I dati di Coop Culture: un'occasione di riflessione per non sprecare la crisi
L'Assemblea Annuale dei Delegati di Coop Culture è stata l'occasione per discutere sul ruolo delle imprese culturali non soltanto nel fornire servizi, ma soprattutto nel generare valore per il territorio, per evitare la “crisi sprecata” enunciata da Fabio Donato, Ordinario di Economia Aziendale presso l'Università di Ferrara, nel suo ultimo libro.
Coop Culture, che opera in ambito nazionale in più di 200 tra musei, biblioteche ed archivi, ha registrato nel 2013 un incremento del fatturato del 6% rispetto all'anno precedente raggiungendo il valore di circa 41 milioni di euro. L'intento del presidente Giovanna Barni è di fornire una valutazione “politica” dei risultati, partendo da un primo dato che rivela che il 55% di questo fatturato deriva dalle concessioni.
Ciò significa che quando il “privato” è nelle condizioni di esprimere una progettualità che gli permette di incidere su qualità e varietà dei servizi al pubblico, i risultati economici rivelano un cambiamento positivo delle scelte di fruizione e della propensione al consumo.
Se poi parliamo di risorse umane, emergono altri dati confortanti rispetto al ruolo importante che un soggetto culturale può giocare nelle politiche del lavoro: Coop Culture occupa circa 1200 tra soci e dipendenti, di cui l'84% ha un contratto a tempo indeterminato.
Ancora, un'impresa culturale può generare introiti per altri segmenti dell'industria: più del 10% del fatturato di Coop Culture viene speso per attività di comunicazione, studi e ricerche, tecnologie mirate al miglioramento dell'accesso, produzioni miste di performing arts.
Ed è anche lo Stato a beneficiare dell'attività di Coop Culture che tra gettito da tassazione e gettito indiretto versa oltre 16 milioni di euro.
Un ultimo dato interessante riguarda la quota di introiti trattenuti dal gestore ossia “l'aggio” di biglietteria: per ogni 0,90 euro di aggio incassato, Coop Culture produce ricavi aggiuntivi di 1,1 euro di servizi al pubblico che significa poter destinare al pubblico un'offerta di visita più qualificata, ampia ed articolata.
Di cosa necessitano quindi le imprese culturali per potere costituire un vero motore di sviluppo dei territori?
I relatori presenti, dagli esperti ai rappresentanti istituzionali, concordano sulla necessità di una riforma strutturale: l'attuale governo sta rappresentando un elemento di discontinuità rispetto ai precedenti, ma le misure ad oggi adottate non costituiscono ancora un vero e proprio cambiamento.
Marcello Minuti dell'Università di Roma Tor Vergata, in primo luogo ritiene che “se la strada dev'essere data ai privati, l'amministratore pubblico deve assumere un ruolo di indirizzo e monitoraggio dell'attività dei medesimi”. Dopo la ventennale Legge Ronchey che apriva le porte ai privati nella gestione dei servizi aggiuntivi, oggi assistiamo ad un duplice fenomeno: un settore pubblico indebolito da una progressiva riduzione della spesa che continua ad essere responsabile della gestione dei beni culturali e i privati che forniscono servizi accessori senza poter controllare il complesso della gestione delle attività di valorizzazione. E l'intervento del settore for profit è limitato ad “un nucleo ristretto di grandi aziende per un nucleo altrettanto ristretto di beni culturali maggiori”, lasciando irrisolto il problema della gestione dei beni appartenenti al cosiddetto “patrimonio diffuso”, la vera ricchezza culturale del nostro Paese non abbastanza valorizzata (l'85% dei siti di pertinenza del Mibact registrano meno di 50.000 visitatori l'anno).
L'approccio cooperativo è una buona risposta, soprattutto perché la natura economica di questo tipo di siti non è sufficiente a soddisfare le “aspettative di lucro” dei soggetti for profit, ma occorrono degli interventi mirati a stimolare questo tipo di soggetto.
L'europarlamentare Silvia Costa suggerisce un approccio olistico allo sviluppo del territorio, in cui sono fondamentali la coprogettazione tra più soggetti, la condivisione di obiettivi e la sperimentazione.
In sostanza creare uno stile di lavoro proprio delle community, in linea con la visione di Fabio Donato per il quale “non sprecare la crisi” significa ripensare ai modelli di governance, attraverso la costituzione di reti tra istituzioni organizzate in sistemi culturali territoriali, e a un cambiamento del management, che deve esprimersi attraversi nuovi modelli basati su logiche di network, su criteri di apertura e trasparenza e su forme di partenariato con i soggetti privati.
Per Letizia Casuccio, direttore generale Centro Sud di Coop Culture, è importante puntare su forza lavoro qualificata, passando dalla youth garantee allo youth art corner, ossia offrendo ai giovani laureati nelle discipline del settore di spendere il loro bonus in un'esperienza professionale in collaborazione con imprese specializzate. E poi suggerisce l'abolizione di imposte come l'IRAP (“se Coop Culture non versasse questo gettito potrebbe assumere 40 persone!”).
Insomma, ci sono molti spunti per fare diventare l'Italia il Paese delle opportunità, come tanto si auspica il Ministro Poletti.