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Pubblico e privato nelle Fondazioni culturali

  • Pubblicato il: 22/11/2013 - 17:58
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Toti S. Musumeci

La fondazione ben può esser utilizzata quale strumento principe di gestione del patrimonio culturale. In concreto, la scelta di tale ente è ormai sempre più frequente anche in considerazione della separazione del capitale investito, costituito dal conferimento effettuato all’atto della costituzione, rispetto al patrimonio del conferente e della possibilità di avvalersi di una struttura gestionale più snella di quella prevista per l’associazione.
Allo stesso tempo, fondazioni e associazioni hanno saputo assolvere egregiamente, proprio per la loro estrema snellezza, ad esigenze in veloce mutazione nel corso del tempo. Ciò nonostante, la disciplina dettata dal libro I del Codice Civile si dimostra inadeguata a fronte dell’emergere di necessità non presenti nell’orizzonte del legislatore del 1942. Basti pensare all’attività di impresa svolta dagli enti senza scopo di lucro, che è elemento fondamentale per lo sviluppo dell’autofinanziamento e quindi, in altri termini, fortemente condizionante la partecipazione del privato nell’ente per la gestione dei beni culturali.

Si è così aperto un dibattito sulla modifica del libro I del Codice Civile, che non ha ancora portato ad alcuna riforma. E’ stata ad esempio evidenziata da Renzo Costi l’opportunità di una maggiore tipizzazione della struttura degli enti riconosciuti, aventi dunque autonomia patrimoniale perfetta. In questo senso, è stata ripresa la suggestione di Sabino Cassese che ha ipotizzato di sostituire al controllo amministrativo il controllo per omologazione, tipico delle società, come disciplinato nel libro V del Codice Civile. Evidentemente per procedere nella logica del controllo per omologazione sarebbe necessaria una maggiore tipizzazione della struttura della fondazione, con specificazione dei poteri dei singoli organi e delle relative competenze, nonché norme che garantiscano trasparenza e correttezza nella gestione del patrimonio, ad esempio attraverso un adeguato sistema di pubblicità. Probabilmente, innovazioni su questa linea potrebbero incontrare il favore dei privati, i quali si sentirebbero maggiormente coinvolti e con effettive possibilità di controllo su quegli enti a favore dei quali vengano destinati finanziamenti.
Si potrebbe dunque ripensare la forma oggi basata sul sistema concessorio del riconoscimento della personalità giuridica in particolare con riferimento alla valutazione dell’adeguatezza del patrimonio della fondazione. Il sistema concessorio, imponendo il riconoscimento per atto amministrativo, potrebbe essere mal apprezzato da soggetti animati da logiche imprenditoriali, pur nell’ambito non lucrativo, i quali sono più abituati a confrontarsi con procedure snelle di tipo privatistico.
Come alcune lungimiranti pronunzie del Consiglio di Stato hanno cominciato ad evidenziare già da qualche tempo, infatti, la previsione di sufficienti entrate costanti e periodiche può anche mitigare la valutazione negativa in merito ad una modesta dotazione iniziale. In ogni caso, non si può che segnalare il carattere potenzialmente restrittivo di un meccanismo di verifica da parte pubblica, naturalmente improntato alla discrezionalità amministrativa.
Ecco quindi che l’adozione di un modello rigido, sull’esempio di quanto fatto nella legislazione speciale per le fondazioni bancarie e per le fondazioni degli enti lirici potrebbe essere il principio di un ribilanciamento, a livello giuridico, nel rapporto fra pubblico e privato.
La sinteticità della disciplina sulle fondazioni e la loro non totale adeguatezza alle esigenze di cui sono state investite ha prodotto la creazione di nuove tipologie, prettamente pensate per creare un luogo di confronto e collaborazione fra privato e pubblico. E’ però del tutto evidente che ad un esame  sul campo dell’applicazione delle fondazioni partecipative, o di comunità, o comunque del modello cosiddetto multipartenariale, l’ente pubblico si sia rivelato spesso un ospite molto ingombrante, che ha limitato, o inibito la partecipazione di privati non istituzionali ossia diversi dalle fondazioni bancarie.
E’ peraltro evidente che la prevalenza dei finanziamenti da parte di enti pubblici, così come la possibilità per l’ente pubblico di nominare i componenti degli organismi direttivi influendo pertanto sugli indirizzi stessi dell’ente non può che spostare la fondazione, formalmente privatistica, nell’alveo del settore pubblico. In questo senso ha deciso la giurisprudenza di legittimità: in particolare, decidendo su una questione in tema di appalti, ha ritenuto le fondazioni organismi di diritto pubblico sussistendo tutti i requisiti di cui all’art. 3, comma 26 del Codice dei Contratti Pubblici, ossia il requisito personalistico, la finalità pubblica, ma soprattutto il requisito dell’influenza dominante, in quei casi in cui l’ente pubblico può nominare in modo totalitario l’organo direzionale e finanzia integralmente la fondazione. Parimenti, in altri casi, la fondazione è stata assimilata ad un ente strumentale dell’ente pubblico, rovesciando nei fatti la natura privatistica dell’istituto adottato.
Vi è quindi una necessità di adeguare maggiormente alle esigenze dei potenziali investitori gli strumenti del diritto privato, in una realtà che ha già contribuito peraltro a far emergere, dalla prassi sino al riconoscimento legislativo, strumenti idonei a valorizzare la presenza di operatori non pubblici nella gestione e valorizzazione dei beni culturali. In proposito, basti ricordare gli istituti del project financing, delle sponsorizzazioni, del trust e, recentemente, la possibilità di ricorrere al crowdfunding.
A ciò si aggiunga la previsione normativa della concessione di attività di valorizzazione dei beni culturali ai privati e dell’affidamento ai privati dei servizi aggiuntivi, come rispettivamente contemplato negli artt. 115 e 117 del Codice dei Beni Culturali. Inoltre, il Testo Unico Enti Locali, all’art. 113 bis, consente l’affidamento, fra gli altri, dei servizi culturali e del tempo libero a fondazioni costituite o partecipate dall’ente locale stesso.

Nell’ambito e nel rispetto dei principi del Codice dei Beni Culturali potrebbero esser esaminate alcune possibili soluzioni volte a consentire alle fondazioni di muoversi su binari più privatistici e meno pubblicistici anche a livello di governance, sempre beninteso salvaguardando le prerogative pubbliche di vigilanza e controllo.
La composizione dei consigli direttivi delle partecipate è stata oggetto di ripetuti interventi da parte del legislatore negli ultimi anni, con riferimento al numero massimo dei componenti, alla partecipazione di genere, al compenso da riconoscere.

E’ dunque auspicabile che gli enti pubblici selezionino con particolare riguardo i soggetti destinati a prender parte agli organi di gestione delle fondazioni culturali, ed in particolare, come in alcuni casi già avviene, alla valorizzazione di profili esterni all’ente pubblico, dotati di adeguata capacità, competenza e comprovata professionalità, emersi nel mondo dell’imprenditoria culturale privata e delle professioni, da selezionare con procedure pubbliche e aperte.
In questo modo, i poteri di controllo del pubblico troverebbero sufficiente tutela, conformemente al dettato del Codice dei Beni Culturali, nel contratto di servizio oltre che nei poteri di verifica riconosciuti all’ente pubblico.

La fondazione dunque può ben essere vista, come sottolinea Giuseppe Morbidelli, come una  «new entry del diritto amministrativo», ma tale concetto dovrebbe essere inteso nel senso del suo possibile utilizzo per svolgere compiti originariamente destinati ad altri istituti giuridici di natura più pubblicistica. Le fondazioni culturali dovrebbero invece iniziare un processo di «ritorno a casa», e dunque nella tipica e caratteristica sfera privatistica, con adeguati e più incisivi strumenti normativi.

Toti Musumeci è Professore di Diritto dell'economia e della regolazione dei presso l’Università di Torino

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