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Il museo e l’altro: rinegoziare la diversità culturale

  • Pubblicato il: 15/09/2017 - 10:04
Rubrica: 
CULTURA E WELFARE
Articolo a cura di: 
Anna Chiara Cimoli

Ripensare l’accoglienza culturale. Rifugiati, attivismo, cittadinanza. Una riflessione sulle sfide e possibili linee progettuali di Anna Chiara Cimoli, che al prossimo appuntamento di Artlab 17 a cura di Fondazione Fitzcarraldo a Mantova, il 28 e 29 settembre, dedicato all’anno europeo del patrimonio, coordinerà il tavolo in tema di inclusione.  Poco più di un anno fa, nel tentativo di tenere traccia della ricchezza di mostre, workshop, progetti educativi attivati da musei aventi come focus i rifugiati, con Maria Vlachou ha  creato il blog Museums and Migration. “pensiamo che la situazione presente abbia sollecitato forze creative non ordinarie, aggregato professionalità che diversamente non si sarebbero incontrate, spinto i musei più disponibili a rivedere le proprie posture. Come sfuggire al rischio del dilettantismo, dell’ambiguità (i musei non sono né devono essere assistenti sociali) o dell’irrilevanza?”, in una “logica di “normale” plasticità del museo a quanto succede intorno a esso. Poiché non esiste un dentro e un fuori, ma un attraverso: il museo è cassa di risonanza e moltiplicatore, e vive le stesse contraddizioni del mondo che rappresenta”. Un museo che  “ha chiaro il proprio posto nella società, e che si assume la responsabilità dello spazio e dell’orizzonte civile che occupa”
Rubrica di ricerca in collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo
 


Negli ultimi venti-trent’anni, in Italia si è molto discusso del metodo interculturale e delle sue ricadute sull’ambito museale. Si sono sviluppati progetti e sperimentazioni che individuavano nell’intercultura un contenitore convincente, una spinta positiva in avanti.
 
Oggi, sotto l’urto della “crisi dei rifugiati”, del terrorismo e dei nuovi (dis)equilibri politici – la presidenza Trump, la Brexit ­–  quell’orizzonte appare da rinegoziare.
Non perché fallito, anzi: forse con maggiore distanza prospettica ne valuteremo più lucidamente gli impatti; ma perché basato, per sua stessa natura, sui tempi lunghi dell’ascolto, mentre la durezza della cronaca sembra richiedere risposte a un clima di arrembante razzismo e hate speech che sollecita nuovi paradigmi, e senza perdere tempo. Un’azione di contrasto al pregiudizio di fianco a un’altra di promozione di una nuova cultura della diversità, che disseppellisca dai depositi opere significative, che favorisca incontri (ed emersione delle tensioni, se necessario), che rilegga la storia mettendone in luce i coni d’ombra, che interpelli il pensiero critico.
La fatica è quella di conciliare il respiro disteso dell’educazione con Ia necessità di prendere posizione (in qualunque senso si voglia intendere questa espressione), entro società che rivelano sacche di disagio di cui forse non eravamo consapevoli, ma anche capaci di esperienze di ricucitura che possono costituire leve molto potenti.
 
Poco più di un anno fa, nel tentativo di tenere traccia della ricchezza di mostre, workshop, progetti educativi attivati da musei aventi come focus i rifugiati, con Maria Vlachou abbiamo creato il blog Museums and Migration. Volevamo non solo raccogliere un materiale che intuivamo abbondante e interessante, ma anche mettere a sistema e portare all’attenzione degli operatori delle pratiche provenienti da ambiti “fratelli”, eppure a volte sentiti come altri: la cartografia radicale, il video, la performance, l’arte pubblica, il mondo della programmazione e del digitale, e più in generale tutti i campi della rappresentazione che si stavano lasciando interpellare (alcuni fra gli esempi più interessanti nascono, non a caso, nei centri di produzione artistica che fanno del superamento della divisione fra discipline la propria missione, come il Barbican Centre di Londra).

Convinte della specificità dello spazio del museo, e senza alcuna attrazione per il sincretismo, pensiamo che la situazione presente abbia sollecitato forze creative non ordinarie, aggregato professionalità che diversamente non si sarebbero incontrate, spinto i musei più disponibili a rivedere le proprie posture. Fra gli esempi di pratiche, piccole e grandi, attivate da chi ha deciso di reagire, cito solo la serata organizzata dal Museo Egizio di Torino per la Giornata Mondiale del Rifugiato (24 giugno 2017), le esperienze di insegnamento linguistico offerto da molti anche in Italia (mentre il Grassimuseum di Lipsia propone corsi di lingua araba), il dialogo del MAXXI di Roma con i minori non accompagnati del centro Civico Zero, le sessioni di confronto sul tema della cittadinanza per studenti di scuola superiore “New Experts!” alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino.
 
Quali, dunque, le possibili linee progettuali, le sfide e i metodi che le sostengono? Come sfuggire al rischio del dilettantismo, dell’ambiguità (i musei non sono né devono essere assistenti sociali) o dell’irrilevanza?
 
Nel ventaglio delle molte risposte possibili, qui prendo come bussola tre esperienze - una mostra, un progetto di mediazione e un caso di “attivismo”- che mi sembrano significative di una revisione dei propri discorsi e automatismi in una chiave di apertura e assunzione di responsabilità.
 
La mostra è “I’m alive” (ottobre-agosto 2017), curata dal Tekniska Museet di Stoccolma, www.tekniskamuseet.se,  prossimamente a Washington, sul ruolo delle tecnologie mobile e dei social media per la sopravvivenza durante il viaggio e l’inserimento nelle città di arrivo. Come racconta la curatrice, Magdalena Tafvelin Heldner, il museo ha voluto, con lo strumento che gli è proprio ovvero la curatela, affrontare il tema della relazione fra tecnologie ed emergenze umanitarie valorizzando la componente creativa che accompagna le rivoluzioni, mettendo in evidenza anche il portato di competenze scientifiche posseduto dai rifugiati stessi.
 
L’esperienza di mediazione è Multaqa, messa a punto da diversi musei statali di Berlino (il Pergamon, il Bode-Museum e il Deutsches Historisches Museum). Il progetto, che ha previsto la formazione di una ventina di mediatori siriani e iracheni, ha avuto una copertura giornalistica molto forte, ma poco si è messo in evidenza il fatto che la costruzione dei percorsi di mediazione sia accompagnata da una riflessione sui punti di intersezione con la storia tedesca (per affinità e per contrasto), portando insieme cittadini di diversa lingua e cultura in un’ottica di scambio, ma anche di costruzione di un discorso critico sulla relazione fra la Germania e il Medioriente.
 
L’attivismo, infine. Nel mese di agosto ho incontrato Minna Raitmaa, Head of Public Programmes al Kiasma di Helsinki. Kiasma ha intessuto un dialogo quotidiano con i rifugiati che hanno occupato per mesi la piazza antistante. Ha deciso di non attivare percorsi di visita specifici per loro, perché altre sembravano le urgenze e i desideri; ma ha percorso la strada della porosità verso quel pezzo di città (di mondo) che aveva esigenze molto pratiche: ricaricare il cellulare, accedere al wifi, mangiare (la caffetteria, con una grande vetrata sulla piazza, dopo la chiusura ospitava i rifugiati mettendo a loro disposizione quanto avanzato dalla giornata: secondo Minna, cibo sufficiente per tutti). Il personale del museo si è attivato, secondo disponibilità e scelte individuali, senza redigere comunicati stampa o assumere posizioni pubbliche, ma in una logica di “normale” plasticità del museo a quanto succede intorno a esso. Poiché non esiste un dentro e un fuori, ma un attraverso: il museo è cassa di risonanza e moltiplicatore, e vive le stesse contraddizioni del mondo che rappresenta.
 
All’indomani dell’attentato di Barcellona ho chiesto a Imma Boj, direttrice del MhiC (Museo della Storia dell’Immigrazione in Catalogna), se il suo istituto avrebbe reagito, e come. Ha risposto che il museo ha sempre lavorato per il dialogo e l’incontro, dall’orto urbano alla co-curatela, passando per le rassegne di cinema e i concerti gratuiti. Continuare a lavorare in quella direzione: ecco la risposta.
 
Radicale, dunque, non è necessariamente il museo che scende in piazza con gli striscioni, ma quello che ha chiaro il proprio posto nella società, e che si assume la responsabilità dello spazio e dell’orizzonte civile che occupa.
 
Anna Chiara Cimoli
 

Anna Chiara Cimoli è una storica dell’arte, formatrice e consulente museale. Dal 2001 collabora con ABCittà-Officina del futuro occupandosi di musei e inclusione sociale, con un accento sulla diversità culturale. Nell'ambito del progetto europeo MeLa*-European Museums in an age of migrations ha svolto una ricerca sui musei delle migrazioni e le loro retoriche, curando la mostra La memoria del mare: oggetti migranti nel Mediterraneo. Con Chiara Ciaccheri segue Senza titolo, un progetto di formazione e ricerca sul tema dell’accessibilità dei testi museali prodotto da Spazio B**K. È consulente dell’editore Johan & Levi. Scrive per diverse testate. La sua pubblicazione più recente è Che cosa vedi? Musei e pubblico adolescente (Nomos). Cura, con Maria Vlachou, il blog museumsandmigration.wordpress.com.
 
 
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Biblio/linkografia:
https://museumsandmigration.wordpress.com/
http://www.ismu.org/patrimonioeintercultura
MeLa* Books series, online
How culture and the arts can promote intercultural dialogue in the context of the migratory and refugee crisis, EU, 2017, online.
Museums, migration and cultural diversity. Recommendations for museum work, ed. Originale: Deutscher Museumsbund e.V., Berlino, 2015; ed. Inglese: NEMO – Network of European Museum Organisations, 2016, online.
Bodo, Simona e Mascheroni, Silvia, Educare al patrimonio in chiave interculturale. Guida per educatori e mediatori museali, Fondazione Ismu, 2012.
Cimoli, Anna Chiara e Pasta, Stefano, Il ciclo di vita della memoria. I profughi al Memoriale della Shoah di Milano: rappresentazione, rotte, cartografie possibili, Roots-Routes, V, n. 20, 2015-16, online.
Vlachou, Maria (a cura di), The inclusion of Migrants and Refugees: The Role of Cultural Organisations. Acesso Cultura 2017.
Whitehead, Christopher, Katherine Lloyd, Susannah Eckersley e Rhiannon Mason, a cura di, Museums, Migration and Identity in Europe. Peoples, Places and Identities. Routledge 2015.
 
 
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