Tale e quale show
Avete presenti le più celebri opere di Arte povera, Process Art e Conceptual Art, quelle illustrate in tutti i manuali di storia dell’arte contemporanea, alcune di esse diventate «immagini guida» di tutta un’epoca? Ebbene, buona parte di esse coabitarono dal 22 marzo al 27 aprile 1969 nella Kunsthalle di Berna (poi, nello stesso anno, al Museum Haus Lange di Krefeld e all’Ica di Londra), in una mostra destinata a passare alla storia. La curò un trentaseienne Harald Szeemann, che da allora in poi venne soprannominato il Re Mida dell’arte contemporanea, capace di trasformare in oro il carbone, i sacchi di juta colmi di granaglie, un neon, della cera fusa o della margarina, perché tali erano i materiali che componevano le opere esposte in quell’occasione. Un curioso destino avrebbe accompagnato quella mostra, intitolata «When Attitudes Become Form» a sottolineare che si trattava di opere legate alla processualità del fare, ma anche alle trasformazioni che avrebbero subito i materiali, in polemica con la logica commerciale legata all’immutabilità dell’opera feticcio.
Dal 1969 in poi, tutti, critici, curatori, storici, filosofi ecc., la citano come una pietra miliare; ma quanti di coloro che la portano a esempio la visitarono? Così la mostra, compresa nel gotha Die Kunst der Ausstellung (libro pubblicato da Insel Verlag nel 1991), insieme a rassegne come la Wiener Secession del 1902, l’Armory Show del 1913 o la prima edizione di Documenta, negli anni diventò un’icona e un mito, una sorta di Atlantide nella favolosa geografia dell’arte moderna e contemporanea, diventata, supponiamo, oggetto di qualche centinaio di tesi di laurea. Ecco perché quando Germano Celant, padre e padrone dell’Arte povera e dintorni, ne ha annunciato la ricostruzione integrale o quasi nelle sale di Ca' Corner della Regina, sede della Fondazione Prada a Venezia, il mondo dell’arte ha avuto un frisson: prova ne siano le due ore e mezzo di coda cui occorreva sottoporsi, nei giorni della vernice della Biennale di Venezia, per accedere alla mostra sotto lo sguardo sadico di giovani e uscieri (aggiungi la spocchia del mondo dell’arte a quella della moda e il risultato è questo) e non senza essere sottoposti, dopo il martirio dell’attesa, a una lezioncina sciorinata in un buffo inglese da quello che di loro aveva meglio memorizzato il comunicato stampa.
Celant, in effetti, ha avuto un’idea diabolica: unire alla presunta vocazione scientifica della mostra l’effetto spettacolare, un po’ da Barnum curatoriale: non solo la mostra raccoglie la gran parte delle opere originali esposte nel 1969, ma le presenta in un quasi perfetto remake riguardo all’allestimento. Grazie al materiale rinvenuto nell’archivio Szeemann (di proprietà del Getty Research Institute di Los Angeles) e ad altre fotografie dell’epoca, l’evento è stato ricreato in scala 1:1 con la complicità di un artista, Thomas Demand, e di un architetto, Rem Koolhaas, i quali hanno eretto, nella sale barocche di «Palazzo Prada», gli stessi muri della Kunsthalle di Berna, con la stessa tinta, i medesimi battiscopa e ricoprendo i pavimenti con parquet fotografato, esattamente come nell’originale. In questa scatola cinese sfila un centinaio di opere totem (quelle non più recuperabili sono contrassegnate da perimetri tratteggiati): il leggendario tappeto di «36 Copper Square» di Carl Andre; la mitica «Torsione» di Giovanni Anselmo; la sagoma di «Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969» diBoetti. Persino la margarina del «Fat Corner» di Beuys è stata riapplicata agli angoli della sala 11. E che dire di «Suicide and Back Telephone 1966/1967» di un Walter De Maria in pieno raptus noir-concettuale, del fil di ferro di un Flanagan non ancora dedito alle infinite repliche delle lepri, il suo marchio di fabbrica, del lattice di Eva Hesse (una delle poche donne ammesse nel molto maschilista club del concettualismo), di «Sit in» di Mario Merz, opera-manifesto, testimonial degli anni della contestazione sessantottina, o del muro rimosso di Lawrence Wiener («A 36’’x36»)? Senza contare la commozione, nelle vetrinette all’ingresso, di fronte agli scambi epistolari tra Szeemann e Boetti, De Maria, Nauman (che gli dà consigli per la mostra) e Gilardi, o scorrendo le bolle di accompagnamento, con le quotazioni e i valori assicurativi, per la spedizione delle opere…
Ma allora, che cos’è che non funziona, che cosa fa di questa mostra un mostro? Si respira, in queste sale, l’aria poco gradevole di una riesumazione; si prova tristezza. Non è solo per la pesantissima interferenza dei soffitti affrescati e stuccati (le uniche porzioni del palazzo non «truccate» da Kunsthalle) con alcune opere, come quando le ramificazioni che si sprigionano dall’igloo di vetro di Merz sembrano grottescamente proseguire nel rosone sovrastante. Forse, a generare sconcerto, non è neanche l’illuminazione opprimente di quelle sale clonate, sature di opere troppo note per essere riavvicinate senza ingolfare la percezione ottica e soprattutto psicologica del visitatore. È qualcosa di più sottile e disperante. Se in un celebre racconto di Borges un immaginario scrittore, Pierre Menard, riscrivendo, sia pure a frammenti, il Don Chisciotte di Cervantes, arricchisce quell’opera di ulteriori e più sottili significati, il trio Celant-Demand-Koolhaas, replicando un mito, ne ha tratto un simulacro fedele ma morto. E in questa devitalizzazione di una grande e giustamente celebrata mostra, opere nate nel segno dell’energia creativa, ma anche chimica e fisica, appaiono come feticci tassidermizzati, idoli spenti come lo sono, mestamente, le «Torce» di Gilberto Zorio in una delle sale più lugubri nella claustrofobica sequenza di Ca' Corner della Regina.
Se ne esce con senso di liberazione dall’abbraccio soffocante di questo «ritornante» dechirichiano. Ma il remake di oggi è perfettamente in linea con l’attuale momento del mercato, ora che nelle fiere, spentisi i fucsia e i giallo cromo dei Murakami e dei Koons, si ostenta il neutro pauperismo degli anni Settanta: un prodotto ben più radicale rispetto alle operazioni dei giovani neoconcettuali, ma anche di moda in una fase in cui il collezionismo indossa il saio del più ipocrita fra i penitenti.
«When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013»
Fondazione Prada, Venezia, fino al 3 novembre
da Il Giornale dell'Arte, edizione online, 5 giugno 2013