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UN FUTURO PER LE CITTA’ D’ARTE E PER I CENTRI STORICI. LE OSSERVAZIONI DI AEDON

  • Pubblicato il: 15/01/2016 - 14:42
Autore/i: 
Rubrica: 
STUDI E RICERCHE
Articolo a cura di: 
Sendy Ghirardi

 
Qual è il futuro delle Città d’Arte? Di quali policies hanno bisogno i centri storici, spesso trasformati in parchi tematici a rischio desertificazione? Come possono essere valorizzati e diventare perno di sviluppo economico? Politiche urbane ed economiche per le Città d’Arte e centri storici, un argomento delicato e a lungo dibattuto, per la sua polidimensionalità in campo giuridico. Un’analisi di Aedon, rivista online di diritto e arti, che,  nel numero 2 del 2015, presenta una panoramica corale delle problematiche che investono la materia e, come di consueto si mette dalla parte delle soluzioni, suggerendo possibili piste di lavoro per il futuro
 

 
Le Città d’Arte come i centri storici racchiudono la dimensione simbolica e identitaria di un dato territorio. La valenza culturale spesso si scontra con politiche di tutela, urbanistiche e commerciali che collidono tra loro, senza riuscire a trovare la combinazione adatta per svilupparne il potenziale, sotto tutti i punti di vista. 
La peculiarità di questi contesti data dalla concentrazione unica del patrimonio storico e artistico all'interno di un’area urbana ha orientato il dibattito su possibili regimi giuridici speciali. È davvero necessario?
Il Prof. Marco Cammelli, sul numero 2 della rivista Aedon de il Mulino da lui diretta, suggerisce alcune linee di intervento che rispondono ai problemi peculiari che le investono. L’azione ordinaria  all’interno delle Città d’Arte, secondo il raffinato giurista, deve essere qualificata e necessita di un coordinamento e una razionalizzazione sia sul piano strettamente culturale che su quello della urbis, per quanto riguarda il supporto alla mobilità e il contrasto al degrado ambientale,  e della civitas, ossia la convivenza sostenibile delle esigenze del turismo con quelle dei residenti. Sottolinea l’importanza della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale e soprattutto ripone l’attenzione sul bisogno di un governo di insieme cooperativo, tra i diversi attori. Il governo delle Città d’Arte infatti, articolandosi in  termini di responsabilità su più soggetti quali le amministrazioni locali, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e gli apparati tecnici su territorio e ambiente, deve essere il «responsabile del sistema, con antenne in grado di intercettare le reti globali e dialogare con le sedi, politiche e tecniche, istituzionali nazionali; capace di cooperare con le agenzie pubbliche nazionali e gli altri enti presenti, e che trova nelle istituzioni cittadine a base rappresentativa la sua sede, la sua legittimazione e la scala alla quale assicurare l'operatività dei settori valutandone l'interdipendenza». Per fare ciò è imprescindibile una strategia uniforme di lungo termine che presenti piani di sviluppo integrati allineando singoli progetti, possibili attori pubblici e privati e risorse. Ne emerge che l’assetto istituzionale debba essere flessibile da permettere «uno specifico assemblaggio di risorse e politiche di settore inevitabilmente diverse e correlate a ciascun contesto». Per facilitare la riuscita di soluzioni diversificate e calibrate a ogni situazione, Cammelli, propone una differenziazione a livello amministrativo, contenendo e facendo arretrare la legge a principi sostanziali e procedurali generali e riservando il resto all'amministrare. Questa soluzione è compatibile con il regime legislativo ordinario, senza ricorrere a regimi speciali in cui i costi superano i vantaggi. L’autonomia di cui parla Cammelli presuppone un apparato centrale capace di definire un quadro generale di regole politiche, evitando automatismi legislativi restituendo discrezionalità e conseguente responsabilità all'amministrazione. Le città devono essere riconosciute con un apposito Statuto che preveda stabili condizioni di autonomia entro i principi fissati dal governo centrale in materia di funzioni, governance, acquisizione e utilizzazione di risorse, relazioni dirette con le agenzie nazionali preposte allo sviluppo delle reti (stradali e ferroviarie, di energia e delle comunicazioni), organizzazione e gestione di servizi. Questa modalità aprirebbe il terreno delle azioni locali funzionali allo sviluppo delle Città d’Arte, in primis rafforzando l’interdipendenza tra beni culturali, paesaggio, ambiente e territorio con la conseguente richiesta che la loro tutela sia comprensiva anche del profilo attivo della fruizione e relativa valorizzazione. In secondo luogo favorirebbe le relazioni con le articolazioni periferiche del Mibact e agevolerebbe il coordinamento interno.  In sintesi ciò che Marco Cammelli sottolinea e ribadisce è l’importanza di un passo avanti in tema di cooperazione. È evidente la necessità di una maggiore collaborazione tra più amministrazioni e di una orizzontalità tra le politiche di settore, sia all’interno del singolo soggetto istituzionale che tra vari livelli di governo, in particolare tra Mibact e città, relazione che rimane ancorata a un sistema conflittuale pensato per un contesto diverso. Infine, l’autore suggerisce di ripensare alla definizione concettuale e legislativa di tutela, sottolineando l’importanza della valorizzazione e quindi della fruizione attiva pianificata in modo strategico.
Dichiara la necessità di uno Statuto proprio delle Città d’Arte, anche Antonio Bartolini, Professore ordinario di Diritto Amministrativo all’Università degli Studi di Perugia, che pone le basi per progettarne uno unico per l’Italia e l’Europa nel suo insieme. La difficoltà, sottolinea lo studioso, sta nel fatto che il diritto positivo non considera la Città come un bene in sé, in quanto costituita da molti elementi che sottostanno a regolazioni giuridiche diverse, anche se allo stesso tempo evocano la necessità di una disciplina unitaria avendo la caratteristica di essere luoghi d’arte.
La locuzione Città d’Arte è infatti stata utilizzata dal legislatore (Decreto Bersani sul commercio, Art. 12, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114; Decreto in materia di federalismo fiscale municipale, Art. 4, d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23) senza però essere definita, assimilandola per lo più a località turistica. Questo non vuol dire che non esistano formanti giuridici, oltre che atti di soft-law in cui ricercare una base per fornirne una nozione: in particolare, vanno ricordate la Carta di Firenze, recante lo "Statuto per le Città d'arte d'Europa", e lo Statuto dell'Associazione Città d'Arte e Cultura. Nel suo saggio Bartolini prende in esame oltre al concetto giuridico anche quello extragiuridico, raccogliendo le definizioni date da UNESCO, Istat, Wikipedia e i contributi letterari dottrinali in materia. La città d’arte è un complesso di beni artistici e paesaggistici, di attività culturali che sviluppano senso di appartenenza e identità, percepite dall’immaginario collettivo come rappresentative della cultura e della storia, e per questo aventi un potenziale quid proprium, anche da un punto di vista giuridico. 
Lo studioso evidenzia le esigenze e le premesse per favorire la nascita di uno Statuto «rafforzando le iniziative fin qui prese in via autonoma, attraverso la predisposizione di una serie di organi associativi,  promossi dalle Città d'arte, chiamati a stilare un elenco che abbia come effetto giuridico il riconoscimento dello status giuridico di Città d'arte ».  Questo chiarirebbe le caratteristiche qualitative e le buone politiche delle Città d’Arte, oltre a diventare strumento per un corretto marketing territoriale.
 
Giuseppe Severini, Presidente della IV Sezione del Consiglio di Stato, ci porta invece a riflettere sull’attuale problematica che sta investendo i centri storici: lo spopolamento. Con un excursus nella storia della loro preservazione ritrova la causa nella scarsa percezione del mutamento delle dinamiche sociali da parte della normativa. «In Italia si hanno ormai i centri storici mediamente meglio conservati al mondo. Nondimeno, la loro condizione di organismi viventi, per presenza effettiva di residenti, è preoccupante».  Ciò deriva del fatto che, negli anni '60, si figurava che la funzionalità degli spazi antichi sarebbe stata risolta per via essenzialmente amministrativa, mediante la connessione con la destinazione prescrittiva a edilizia residenziale pubblica. Prospettiva che però non dava adeguata importanza alle trasformazioni sociali, al rapido mutamento delle propensioni abitative e delle capacità di reddito che hanno contrastato tali provvedimenti.  Si è assistito a una desertificazione dei centri storici in favore delle periferie. Oggi ci si rende conto che sarebbe stato necessario difendere in positivo, piuttosto che con strumenti oppositivi, il tessuto sociale che li abitava.
Secondo lo studioso la commistione tra riqualificazione dei centri storici e edilizia sociale sia antistorica e dannosa: gli interventi di edilizia sociale selettiva mettono in discussione la salvaguardia dell’autenticità del centro cittadino, caratterizzato da una popolazione variegata. Risvolto ne è l’estromissione di quei soggetti che potrebbero per scelta culturale e di affezione, ben contribuire alla riqualificazione e alla vitalità economica.  Severini ci ricorda che la preservazione del centro storico riguarda anche la sua vitalità, l’anima della città, il suo patrimonio immateriale si articola nell’identità e nella qualità della vita. «Oggi più che altre leggi occorrono congrue politiche degli enti locali, proporzionate e adeguate per contrastare il primo elemento negativo, che è la desertificazione residenziale. Va garantita l'ordinaria abitabilità dei centri storici, abbandonando la via elusiva e stanca degli eventi effimeri e straordinari che li vogliono contenitori à tout faire piuttosto che luoghi degni di essere normalmente abitati: le due prospettive spesso sono in contrasto. I servizi privati seguono, perché è la residenzialità che ne fa la domanda; quelli pubblici vanno trattenuti, anziché estromessi». Per evitare una musealizzazione è necessario che siano messe in atto politiche dalle amministrazioni locali di coerenza con un'idea della città, del suo ruolo e del suo futuro: la volontà di considerare il centro per il valore identitario.
 
Stefano Fantini, Magistrato presso il Tar Umbria, si occupa del problema definitorio del concetto di centro storico, coditio sine qua non per la trattazione di un tema giuridico. Questo, spiega Fantini, per la compenetrazione tra la dimensione oggettiva del tema, che emerge nelle disposizioni normative intervenute in argomento, e la percezione soggettiva del centro storico, che è poi l'unica che propriamente ne giustifica un autonomo inquadramento e, se del caso, una specifica disciplina, ovvero una specifica politica». Da una panoramica legislativa, infatti, emerge che la locuzione è giuridicamente polisemica alla quale può attribuirsi un significato considerando il centro storico come un'entità unitaria, un unicum avente carattere di individualità storica quindi valenza culturale. Questo aspetto è stato preso in considerazione sia in materia di tutela urbanistica che in quello di tutela paesaggistica. La giurisprudenza più attenta infatti, cogliendo il peculiare carattere dei centri storici, ha coniato la categoria dei beni culturali urbanistici, allo scopo di sottolineare la loro finalizzazione «a conservare e tramandare nella loro integrità interi complessi urbanistici-architettonici, in quanto prodotti irripetibili di un ciclo economico e sociale ormai chiuso», (Cons. giust. amm. sic., 22 marzo 2006, n. 107). Pur non rientrando tra le aree tutelate per legge dal Codice dei Beni Culturali, art.142 del d.lg. n. 42 del 2004, vengono comunque anche inclusi tra quelle categorie di beni suscettibili di tutela paesaggistica mediante dichiarazione di notevole interesse pubblico, di competenza regionale, ed, in via sostitutiva, anche ministeriale. Ciò, spiega Fantini, almeno, sino a quando non prenderà corpo la pianificazione paesaggistica (che, in Umbria, è in corso di elaborazione), la quale, in relazione ai contenuti necessari ed alle finalità enucleati dagli artt. 135 e 143 del codice, dovrebbe ricomprendere tutte le tipologie di beni paesaggistici per ambito regionale; inoltre le previsioni di detti piani sono (saranno) cogenti per gli strumenti urbanistici degli enti locali e prevalenti sulle disposizioni eventualmente difformi contenuti negli stessi strumenti urbanistici (art. 145, comma 4). Seppure in linea marginale, può inoltre essere tutelato anche mediante la disciplina del commercio per quanto riguarda la salvaguardia delle attività culturali che testimoniano la storia della città (art. 4 del d.l. n. 832 del 1986, che consentiva ai Comuni di valutare la compatibilità di talune attività commerciali con le esigenze di tutela delle tradizioni locali, ovvero all'art. 6, lett. d, del d.lg. n. 114 del 1998 che impone alle Regioni, nella programmazione della rete distributiva, di perseguire, tra l'altro, l'obiettivo di "salvaguardare e riqualificare i centri storici anche attraverso il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti e il rispetto dei vincoli relativi alla tutela del patrimonio artistico ed ambientale).  Il centro storico non rientra dunque nell'accezione ristretta di bene culturale, ma è comunque testimonianza materiale avente valore di civiltà. Il fatto che non sia soggetto al Codice «non esclude- conclude Fantini - l'esercizio della competenza legislativa concorrente (ex art. 117, comma 3, della Costituzione) della Regione in tema di valorizzazione dei beni culturali ed ambientali; la giurisprudenza costituzionale ha infatti ritenuto che le leggi regionali possano valorizzare anche beni culturali non tipicamente previsti dal t.u. del 1999, ed oggi dal codice».
Luca Ferrucci, Professore ordinario di Economia e Gestione delle Imprese presso l'Università degli Studi di Perugia, identifica le cause economiche di declino dei centri storici nelle città medio piccole italiane e l'inefficacia delle diverse normative nazionali sulla piccola vendita al dettaglio localizzato in questi centri storici, facendo un’analisi delle normative in materia urbanistica e commerciale.  L’autore fa diverse considerazioni sui modelli di economia urbana, prima tra tutte quella secondo cui esiste un’interdipendenza tra la vitalità del centro storico e quella del territorio urbano circostante. L’economia urbana necessita per prima cosa di attori generatori di ricchezza e solo in seguito di operatori commerciali. Oggi appare assai dimostrato il fatto che la liberalizzazione commerciale nei centri storici non ha prodotto di per sé effetti positivi, per il semplice motivo che essa presuppone in primis l'esistenza di condizioni economiche sostenibili per l'accesso di nuove attività economiche. «La ricchezza economica deve essere generata per poter essere consumata e su questo piano, nell'economia urbana, è necessario avere un driver della crescita, un locomotore dello sviluppo, e non un vagone derivato (quale è il commercio)». La generazione di ricchezza si basa sulla capacità competitiva di interazione con altri luoghi. Quindi, un'economia aperta, capace di esportare i propri prodotti (agricoli, manifatturieri, high tech etc.). Ferrucci descrive quattro tipologie di centro storico italiano attuale in cui si possono individuare basi comuni di policies per la rivitalizzazione economica: moltiplicazione degli attrattori culturali (musei, teatri etc.) o eventi culturali, di nuovi residenti e di uffici della Pubblica Amministrazione. Tutti interventi che però non mutano la struttura fondante dell'economia urbana e quindi rischiano di apparire effimeri e strumenti contingenti nel fronteggiare il declino storico e strutturale del centro storico. Lo studioso propone un modello alternativo perfettamente compatibile con l’ubicazione del centro storico: la terziarizzazione fondata su industria high tech, culturale e creativa, attribuendo un ruolo di "locomotore" alla scienza, alla tecnologia e alla cultura ai fini della crescita economica di un sistema urbano, mettendolo in sintonia con le trasformazioni epocali che la società sta vivendo. Si tratta di una forma nuova di artigianato, connessa con il mondo digitale, che non ha bisogno di grandi spazi come le fabbriche e che può trarre vantaggio dal contesto artistico e architettonico del centro storico. «Da questo punto di vista, la rigenerazione (e non la rivitalizzazione) dei centri storici passa per la capacità di stimolare la formazione di un nuovo sciame di piccole imprese, ad alto contenuto di intelligenza e di innovazione, fondate da giovani ad alta scolarità». Si tratta quindi di creare le condizioni per questo artigianato digitale di cui il made in Italy manifatturiero e i beni culturali e possono divenire importanti drivers di domanda.
Per un futuro fiorente e una valorizzazione reale delle Città d’Arte e dei centri storici è imprescindibile una visione strategica a lungo termine da parte di un sistema governante cooperativo su vari livelli, che integri buone politiche di autonomia differenziata relativa agli specifici contesti. È necessario investire su progetti lungimiranti che creino reti di attori e risorse in una prospettiva di rinascita economica urbana, attraverso la vitalità dei residenti e il marketing territoriale.

Riferimenti:
Città d’arte tra autonomia e regimi specialidi Marco Cammelli
Lo statuto della Città d’artedi Antonio Bartolini
Centri storici: occorre una legge speciale o politiche speciali?di Giuseppe Severini
Il centro storico come bene paesaggistico a valenza culturaledi Stefano Fantini
Le potenzialità economiche dei centri storicidi Luca Ferrucci