Per una giusta interpretazione dei Piani di Gestione dei Siti UNESCO
FOCUS Unesco da RAVELLO LAB. Una riflessione di Marcello Minuti, economista della cultura, intervenuto a Ravello Lab sui piani di Gestione dei Siti Unesco. “termine che nel parlato di tutti i giorni viene spesso utilizzato con significati piuttosto ampi, è, in realtà, un termine molto chiaro, che non lascia spazio a interpretazioni. Come evidenziato nella voce enciclopedica Treccani, quando si parla di gestione si fa diretto riferimento alla amministrazione di una azienda, sia essa pubblica o privata. E, dunque, a tutte quelle attività necessarie a conservare tale azienda nel suo stato, così come a mantenerne o aumentarne la capacità produttiva. Ma questo vale anche per l'Offerta Culturale in Italia?
Gestione s.f. [dal lat. gestio -onis, der. di gerĕre «condurre, amministrare», part. pass. gestus]. – 1. Attività di amministrazione di un’azienda pubblica o privata esercitata direttamente dall’interessato (g. diretta o in economia), oppure esercitata, secondo un contratto o fuori contratto, da un soggetto diverso dall’interessato (g.di affari altrui) *.
Per fare questo, ossia per amministrare l’azienda, bisogna studiarne e poi applicarne i sistemi che ne sono alla base: dal sistema di pianificazione e controllo, a quelli di supporto dei sistemi informativi e del personale, fino ai due processi fondamentali per qualsiasi organizzazione aziendale: il processo di produzione e il processo di vendita o di allocazione dei prodotti e dei servizi presso il mercato di riferimento.
Allo stesso modo, in ambito culturale, il piano del sito UNESCO dovrebbe essere lo strumento mediante il quale indirizzare le scelte più operative, programmare il personale, progettare la macro e la micro struttura organizzativa, individuare il mercato e definire il modello di business. Impiantare le strategie di marketing, individuare i flussi informativi e i processi portanti dell’azienda-sito.
Chiamandosi Piano di gestione, dovrebbe - per l’appunto - parlare di gestione. E invece questi documenti, redatti in conformità alle linee guida dalla Commissione Consultiva per i Piani di Gestione dei Siti UNESCO, e per i sistemi turistici locali, istituita nel 2003 dall’allora MiBAC **, sembrano nella loro tripartizione conservazione-conoscenza-comunicazione più simili a dei piani strategici che a dei veri piani di gestione. Si tratta, infatti, spesso, di modelli di programmazione che ordinano in scala gerarchica una serie di progetti nei vari assi di cui si compongono e che, in fondo, individuano modelli di “governance” più o meno allargata a seconda del caso di specie. Mancano, quasi del tutto, però di riflettere sull’anello debole del processo che dalla conservazione dovrebbe, a mio modo di vedere, portare alla valorizzazione e alla fruizione: quello, cioè, della gestione.
Se ciò accade, se cioè fino ad oggi non si è registrata una domanda per piani di gestione strutturati come sopra li ho immaginati, dipende, ritengo, dal fatto che è del tutto assente l’azienda culturale che ne dovrebbe esprimere la necessità. Manca cioè il livello di responsabilità che dichiara un bisogno di gestione.
A questo proposito, riporto una mia esperienza: recentemente mi sono occupato del Piano di gestione di un importante sito UNESCO, sito su cui convergono, e spesso si accavallano, i seguenti livelli di competenza: una soprintendenza, un polo regionale (e le rispettive due direzioni generali del Ministero), due comuni (che a loro volta esprimono gli interessi di almeno 5 assessorati) una regione (che coinvolge almeno due direzioni) e, infine, un concessionario per la gestione dei servizi al pubblico. Chi, tra tutti questi, è l’imprenditore, responsabile ultimo della gestione del sito UNESCO (nella sua accezione di sito di area allargata) e dei suoi risultati? Tutti e, quindi, nessuno.
E chi ha interesse, dunque, che esista e funzioni un piano che indirizza le scelte della gestione? Tutti ovviamente. E, dunque, nessuno, indeed!
Occorre, quindi, rafforzare il profilo di responsabilità, e conseguente autonomia, dei siti UNESCO. E, in generale, dell’offerta culturale pubblica in Italia. Così come si sta facendo con i trenta musei autonomi, con un percorso che pian piano porterà, a mio modo di vedere, in tempi più o meno lunghi, a un nuovo sistema di aziende culturali autonome sul modello delle fondazioni lirico sinfoniche.
Per un sito UNESCO, trattandosi di sito di area, il tema è certamente più complesso: l’azienda che ne dovrebbe prendere la responsabilità è una azienda con una proprietà composita e talvolta conflittuale (e l’esempio sopra proposto è piuttosto emblematico in tal senso), proprio perché nella compagine vanno spesso a convergere visioni e approcci differenti, i cui vari obiettivi potrebbero anche essere contrapposti. Tuttavia, penso che sperimentare casi di aziende autonome di area, in cui un direttore prende la responsabilità dei risultati (esprimendo al contempo un vero interesse per un vero Piano di “gestione”), potrà essere una nuova frontiera su cui sperimentare. Magari con la visione futura di una programmazione che definisca su base territoriale un nuovo sistema di Aziende Culturali Pubbliche (ACP sul modello delle ASL). Due, tre ACP per ogni Regione, responsabili della gestione dei processi di gestione legati alle politiche di valorizzazione, dirette da due, tre supermanager culturali e finanziate – da Stato, Regioni e Fondazioni bancarie – sulla base di un contratto di servizio che individua le prestazioni e i risultati.
Altrettanto importante, a mio avviso, parlando di Piano di gestione, è il modello di business sotteso alla gestione del sito e, quindi, il profilo di offerta intorno al quale ruotano tutte le pratiche gestionali che poi verranno messe in campo. Vorrei insistere su questo punto poiché troppo spesso ci si è illusi che l’ideazione di modelli di offerta nuovi potesse essere responsabilità della sfera pubblica. Se c’è una via maestra da percorrere per dare nuova linfa al patrimonio (nella sua accezione di servizio pubblico, più o meno essenziale), è quella che poterà a far progettare i sistemi di offerta ai soggetti privati, cosicché gli stessi possano poi intraprendere e rischiare nella gestione del bene.
Ponendo la questione al contrario: se riteniamo (così come io ritengo; ma su questo dobbiamo ammettere che i segnali da parte dei decisori non sono chiarissimi) che il privato -profit, no profit, ecc. - possa rappresentare lo strumento attraverso il quale svolgere la politica pubblica di valorizzazione, dobbiamo rendere il mercato della gestione dei beni un mercato in cui un privato può avere remunerazione congrua del proprio capitale. Dunque, un mercato in cui il rischio che si corre può essere ripagato. Per fare questo occorre da un lato liberalizzare e rendere meno complessa la gestione e, dall’altro, permettere che il privato possa co-progettare l’offerta che, poi, si troverà a gestire. Solo così potremo trovare dei partner, piuttosto che dei meri fornitori di servizi.
* Gestione, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti; vd. http://www.treccani.it/vocabolario/gestione/.
** Ministero per i beni e le attività culturali, Il modello del piano di gestione dei Beni Culturali iscritti alla lista del Patrimonio dell’Umanità: Linee guida, 2004.
Marcello Minuti. Economista, già consulente e ricercatore nel settore dell'economia della cultura, è Coordinatore del Master in Economia della Cultura a Tor Vergata. È Fondatore di Struttura srl, Notfortouristrome.com, e consigliere di amministrazione di PTS Consulting S.p.A.