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«Rigor filipino»: la pittura è un esercizio spirituale

  • Pubblicato il: 13/09/2013 - 13:16
Rubrica: 
FONDAZIONI CIVILI
Articolo a cura di: 
Giovanni Pellinghelli del Monticello
Francisco de Zurbarán

Ferrara. Organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte in collaborazione con Bozar-Palais des Beaux Arts di Bruxelles, «Zurbarán (1598-1664)», a cura di Ignacio Cano con la consulenza scientifica di Gabriele Finaldi, e allestita a Palazzo dei Diamanti dal 14 settembre al 6 gennaio 2014, è la prima mostra in Italia dedicata a questo protagonista dell’arte barocca spagnola e della religiosità controriformista della Spagna seicentesca, con oltre 50 opere provenienti da musei e collezioni private europee e americane. È un pittore finora solo superficialmente noto in Italia, ma alla cultura pittorica italiana intimamente legato: «A caratterizzare Francisco de Zurbarán, spiega Cano, fu la capacità di tradurre gli ideali religiosi dell’età barocca in invenzioni espressive capaci di fondere la magniloquenza celebrativa e religiosa pretesa dai committenti con elementi di distillata poetica quotidianità in quella “pittura semplice, calorosa e diretta”, per dirla con lo storico dell’arte Paul Guinard, che rimbalzerà nell’immaginario del Novecento, apparendo nelle opere di Manet fino a Picasso, e ancora in Morandi o Dalí, con la rivalutazione critica seguita al disamore dell’Ottocentesco romantico. Se il Romanticismo finì per vedere in lui solo il “pittore di monaci”, lividi, funebri, ossuti, come sciveva Théophile Gautier, con il secondo Novecento cambiò l’approccio all’opera di Zurbarán: lasciando cadere l’aspetto pietistico, fino ad allora appunto esageratamente sottolineato, Christian Zervos, direttore dei “Cahiers d’Art” e curatore del catalogo ragionato dell’opera di Picasso, riconobbe che era doveroso attribuire a Zurbarán un ruolo preponderante nella storia dell’arte spagnola».
Zurbarán, nato da un ricco mercante di origine basca a Fuente de Cantos, in Estremadura, arriva a Siviglia nel 1614 come apprendista nella bottega di Pedro Díaz de Villanueva, modestissimo pittore di immagini sacre. Nella pittura religiosa il giovane artista si distingue fin dagli esordi con la sua poetica di potente espressione visuale e accorato misticismo che lo renderà nel tempo pittore emblematico della Controriforma spagnola, la cui arte però non viene temperata dai dettami del cardinale Paleotti bensì piuttosto ben adeguata all’austero, esacerbato «rigor filipino» di Filippo II. «L’arrivo a Siviglia determina tutta la sua poetica concentrata sulla pittura religiosa, continua Cano. La sua prima opera nota, firmata nel 1616, è l’“Immacolata Concezione”, prodotta per un convento sivigliano e ora conservata in una collezione privata di Bilbao. È un dipinto a proposito del quale si sono indicate varie suggestioni: da Domenico Campagnola e Marco Dente fino a Donatello, Pordenone e Tiziano. A questo periodo fanno riferimento, in mostra, “La visione di san Pietro Nolasco” (1629, Museo del Prado) e “San Francesco d’Assisi nella sua tomba” (1630-34, Milwaukee Art Museum), segnate dal luminismo drammatico e contrastato del Tenebrismo, e opere seguite al soggiorno madrileno e al contatto con Velázquez, con atmosfere più chiare, scorci di paesaggio e dettagli domestici. Ne sono esempi l’“Immacolata Concezione con san Gioacchino e sant’Anna” (1638-40 ca, Edimburgo, Scottish National Gallery) e la “Vergine con il Bambino Gesù e san Giovannino” (1662, Bilbao, Museo de Bellas Artes). Pur senza godere della fortuna che ha circondato le figure di Velázquez, di cui fu amico personale oltre che contemporaneo, o Murillo, Zurbarán seppe esprimere in modo autentico il sentire della società spagnola della prima metà del XVII secolo associandone il sentimento religioso radicato e vibrante all’ispirazione da un repertorio simbolico concreto e dal teatro, e dare alla pittura il ruolo di strumento di conoscenza».
La sua grandezza starà proprio nell’evoluzione di uno stile austero e tenebroso verso sfumature cromatiche più acide e luminose e soluzioni compositive più ariose grazie alla conoscenza della pittura italiana dell’epoca, di Caravaggio e della varietà compositiva dei manieristi. In quest’ottica, spiega il curatore, «la mostra può considerarsi una sfida mirata alla comparazione con i vari pittori che nel passaggio dal XVI al XVII secolo si rivolsero alla pittura di chiaroscuro in cui la luce modella il processo della composizione, costruisce i volumi e crea la drammaturgia dell’immagine, obbligando non solo a un cambiamento radicale della tecnica pittorica ma anche alla ricerca di risorse espressive più intense. In effetti Zurbarán fu chiamato dai contemporanei “el Caravaggio español”. Tuttavia, si può affermare che il parallelismo non va oltre il trattamento della luce, dato che le due personalità artistiche, e umane, furono radicalmente differenti: dobbiamo guardare a Caravaggio come a un genio del virtuosismo pittorico e a Zurbarán come a un altissimo artigiano del dipingere, solitario, nobile, sincero, al di fuori dello spazio e del tempo. Caravaggio e Zurbarán sono ambedue pittori di luci e di ombre ma Caravaggio è il pittore della realtà più cruda e più estrema, mentre Zurbarán mostra la realtà come via alla comprensione della spiritualità e al trascendente: la realtà intesa come quotidianità è il luogo dove i santi vivono, è la scena in cui accadono i miracoli».
Il percorso espositivo, diviso in sezioni cronologico-tematiche, evidenzia quell’interpretazione innovativa di generi e temi della tradizione insieme a una progressiva captatio di una committenza ardua e pretenziosa: nella sola Siviglia fra il 1600 e il 1650 imperversano 42 grandi conventi, determinanti nel successo di un artista, che si arrogano il diritto, a cui anche Zurbarán si piegò, di rifiutare l’opera senza pagarla qualora non fosse risultata di gradimento. Ma l’artista pervenne anche al favore dell’onnipotente conte-duca di Olivares. Ecco allora la vena intima e immediata dell’iconografia mariana, con opere intrise di malinconia («La casa di Nazareth», 1640-45 ca, Madrid, Fondo Cultural Villar Mir) o tenerezza («Vergine bambina addormentata», 1655-60 ca, Jerez de la Frontera, Cattedrale di San Salvador) oppure i temi dell’estasi dell’«Apparizione della Vergine a san Pietro Nolasco» (1628-30, collezione privata) e della meditazione e del dialogo tra l’umano e il divino del «Cristo crocifisso con un pittore» (1635-40 ca, Madrid, Museo del Prado).
Zurbarán è celebrato anche per le sue nature morte, spesso ispirate a incisioni fiamminghe, in cui dimostra un’attenzione rispettosa e perfino affettuosa verso gli oggetti più modesti e quotidiani ma qualificati di un pregnante valore simbolico. In mostra, «Tazza d’acqua con rosa» (1630 ca, Londra, The National Gallery) e il celeberrimo «Agnus Dei» (1634-40 ca, San Diego Museum of Art). «Tra le invenzioni più originali vi sono infine le grandi figure di santi, che godettero di straordinaria popolarità soprattutto nel Nuovo Mondo, dopo che la progressiva disgrazia del conte-duca di Olivares (1640-43) e l’esordio del giovane Bartolomé Esteban Murillo, giunto a Siviglia nel 1645, gli alienano le committenze più illustri, conclude Cano. “Santa Casilda” (1635 ca, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza), “Beniamino” (1640-45 ca, collezione privata) e “Sant’Orsola” (Genova, Palazzo Bianco), danno la misura della sapiente fusione di agiografia ed eleganza: ricercatezza delle pose, resa virtuosistica di stoffe preziose, tavolozza estrosa e brillante».
Dopo Ferrara, la mostra sarà a Bruxelles dal 29 gennaio al 25 maggio 2014 al Bozar-Palais des Beaux-Arts.

© Riproduzione riservata

Il «catalogue de poche» della mostra è pubblicato nel «Vernissage» allegato al numero di settembre di «Il Giornale dell'Arte», ora in edicola.


da Il Giornale dell'Arte numero 334, settembre 2013