Bologna come sistema museale
Fabio Roversi Monaco, giurista, è stato rettore dal 1985 al 2000 della più antica Università del mondo. È Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, che a gennaio ha varato un grande museo diffuso.
Professor Roversi Monaco, dal 2003 il progetto «Genus Bononiae. Musei nella Città» è l’attività culturale strategica della Fondazione Carisbo. Un progetto ciclopico ora visibile in grandi luoghi d’arte della città. Qual’è l’idea di fondo?
Già nel 2000, in occasione di Bologna Città della cultura, abbiamo riaperto i musei universitari: questo progetto ne è una ideale continuazione e vuole realizzare nel cuore del centro storico - presente nella World Heritage List dell’UNESCO per i suoi 40 chilometri di portici - un percorso articolato in sette sedi storiche, alle quali se ne aggiungerà un’altra entro fine anno. Ognuna sarà destinata a specifiche funzioni culturali che, nell’insieme, costituiranno un dispositivo museale diffuso, organico e rappresentativo di diversi momenti della storia civile e architettonica di Bologna.
Non erano sufficienti i musei esistenti? Quale la differenza?
Va oltre la nozione tradizionale di un museo della città (nato dall’accorpamento di collezioni eterogenee e variamente riconducibili al passato locale) per fondarsi sulla necessità di una narrazione della storia urbana attraverso la conoscenza diretta dei luoghi, le esposizioni permanenti, l’integrazione delle testimonianze fisiche del passato e del presente in un programma di attività strutturato che include musica, parole, immagini ed esperienze culturali aperte ai linguaggi contemporanei.
Molti i siti coinvolti.
La Biblioteca d’Arte e di Storia di San Giorgio in Poggiale, con un patrimonio librario dal Cinquecento a oggi; San Colombano, con la collezione degli strumenti musicali antichi del maestro Luigi Ferdinando Tagliavini; la chiesa di Santa Cristina, sede di concerti; Santa Maria della Vita, con «Il Compianto sul Cristo Morto» di Niccolò dell’Arca che ritengo un capolavoro assoluto; Palazzo Pepoli Vecchio, un innovativo museo dedicato alla storia della città; Palazzo Fava, affrescato dai Carracci per le esposizioni della nostra collezione; San Michele in Bosco, balcone sulla città ricco di opere d’arte.
Quali gli obiettivi di questo museo diffuso?
In questi anni abbiamo restituito alla fruizione pubblica dei tesori artistici oscurati dal degrado e persino sconosciuti. Nello stesso tempo «Genus Bononiae» è un insieme di musei allestiti con opere esposte a rotazione e un calendario di avvenimenti diversi, per stimolare il pubblico a ritornare. Oltre ai cittadini, pensiamo a un turismo colto, che voglia fermarsi in questa città accogliente. Negli ultimi mesi abbiamo rafforzato il rapporto con i Ministeri dei Beni culturali e del Turismo. Ci stiamo muovendo già con qualche successo con un’agenzia specializzata per ridiventare un polo di attrazione internazionale.
Un grande investimento realizzato e prospettico per la gestione. A quanto ammonta?
A 70 milioni di euro. Non seguiremo il modello di Torino per l’Egizio o in altri casi per l’arte contemporanea. Le fondazioni finanziano istituzioni, noi gestiamo beni nostri, che abbiamo acquisito e restaurato attraverso una nostra società che si chiama «Museo della città».
Una società strumentale patrimonializzata oppure finanziata dalla Fondazione?
Entrambe. I beni sono intestati alla strumentale, che può giovarsi dei vantaggi che derivano dal trattamento fiscale e possono essere gestiti con stampo aziendalistico. Poi viene finanziata una programmazione pluriennale. L’indirizzo è coprire una parte significativa dei costi attraverso la vendita dei biglietti.
Perché «Genus Bononiae», la stirpe della città?
Bologna è tra le città più belle d’Italia perché, nonostante le violenze perpetrate nel tempo, ha un tessuto connettivo urbano che è rimasto estremamente coeso, denso e abbastanza conservato e ha dei beni di altissima qualità non sufficientemente valorizzati. Ha un ruolo rilevante da almeno 2.000 anni. Era una città etrusca, nata da una fusione di vari villaggi; poi ci sono stati i distaccamenti dei Celti e dei Galli. È diventata una città romana e il centro della Via Emilia, l’opera di più grande impatto giunta fino a noi dall’antichità, espressione di una formidabile politica: il collegamento degli scambi, del sapere. I romani portano nella fertile zona della Po insediamenti di coloni e veterani. Un’eterogeneità di popolazione caratterizzata da un forte senso delle istituzioni, della comunità e della cooperazione dal quale discende il tratto distintivo dell’Emilia. Nel Medioevo a Bologna i rituali ecclesiastici subiscono mutamenti, nascono formulari giuridici e i notai diventano una classe dominante. L’Università nasce a Bologna. Nel XII secolo erano migliaia e migliaia gli studenti che venivano da altri Paesi, alcuni dei quali sono andati a fondare altre università. Carlo Magno ci viene due volte, Carlo V si fa incoronare qui. Il Papa vi sposta la sua sede prima di andare ad Avignone. Dante riconosce nel primo Liber paradisus che la prima emancipazione degli schiavi è stata fatta a Bologna. La città resiste a Federico II e in quella fase l’istituzione, la repubblica della municipalità, è assolutamente indipendente. Poi la storia evolve, con la prevalenza dei guelfi, Bologna ricade sotto il papato, che certo non le ha giovato. Nel frattempo, oltre al diritto, si sviluppano la medicina, le arti e si arriva ai primi musei scientifici che nascono qui. Una città ricchissima ancora nel XIV secolo per la coltura della seta e soprattutto per la capacità di saper fare. Tutto questo vuol dire che c’è un filo conduttore e che esiste una stirpe. Non so se esisterà ancora. Va tutelata.
Qual è la sua lettura dell’oggi?
Negativa in generale, anche per la nostra città che però ha il compito di ripartire dalla propria storia, di comprenderla fino in fondo, ragione di questo progetto. Per coloro che sono senza memoria, la larghissima maggioranza e non parlo degli stranieri.
Quindi «Genus Bononiae» va sugli assi forti identitari di questo luogo e ne richiama l’attenzione per un riposizionamento? Sì, cercando di compenetrare la storia della città e le sue bellezze artistiche, le sue opere d’arte, la storia economica e sociale. Un esempio. A Bologna c’ è un’ osteria che è in funzione dal 1474, l’Osteria del Sole, famosissima.
L’ abbiamo acquistata per evitare fosse ceduta a un prêt à porter e l’abbiamo data in gestione ai titolari per mantenerne le caratteristiche, come è stato per centinaia di anni. Non abbiamo mai pensato di fare concorrenza ai musei, fra l’altro molto belli e poco visitati, ma di collaborare e ci stiamo riuscendo bene. È il momento della comunicazione e del marketing.
Il disegno complessivo da Lei concepito ha avuto il supporto di consulenti nelle diverse aree tematiche. Chi dirige questo complesso meccanismo?
Per l’architettura Mario Bellini e Michele De Lucchi. La parte relativa alla storia dell’arte è curata da Philippe Daverio che guida un consiglio scientifico. Massimo Negri si occupa della parte museografica, scientifico-culturale.
Una partenza sotto i riflettori, con un investimento tra i prin- cipali nel panorama nazionale su un’unica operazione e ora la gestione. Non ingesserà la vostra operatività, sottraendo fon- di ad altre erogazioni sul territorio?
Non sono più i tempi per le erogazioni illimitate. Abbiamo creato molti posti di lavoro, ad esempio per cooperative di giovani, investendo nel territorio. Daremo ciò che davamo prima? No, daremo meno. Abbiamo fatto una scelta, gestiamo i nostri beni culturali e seguiteremo a sostenere le attività culturali cittadine, i restauri, ma in misura inferiore rispetto al passato. Non rinunceremo ai nostri interventi, ma li scremeremo. Saremo più rigorosi nelle erogazioni perché tante volte mi sono reso conto che abbiamo finanziato iniziative che non avevano respiro di lungo periodo.
Qual è l’impatto del vostro operato sul territorio? Avete posto in essere dei meccanismi di monitoraggio?
«Genus Bononiae» è all’inizio, potremo fare una valutazione seria alla fine del 2012, dopo un anno di funzionamento. La gestione deve diventare fondamentale anche per individuare i correttivi necessari, è un modello totalmente nuovo e può riservare delle incognite. Ho fatto però una considerazione: abbiamo investito molto sui restauri di San Petronio, San Bartolomeo, San Domenico, San Vitale e poi? San Petronio dovrebbe avere dieci volte tanto. Non possiamo svolgere un ruolo di supplenza dell’Arcivescovado, dello Stato. Dopo aver salvato dalla distruzione quattro edifici simbolo, ora abbiamo una più precisa vocazione culturale.
Avete un dialogo con la banca partecipata Intesa-SanPaolo per gli investimenti culturali?
Non ancora. Ci sono sinergie attivabili con le banche di origine, anche se dal punto di vista giuridico c’è una netta distinzione. Il nostro gruppo partecipato ha accumulato con le diverse fusioni un patrimonio di straordinario interesse: quello della Banca Commerciale Italiana con la raccolta Mattioli, del Banco di Napoli con i Caravaggio. Credo che le collezioni dei gruppi bancari possano essere fruite nell’interesse pubblico insieme a quelle delle fondazioni collegate. Per noi si tratta dell’adempimento di uno scopo istituzionale, per il gruppo bancario ha valenza di comunicazione. Secondo me può e deve essere fatto.
Negli ultimi anni vi siete distinti anche come committenti di opere d’arte contemporanea: perché quest’attenzione per la produzione artistica nazionale di oggi?
Sono fermamente convinto che l’arte italiana del Novecento sia stata messa da parte in modo vergognoso: molti dei più grandi artisti nella prima metà del secolo erano italiani. Dove sono finiti Arturo Martini o Mario Sironi? Ma anche Fontana, riscoperto da poco. Acquistiamo opere di autori italiani e cerchiamo di valorizzarli, ma bisognerebbe avere ogni anno 50 milioni da investire per svolgere un ruolo a livello internazionale. Siamo partiti con una grande mostra sul Futurismo, il cui Manifesto è uscito prima a Bologna e poi a Parigi.
Come ha detto recentemente il Presidente dell’Acri «le fondazioni di origine bancaria, soggetti assurti alla notorietà, non sono ancora ben comprese nel loro ruolo e nella loro identità»: concorda?
Sì. Il ruolo centrale sul territorio è ancora sconosciuto al di fuori degli addetti ai lavori. Il sistema è molto disarticolato, c’ è un’operatività e una volontà di operare a macchia di leopardo.
Sul «Financial Time», Rachel Spence, commentando favorevolmente le potenzialità della città e il progetto visionario che impatta sulla rilettura del territorio, trova inusuale il restauro finalizzato a una gestione diretta che sottende «il rischio di un impero privato». Sono giunte altre critiche?
Sì, da Italia Nostra, un attacco irrilevante, ci accusava che dietro il progetto non ci fosse un’idea. Critica che proveniva dall’ex commissario europeo Ripa di Meana, in merito al lavoro dell’architetto Bellini, in Palazzo Pepoli, su un cortile che era stato devastato per quasi un secolo dagli uffici della Cassa di Risparmio. Nella città l’omologazione è stata totale per almeno 40 anni. Chi non seguiva certi circuiti, veniva criticato in modo aprioristico. Comunque Ripa di Meana, che non aveva visto il luogo, si è scusato. Mottola Molfino si è pronunciata senza sapere di cosa parlava e se ne è discusso. Più che le critiche alla partenza, condivido le preoccupazioni per il futuro: la gestione, il mantenimento. È inutile fare innovazione se si ha paura del privato. Deve andare avanti tutto come oggi? Gestione pubblica inesistente, beni che si distruggono. Non credo.
❑ Fabio Roversi Monaco è Professore ordinario di Diritto Amministrativo all'Università degli Studi di Bologna e dal 2001 è Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna.
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(X Rapporto Annuale Fondazioni)