (le politiche, i finanziamenti, l’accesso alle professioni), corsi di laurea in humanities e accademie sono di fatto ignorati dal progetto politico-istituzionale (e socio-culturale) che si va consolidando.
«La mia preoccupazione, scrive Martha Nussbaum in «Non per profitto» (2011), riflessione sulla crisi globale degli studi umanistici, è che nel vortice della concorrenza corrano il rischio di sparire capacità essenziali per l’integrità di qualsiasi democrazia: la capacità di pensare criticamente; la capacità di trascendere i localismi per affrontare i problemi come “cittadini del mondo”; infine di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro». Nel febbraio 2011, a Roma, alla Camera dei Deputati, si è tenuta una Working Capital Conference dal titolo neppure modesto, «Rifare l’Italia». Nell’occasione Francesco Profumo, al tempo rettore del Politecnico di Torino, seduto al tavolo dei relatori con, tra gli altri, Corrado Passera, Franco Bernabé, Irene Tinagli, Enrico Letta, Gianluca Dettori, ha tenuto quello che oggi, retrospettivamente, può apparirci il discorso di programma del ministro dell’istruzione e della ricerca scientifica. Malgrado l’enfasi posta da Tinagli nella relazione introduttiva sui caratteri «non lineari» della «creatività» e il proposito di portare la discussione su aspetti «non strettamente economici» ma «politico-culturali» e «di sistema», non una parola è stata spesa, dagli altri relatori, per studi e competenze che non siano organici al mondo corporate: il modello «innovativo» cui si fa riferimento pressoché esclusivo, particolarmente nell’intervento di Profumo, finisce per essere quello ingegneristico-manageriale (o del design industriale). Attorno al tavolo siedono esponenti del mondo dell’industria e delle banche: eppure arte, letteratura, cinema, teatro, scienze umane contribuiscono e hanno contribuito non poco al prestigio internazionale del paese. Perché non prevedere ad esempio che la proposta di una Banca nazionale dell’innovazione, lanciata da Edmund Phelps, economista postkeynesiano e premio Nobel nel 2006, commentata favorevolmente dai relatori presenti al convegno, possa beneficiare start up negli ambiti dell’editoria, il giornalismo, le tecnologie (informatiche e non) dei beni culturali, l’impresa sociale? E’ evidente che, perché ciò accada, i corsi delle facoltà umanistiche dovrebbero essere concepiti in modo nuovo, e integrate le competenze: niente che non si possa fare con un sobrio programma di investimenti e un progetto politico di riqualificazione. La riflessione potrebbe inoltre includere indicatori di «innovazione» che non siano necessariamente economicistici, eppure accrescano senso di responsabilità e appartenenza, producano partecipazione e diffusa densità argomentativa, preludano a trasformazioni sociali, culturali, ambientali. Per Claudio Gentili, responsabile educazione di Confindustria, gli studenti dei corsi di laurea in studi umanistici acquisiscono «deboli capacità cosiddette decisionali (incertezza di fronte a un menù di scelte) e deboli capacità cosiddette diagnostiche (per esempio nella ricerca di informazioni online)». L’affermazione merita di essere considerata, anche se (o proprio perché) confligge con nostre convinzioni profonde. Tendiamo infatti a ritenere che proprio l’esercizio assiduo dell’interpretazione (di un testo letterario o di un’opera d’arte, poniamo) consolidi attitudini idonee all’orientamento in contesti complessi. Quanto si rimprovera agli studi umanistici è a nostro parere effetto di una crisi interna, del progressivo deficit di insegnamento critico e qualificato, delle gravi inefficienze dei processi di reclutamento, della mancanza di scelte politico-istituzionali e di finanziamenti adeguati e selettivi, piuttosto che gap connaturato.
Da circa quattro decenni l’analisi testuale (e iconografica) ha congiunto al proprio interno metodo filologico e prospettive critico-ideologiche maturate all’interno di discipline storicamente distinte dalla storia letteraria (o artistica), quali l’etnografia, la sociologia, gli area studies, gli studi di gender, l’ecologia politica e sociale. Gli studi sull’immigrazione, la teoria postcoloniale o dell’incontro culturale, i dibattiti sulle politiche della memoria o l’industria culturale hanno prodotto formidabili ampliamenti interpretativi e discorsivi, destato nuove sensibilità, sospinto l’uso del testo in direzioni civili e democratiche. Si sono prodotte discontinuità tecniche e storiografiche che dobbiamo riconoscere come «innovazione» e che possiedono rilevanti implicazioni sociali. In un articolo recentemente apparso su «The New York Review» Anthony Grafton sostiene con efficacia l’argomento di una maggiore capacità educativa degli «studi liberali» – che includono, nella tradizione pedagogica anglosassone, scienze sociali, naturali e matematiche. Ricerche sul campo condotte con l’uso di questionari in università americane sembrano provare minore disposizione al «pensiero critico, ragionamento complesso e scrittura» degli studenti di economia, comunicazioni e altre discipline tecniche. «L’università non dovrebbe provvedere all’educazione professionale nel senso ristretto di un insegnamento acritico di regole pratiche e nozioni tecniche in un particolare settore», aggiunge Keith Thomas, storico e accademico britannico in «Universities under Attack».
«Le istituzioni che impartiscono un’educazione tecnico-professionale sono componenti indispensabili di un sistema formativo superiore. Ma non si rende loro un buon servizio chiamandole “università”: perché non possono reggere il confronto e sembrano imitazioni scadenti delle vere università».

Possiamo affermarlo con ragionevole certezza. La questione dell’innovazione investe alla radice i processi linguistici e cognitivi, se non addirittura autostoriografici; e simili processi presuppongono attitudini all’elaborazione critica, all’avventura intellettuale. Come pensiamo sia possibile innovare se non per le capacità di considerare un contesto in maniera riflessiva, inserirvi intenzionalmente un’infrazione altamente funzionale, misurare la discontinuità prodotta, consolidare e diffondere questa stessa attraverso pratiche di organizzazione inedite, meticolose e progressive? Proprio la distanza tra economia e cultura, impresa e ricerca universitaria è tra i problemi maggiori del paese: ha costi ingenti sul piano occupazionale, produttivo e della job satisfaction. «Quello dell’istruzione, in Italia, è un insuccesso che si riflette sulla capacità delle persone di trovare occupazione», afferma Fabrizio Barca, già economista Ocse e attuale Ministro per la coesione territoriale, «sulla capacità dei lavoratori di innovare nel processo produttivo e di interagire con il lavoro più specializzato, sulla capacità degli imprenditori di concettualizzare le proprie intuizioni produttive e di cercare e stabilire una proficua relazione con la scienza e la ricerca».
L’apprezzamento sociale diffuso per il lavoro fatto ad arte, l’ingegno e l’invenzione si sono sviluppati storicamente, nel nostro paese, nel contesto delle arti visive e letterarie. La riflessione politica si è nutrita di acutezza filologica. E’ irragionevole rinunciare ad ambiti di eccellenza che contribuiscono (o hanno sinora contribuito) alla notorietà internazionale dell’Italia. «E’ attraverso l’università, afferma Tinagli, che un paese si rende autorevole nel sistema internazionale del sapere e della conoscenza»: concordiamo. Diviene dunque persino più stupefacente osservare come con la recente riforma universitaria e l’istituzione dell’Anvur, l’agenzia di valutazione dei docenti universitari, non si sia affatto pensato di introdurre incentivi alla traduzione di saggi o volumi pubblicati in Italia: si è invece creduto di dover premiare ricerche pubblicate da subito in lingua inglese, incuranti della correlazione tra processi linguistici e cognitivi e malgrado da parte degli stessi studiosi della comunità angloamericana vi sia una pronunciata attenzione al rispetto delle diversità culturale. Un trattato di fisica è cosa diversa da una storia letteraria, o dalla ricostruzione di una scuola pittorica trecentesca. Si pone enfasi sugli standard internazionali e l’affrancamento della ricerca da dimensioni localistiche separate: l’orientamento è condivisibile, occorre tuttavia predisporre un dizionario dedicato e stabilire premesse scientifiche in accordo con le specificità procedurali e discorsive di ogni disciplina.
La semplice invocazione del termine «internazionale», per quanto attiene alle discipline umanistiche, non è chiarificatrice né di per sé salvifica. Si è parte della «cultura [umanistica] internazionale», oggi, se si è capaci di costruire prospettive «native», né mimetiche né subalterne; e si ricompongono «storie» situate nel punto di intersezione tra «locale» e «globale». L’adozione di metodologie o topiche mainstream, di «standard» globali non è invece in alcun modo premiata. Esistono attualmente sufficienti garanzie che l’individualità delle discipline storiche sia riconosciuta e osservata in seno agli istituti di controllo e valutazione dell’attività universitaria? Le competenze umanistiche, storiche e sociali sono purtroppo palesemente sottorappresentate nell’Anvur. «[In passato ritenevamo] che la maggior parte dei progressi economici avven[issero] solo per scoperte scientifiche o esplorazioni estranee al business», afferma Phelps in un modo che a taluni potrebbe sembrare eccessivamente dogmatico, o quantomeno tautologico. «Oggi è riconosciuto che la maggior parte dei progressi economici avvengono a partire da innovazioni grandi e piccole concepite dalle imprese stesse e da chi ci lavora». Credo vi siano possibilità di procurare punti di vista diversi alla discussione, e che occorra farlo, pena l’esclusione economica, giuridica e sociale. Si può cercare di destare ascolto presso chi ha cultura e verosimilmente convinzioni diverse. Il terreno tuttavia – questa è un’osservazione critica e autocritica insieme – non è stato preparato.
L’odierna estetizzazione confindustriale delle capacità imprenditoriali; l’enfasi sull’innovazione intesa in senso primariamente economico e industriale; la superiorità riconosciuta a livello globale al modello tecnico-quantitativo nelle politiche dell’istruzione non sono forse conseguenza del fatto che il discorso artistico e letterario si è nel tempo tecnicizzato, distaccandosi dal riferimento al mondo condiviso, cercando sostegno in discipline positive, negando riconoscimento e sollecita manutenzione a ciò che appare più perspicace, integro e vivo? Dismesse in ambito filologico [da quella che Tullio De Mauro chiama «l’ondata scientista», propagatasi a partire dagli anni Sessanta], le retoriche dell’ammirazione sembrano essersi dispiegate negli ambiti più diversi finendo per annettersi propagandisticamente, e conferire apparente sovranità persino ai territori del consumo.

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Michele Dantini è Professore Associato di storia dell’arte contemporanea all’Università Piemonte Orientale e al Master MEC Università Cattolica di Milano