Il museo luogo per la gente, luogo del dibattito
Riflessioni a margine del convegno internazionale di museologia Museum.dià, sviluppato intorno ai concetti di Chronos, Kairòs, Aion – Il tempo dei musei, 26 – 28 maggio 2016, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano. Se due anni fa, nella prima edizione di Museum.dia il tema dell’audience appariva in filigrana, preceduto dall’esigenza della comunicazione, oggi “accanto allo specialista emerge il visitatore come suo pari nella generazione di senso per un patrimonio estesissimo e diffuso, in un approccio intimamente socio-culturale. (…) i musei reagiscono, ancora in modo puntiforme, ma reagiscono”, scoprendo energie autopoietiche di piazze del sapere. Ne parla il direttore della Fondazione Dia, Francesco Pignataro
Roma. È impresa ardua stilare un quadro sinottico di quanto emerso dalle intense giornate di lavoro di museum.dià – II convegno internazionale di museologia, tenutosi dal 26 al 28 maggio 2016, all’interno della manifestazione RomArché – Salone dell’Editoria Archeologica al Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano.
A cura della Fondazione Dià Cultura, in collaborazione con la British School at Rome e la Direzione Generale Musei del MiBACT, il progetto ha visto confrontarsi, attorno al particolare tema del tempo dei musei, numerosi operatori e tecnici museali, italiani e stranieri.
Una tale scelta tematica è risultata quanto mai appropriata e in linea con il delicato processo di riforma che sta prendendo corpo e sostanza nell’impianto generale della gestione del patrimonio da parte del MiBACT, ma diventa ancora più profonda e fertile se si considerano le evoluzioni e le sollecitazioni che in generale tutto il sistema generale dei musei sta sostenendo attualmente in Italia. In questo senso, si è voluto dare al convegno una struttura che riuscisse a captare esigenze, criticità e innovazioni in una forma coerente e sistemica, a dargli voce e ad alimentare il dibattito. Il concetto di tempo ha così mostrato una sorprendente duttilità, al punto da diventare un contenitore di inaspettati rimandi e ragionamenti, riuscendo a far emergere realtà molto interessanti per l’individuazione di pratiche e riferimenti, soprattutto considerando gli apporti provenienti da chi ha partecipato all’iniziativa attraverso la call for papers aperta a tutti.
Due giornate di lavori - una dedicata a chronos e una seconda a kairòs – e una tavola rotonda finale per definire un originale programma curatoriale.
C’è un tempo che ha il senso diacronico della storia come dimensione lineare della memoria e, quindi, intrinsecamente della natura e della consistenza di quello che, in senso lato, si può chiamare patrimonio. Questo tempo per l’istituzione museale è oggetto di ricerca, di studio e comprensione; e al contempo, negli ultimi anni, è diventato il fulcro di un lavoro di sperimentazione attorno al tema sempre più cogente della narrazione. Quel chronos che viene colto e interpretato, che anche attraverso la materia, costituisce l’heritage nella sua dimensione di testimonianza, ma anche tesoro, deve nel museo essere trasmesso e attivato, spiegato per gli occhi e con gli occhi di coloro che quel patrimonio posseggono. Nelle prime due sessioni del convegno si è dunque ragionato attorno al rapporto duale tra ricerca e comunicazione culturale come un doppio piano soggetto a innumerevoli modificazioni nelle tecniche, nei linguaggi, nelle interazioni.
C’è poi un tempo puntiforme che esprime la qualità del momento in relazione alla situazione: il tempo dell’opportunità e dell’occasione che rimanda al presente come il momento della necessità hinc et nunc per sfruttare al meglio la favorevole congiuntura, operare una trasformazione del sistema, allinearlo a più aggiornate pratiche e definirne un modello che sia di riferimento.
La seconda giornata ha colto, dunque, le attuali sfide del museo inquadrandole in una prospettiva volta in primis al cambiamento, inteso come attitudine permanente all’adattamento, e in un secondo momento, diretta alla azione produttiva (creazione), che rilegge il museo come motore operativo di sviluppo economico-sociale, non tanto nelle dinamiche ricettive del turismo ma di certo in quelle propulsive della creatività e dell’imprenditorialità del territorio di appartenenza.
In un orizzonte tanto ampio e complesso, un primo dato emerso è quello del ruolo del pubblico in questi processi costruttivi e della velocità con cui tale ruolo sta evolvendo. Se già due anni fa, nella prima edizione di museum.dià, il tema del pubblico compariva in filigrana, accennato, associato all’esigenza comunicativa dell’istituzione, ora il pubblico si pone come interlocutore fondamentale, parte integrante del processo generativo di significato, imprescindibile punto di riferimento per la realizzazione delle funzioni stesse del museo: più voci hanno richiamato in questo senso la Convenzione di Faro e quelle comunità di patrimonio/eredità (heritage appunto) che allineano i sistemi normativi al dibattito, oramai assimilato semmai non concluso, su un audience development sempre più importante e significativo. Una tale rivoluzione copernicana scaturisce evidentemente dalle trasformazioni sociali e culturali che la tecnologia ha portato nel settore della comunicazione informatica e telematica: le possibilità di accesso, di confronto e di scambio di contenuti sono diventate per il fruitore del museo molteplici, ibride, assolutamente dirette e personali.
I musei reagiscono, spesso in modo ancora confuso e poco consapevole, ma reagiscono: in tutti i contributi, l’implementazione di strategie social o le tecniche di rappresentazione allestitiva virtuale sono elementi assimilati, inevitabili e risolti nella misura in cui il dibattito rimane sempre sopra il modo, non certo sull’an. Particolarmente affascinanti, tra i contributi presentati, sono state le operazioni come il progetto TeCHe dell’Istituto d’Istruzione Superiore Rosselli di Castiglione del Lago oppure la riqualificazione del sito urbano di via dell’Abbondanza nel progetto Pisaurum/Pesaro, o l’esperienza di intervento tecnologico nelle attività di narrazione ai Mercati di Traiano – Museo dei Fori Imperiali.
C’è di più. In questo riavvicinamento, in questa commistione si direbbe, in cui accanto allo specialista emerge anche il visitatore come suo pari nella generazione di senso per un patrimonio estesissimo e diffuso, si percepisce un aspetto più intimamente socio-culturale: c’è un bisogno da ambo le parti, museo e società, di ritrovarsi, di ampliare le aree di sovrapposizione. In questo modo l’istituzione museale si carica ancora di più di quelle valenze funzionali che lo vedono un luogo per la gente, sino a diventare un luogo di incontro e ancor di più un luogo di dibattito, come volendo ripristinare, in chiave museologica, concetti cari all’urbanistica come quello di piazza.
In realtà, al museo appartiene una dimensione concettuale che trae forza e identità dagli oggetti, dalla materia che contiene: lungi dall’essere un luogo vuoto e socializzante, è attorno a un insieme di opere, reperti o esemplari, attorno a delle storie che il museo si relaziona con l’esterno. È la comprensione di tale patrimonio, anche solo il senso di appartenenza ad esso, che sembra coinvolgere oggi così tanto il pubblico. Qui rivela bene la testimonianza del Museo Nazionale G.A. Sanna di Sassari, così come l’interessante progetto di riorganizzazione urbanistica relativo al recupero dell’area archeologica in prossimità del Teatro Marcello a Roma.
In alcune delle esperienze presentate, come il Museo della Bora a Trieste oppure l’esperienza della Terramara di Pilastri, si arriva a produzione di patrimonio attraverso l’azione del pubblico che dona o crea contenuti al Museo. Si nota una sempre più marcata circolarità che si manifesta con una centralità sempre maggiore del Museo nella comunicazione sociale e politica.
Questa evidenza porta a una seconda forte considerazione. Il museo, così come lo stiamo intendo, seppur in alcuni casi, acquisisce di fatto una proprietà autopoietica: viene crearsi da sé attraverso una miscela di ibridazione funzionale rispetto alle attività in ambito culturale (ricerca, formazione, tutela del territorio ecc.) e fenomeni partecipativi. In altri termini, ci sono luoghi o funzioni non museali che attraverso l’intervento di una partecipazione attiva assumono le caratteristiche proprie di un vero museo. Esempi sono gli scavi partecipati che diventano luoghi “visitati” con un proprio patrimonio sia materico che narrativo (l’esperienza di Enrico Zanini nel senese o di Marco Valenti e il suo Archeodromo di Poggibonsi sono stati illuminanti). Allo stesso modo accade in contesti funzionalmente diversi da quelli di museo tradizionale: la convergenza nasce dall’imprevisto e modifica la struttura; e a Catania, come ci ha spiegato il coinvolto contributo di Francesco Mannino, il ritrovamento di un rifugio antiaereo in una scuola lo fa diventare uno spazio di racconto grazie alle attività e alle cure degli studenti stessi che sono portati a interpretarlo e dargli un senso.
I limiti tradizionali dell’edificio, per il museo, sono superati da una nuova condizione di continuità. Da più voci come in più note dei discussant presenti in ogni sessione, l’indirizzo verso cui procedere prevede un museo che sia in una relazione biunivoca con il territorio.
D’altronde questa assenza di discontinuità la si ritrova anche in forme più specifiche e particolari. Nelle pratiche allestitive, la bellissima ricerca di Lucía Díaz Marroquín ha incentrato l’attenzione sull’elemento sonoro all’interno degli spazi di visita e su come il suono, così come il suo contrario, si leghino, proprio in linea con quella continuità che conduce a una percezione dell’esperienza nel museo in cui l’immersione è totale. È così anche per la Pilotta Farnesiana a Parma e Marco Cavalieri ci parla di un museo che ordina una caotica realtà come ci fosse dopotutto un’identità tra i due elementi, un corrispettivo in continua comunicazione tra dentro e fuori.
In questa relazione, sono d’altronde presenti elementi di criticità forti. Uno di questi, tornato nei contributi di più relatori (tra cui Brunella Muttillo, Francesca Condò e Fabio Pagano), è quello inerente i depositi museali, che rischiano di diventare un patrimonio silente incapace di relazionarsi con l’esterno e allo stesso tempo di paralizzare la gestione operativa dei musei. I depositi museali, in realtà, potrebbero essere una risorsa straordinaria perché una loro eventuale diffusione e valorizzazione potrebbe generare una maggiore continuità tra museo e contesto territoriale, e contribuire a entrate economiche anche considerevoli (prestiti).
Questi sono alcuni dei molti spunti che saranno il corpo del volume di prossima pubblicazione dedicato agli atti del convegno. La sensazione generale è di un grande fermento, percepibile non solo dalle piccole realtà locali ma anche nei grandi musei (come ci hanno mostrato Michele Lanzinger del MUSE di Trento, Enrica Pagella dei Musei Reali di Torino o Rosanna Friggeri, direttrice delle Terme di Diocleziano) e nello stesso MiBACT, con la riforma appena attuata, evidentemente, ma anche con altri segnali importanti come la pubblicazione “Linee guida per la comunicazione nei musei: segnaletica interna, didascalie e pannelli” introdotto da Daniele Jalla durante la tavola rotonda finale.
E seppur tutto ancora perfettibile, l’idea che stiamo vivendo un “tempo” speciale di trasformazione profonda del sistema sembra evidente. Proseguire in avanti, pronti sempre a cogliere (e ad accogliere) il cambiamento, l’intento.
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Francesco Pignataro è Direttore Fondazione Dià Cultura
La Fondazione Dià Cultura realizza attività culturali e progetti di valorizzazione con l’obiettivo di connettere saperi e storie del passato al dibattito culturale contemporaneo.
L’archeologia, la storia e l’antropologia tracciano un percorso lungo cui si snoda un’indagine interdisciplinare improntata sul dialogo costante tra linguaggi, metodi e contenuti.
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