Musei? Più che rivoluzione una coerenza necessaria
Pur dovendo necessariamente ripensare il suo ruolo all’interno della società, il mondo dei musei non ha affatto bisogno di rivoluzioni. Ha bisogno di tenere fede alla propria natura. Una riflessione di Stefano Monti
Si legge spesso che le strutture museali necessitano di un profondo ripensamento del loro ruolo all’interno della società. Questa riflessione, tuttavia, che viene sempre più caldeggiata da tutti gli esperti del settore, è in realtà molto meno drastica di quanto si possa temere. Le pressioni tecnologiche, i mutamenti sociali, le dinamiche economiche, non minacciano assolutamente il nucleo intimo di ciò che costituisce la raison d'être dei musei. Ciò che deve necessariamente costituire elemento di profonda riflessione sono le modalità, gli strumenti, i set di servizi e di offerte di cui i musei si dotano per tenere fede alla loro più antica ed immutata vocazione. Con ancora maggiore enfasi, si può proprio sottolineare come sia proprio quella vocazione a richiedere un importante operazione di analisi degli strumenti museali. Museologia, museografia e museotecnica hanno conosciuto nel tempo profonde mutazioni, ognuna delle quali rispondeva ad esigenze che riflettevano i cambiamenti di un mondo in divenire. Per quanto sia importante perseverare nella convinzione che i musei debbano rispondere alle esigenze di una mutata società, è però altrettanto rilevante definire i margini di questo cambiamento. Ogni rivoluzione genera una componente reazionaria: il mondo dei musei non ha affatto bisogno di rivoluzioni. Ha bisogno di tenere fede, nel miglior modo possibile, alla propria natura.
Conciliazione teorica
Analizzando le ultime pagine delle riviste specializzate, si incorre spesso in riflessioni che coinvolgono il sistema museale designandolo come un luogo che con sempre maggiore urgenza necessita un sostanziale ripensamento del proprio ruolo all’interno dei sistemi di creazione di valore. La questione è molto delicata, per una serie di ragioni che tutti conoscono ormai da tempo: le Strutture Museali, e in alcuni casi i Sistemi Museali, sono chiamati a vario modo a partecipare alla vita degli individui. Questo ha lasciato emergere, coerentemente con quanto si va via via affermando in tutti i settori dell’agire umano, ad una serie di considerazioni che coinvolgono i Musei in modi trasversali, che intrecciano economia urbana e sviluppo territoriale con temi di marketing e comunicazione, interazione sui social network e strategie di brand image che integrano tematiche di innovazione tecnologica, digital apps e realtà aumentata. Per quanto queste tematiche possano aver indotto molti a pensare che ciò che i Musei si trovano a vivere è un grande periodo di rivoluzione, in realtà tutti i contenuti che animano il discorso sul futuro dei musei non fanno altro che riattualizzare dei temi che costituiscono parte integrante della raison d'être di ogni struttura museale e culturale a più ampio spettro.
Secondo questa prospettiva, uno dei temi più ricorrenti (nel nostro Paese) è rappresentato dal concetto di sostenibilità economica: argomento molto dibattuto, soprattutto tra chi auspica e chi scongiura un intervento o un coinvolgimento “privato” all’interno delle strutture museali. Pur essendo la questione spinosa e delicata, essa non è altro che il riflesso di un discorso che inerisce tutta l’economia odierna: dibattiti analoghi sono presenti nel settore sanitario, nel settore dell’istruzione, così come in quello bancario. Analizzando la questione da un’angolazione più ampia, tuttavia, emerge come quello della sostenibilità sia un tema centrale di tutte le strutture museali, e questo a prescindere dall’ingresso dei privati, che in quest’ottica costituisce soltanto una delle modalità di perseguimento di questo obiettivo. L’obiettivo è dunque rimasto invariato: permettere ad una struttura museale (così come di qualsiasi altra natura) di perseguire nel tempo i propri obiettivi statutari, attraverso un utilizzo efficiente ed efficace delle risorse a disposizione dell’organizzazione che ne guida la normale attività, a prescindere dalle modalità attraverso cui queste risorse vengono erogate.
Chiaramente, il richiamo ai concetti di efficacia ed efficienza non è casuale in quanto questi criteri rimandano ad un concetto di sostenibilità che non necessariamente coinvolge esclusivamente l’aspetto monetario: sostenibilità è infatti anche quella sociale e culturale, che spesso vengono ingiustamente ignorate nel dibattito pubblico.
Ma efficacia ed efficienza coinvolgono anche e soprattutto il tema della produzione e con ancor più rilievo il tema della diffusione della conoscenza, ed è questo il tema su cui maggiormente insistono tutte le dinamiche di evoluzione in corso, proprio in virtù della centralità concettuale e pragmatica che questo ricopre all’interno dell’equilibrio dei valori museali: un’organizzazione (struttura museale) in grado di diffondere la conoscenza secondo questi criteri è un’organizzazione attiva, coinvolgente (engagement), interattiva e stimolante. Un’organizzazione di questo tipo difficilmente avrà difficoltà nel reperire fondi (di qualunque natura) per perseguire i propri scopi, perché il proprio set di valori verrà percepito in modo evidente dai suoi fruitori. Che questa diffusione della conoscenza venga applicata attraverso modalità digitali (dai Google Glass alla realtà aumentata, dalle digital apps ai percorsi museali con gli smartphone) o non-digitali (itinerari non convenzionali nei musei, modalità di esposizione delle opere in grado di catturare l’attenzione, eventi serali con percorsi musicali tra le opere), la questione non cambia. Ciò che è cambiato è semplicemente il mondo-fuori-dai-musei, e questo porta i musei a doversi adeguare adottando gli strumenti più idonei a favorire questo passaggio di conoscenza, cultura e bellezza. Perché un museo che non diffonde conoscenza non è un museo, è come un teatro senza spettatori. E’ implicito che sia scopo del museo quello di trovare le modalità più adatte per attirare sempre più individui cui trasmettere il portato di contenuti che detiene; proviamo ad umanizzare il discorso utilizzando un paragone “leggero” e pensiamo al museo come l’amico(a) che è stata appena lasciata(o) dal partner: quella persona cercherà tra tutti gli individui che rientrano tra le proprie conoscenze le persona più adatte da coinvolgere per poter comunicare il proprio stato d’animo (che è il contenuto, come la collezione per i musei). Possibile che un meccanismo così naturale venga percepito come rivoluzionario?
Altre questioni invece sono quelle della produzione culturale: la creazione di esposizioni (anche temporanee) in grado di fornire al fruitore una visione nuova in merito ad un’opera, o in grado di sottolineare un importante elemento nella comprensione storica o contemporanea del mondo. Di nuovo ci troviamo di fronte ad una coerenza nel tempo di quelli che sono i fini museali: uno strumento 3d, una esposizione sensoriale, l’utilizzo di opere multimediali sono solo strumenti di questa produzione.
Tutti questi temi sono profondamente correlati, e anzi rappresentano delle tessere di un medesimo mosaico: la produzione culturale, la diffusione della conoscenza, la sostenibilità economica e infine la comunicazione, intesa come processo in grado di favorire sempre più le dinamiche precedenti, sono tutti elementi di estrema rilevanza per una struttura museale.
A ben vedere, ciò che necessita un ripensamento, dunque, non è il ruolo della struttura museale ma delle risorse che la guidano, non un cambio di indirizzo ma un adattamento degli strumenti: più che una rivoluzione una semplice, impellente, necessaria e inevitabile evoluzione.
Perplessità attuative
Sebbene quanto detto possa essere ritenuto di facile consenso, il tono pacato, la linearità dei ragionamenti, devono oggi fare i conti con una completa rivoluzione generale, intendendo questa parola tuttavia non nell’accezione comune e politica, ma nell’accezione più propriamente scientifica che il dizionario Treccani descrive come: […] lo stesso che giro completo. Ecco ciò che sta succedendo nell'apparato iperburocraticizzafranceschinicentricizzato dei Beni Culturali.
Non prendiamoci in giro, siamo tutti d’accordo sul fatto che musei, biblioteche, archivi, soprintendenze e luoghi della cultura italiani non funzionano come dovrebbero. E ancora, è chiaro che il concetto di valorizzazione non può coincidere con i soli servizi aggiuntivi, che per loro natura economica sono soggetti ad elevati livelli di concentrazione economica.
Ed è dunque chiaro a tutti, e da tempo, che una riforma dell’attuale apparato statale legato alla cultura fosse necessaria.
Ma per realizzare un’evoluzione è necessario avere in mente una strategia che permetta di rispondere in modo coerente alle contingenze, ed è proprio questa strategia quella che forse manca nella riforma che l’attuale ministro ha in parte ereditato dai precedenti governi.
Quali erano le tare storiche del nostro sistema prima del 2014?
In realtà molte, ma tutte riassumibili in una serie di macro-categorie piuttosto note:
- Lentezza burocratica;
- Risorse inadeguate e inique modalità di erogazione;
- Assente, scarsa e inadeguata introduzione di management all’interno delle strutture;
- Assente, scarsa e inadeguata applicazione del concetto di valorizzazione.
Di categorie ce ne sarebbero ancora tantissime, ma limitiamoci a queste; bene, cosa hanno in comune? Hanno in comune una mancanza di personale adeguato, una gestione statica del patrimonio culturale (e anche economico), un flusso di finanziamenti limitato rispetto alla centralizzazione delle funzioni svolte, un poco chiaro disegno delle responsabilità e una disarticolazione ministeriale periferica piuttosto confusa.
Cosa realmente è stato fatto nelle nuove riforme per porre rimedio ai ritardi accumulati da molti, molti anni a questa parte?
La risposta è piuttosto scarna: sono stati assunti supermanager. Punto. Perché il personale è lo stesso che c’era prima: in alcuni casi ridotto in altri spostato.
Non sono state disegnate politiche di assunzione che portino l’ingresso nuove figure professionali (non semplicemente nuovi assunti, ma vere e proprie figure) al fine di rendere evolutivo il processo di crescita del management all’interno delle strutture museali; le soprintendenze sono state smembrate, accorpate (DPCM 2014), trasferite (DM 23/12/2014), zittite (cd Legge Madia) e rimescolate in chiave “olistica” come piace tanto dire; la concentrazione delle responsabilità in capo ai supermanager commette lo stesso errore che prima era per le soprintendenze.
Nel frattempo tutto è cambiato: cambiano le proprietà degli uffici, cambiano le mansioni, vengono creati “nuovi” poli culturali. Ma i nodi, quelli veri, non sono stati sciolti.
Mettere insieme le soprintendenze e porle gerarchicamente sotto i prefetti renderà più rapido, efficiente ed efficace il loro lavoro? Siamo sicuri che queste azioni (che come evidenziano Settis, Montanari e tanti altri sono già state tentate ed abrogate nella storia del nostro Paese) possano portare ad un miglioramento del sistema culturale italiano?
Ma soprattutto, in base a quale disegno congiunto di evoluzione si pongono tutti questi provvedimenti? Questo esecutivo, e va detto senza ombra di dubbio, ha sicuramente segnato un passaggio rispetto al sostanziale immobilismo passato, ma questo decisamente non basta.
Non per essere polemici, ma se si chiama Governo, ci sarà un motivo e “governare” etimologicamente significa “reggere il timone” e per estensione, guidare verso un punto stabilito. Certo, nella nautica è noto che bisogna “frangere le onde” e che quindi è importante adattare la rotta in base a fattori esterni, ma a ben vedere la differenza tra l’adattarsi alle esigenze di scenario ed esserne in balia sta proprio nella chiarezza della meta. E, ad essere sinceri, è proprio la meta quella che non si riesce a comprendere.
Conclusioni
Le considerazioni potrebbero essere estese e approfondite, ma basta anche uno sguardo superficiale per comprendere che ciò di cui hanno bisogno le organizzazioni culturali italiane è un disegno di lungo percorso, una strategia che porti di nuovo la cultura al centro della vita delle persone.
Riorganizzare la struttura politica ed amministrativa della cultura è importante, perché spesso chi è chiamato a prendere decisioni di importanza cruciale e quotidiana non è messo nelle condizioni di poterlo fare. Ma le organizzazioni, ricordiamolo, non sono processi ingegneristici che rispondono ad algoritmi e ad organigrammi in maniera pedissequa: sono fatte di e da persone, che svolgono il loro lavoro a volte con passione a volte con disamore, e questo incide notevolmente sulla loro qualità della vita e anche sulla loro produttività.
La riforma strutturale dell’apparato della cultura avrebbe dovuto essere più incentrata sulle reali difficoltà di un sistema sempre più in ginocchio per la grande disparità tra risorse e responsabilità, avrebbe dovuto tenere conto che gran parte del lavoro di “tutela dei beni culturali e del paesaggio” è spesso oberato dalle richieste a stampo edilizio inserendo dunque nuove specializzazioni per questi settori; che i fondi destinati ai luoghi della cultura italiani potessero prevedere una quota erogata nominalmente ed un’altra sulla base del numero di visitatori (inserendo anche un principio di merito); incentivando una gestione dinamica del patrimonio culturale disponibile e “giacente in magazzino”; prevedendo meccanismi per cui venivano premiate quelle strutture museali che organizzavano il maggior numero di eventi “fuori” dai confini delle proprie strutture museali, al fine di rendere concrete le iniziative di cooperazione territoriale.
Di proposte concrete, fattuali, ce ne sarebbero tantissime. Persone competenti che sarebbero disposte ad aiutare la politica ad adattare la struttura alle esigenze concrete ce ne sono anche di più. A ben vedere, in un’epoca in cui il Ministro rendiconta i propri due anni attraverso l’elenco dei suoi interventi su Twitter, si poteva immaginare un utilizzo dei mezzi di comunicazione per avviare una concertazione con gli esperti del settore.
Non si vuole fare polemica a tutti i costi: il problema è che ogni cambiamento richiede dei tempi di assestamento, e per un’organizzazione come quella dei nostri Beni Culturali, questo tempo è spreco di risorse, e dal punto di vista del singolo dipendente questo significa giorni di lavoro spesi a capire quali sono le nuove mansioni, a conoscere i nuovi colleghi, a ricevere formazione relativa alle nuove procedure e fornire assistenza a coloro che sono chiamati oggi a svolgere il lavoro che li vedeva impegnati precedentemente. Per questo è importante che i cambiamenti vengano fatti con raziocinio: altrimenti si rischia di mandare in collasso l’intero sistema.
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