Spalletti propone, la luce dispone
Roma, Torino e Napoli. «Un giorno così bianco, così bianco»è il titolo del trio di mostre di Ettore Spalletti allestito quasi in contemporanea al MaXXI di Roma (13 marzo-14 settembre) alla Gam di Torino (27 marzo-15 giugno) e al Madre di Napoli (13 aprile-11 agosto). Il tutto a cura di Danilo Eccher, Anna Mattirolo, Andrea Viliani e Alessandro Rabottini e affiancato da un catalogo Electa.
Al MaXXI l’appuntamento è pensato come una grande installazione ambientale con 17 opere degli ultimi anni, dalle grandi tavole delle «Parole» di colore grigiazzurro, rosa tenue, rosso azzurro del 2011, alla «Voce bassa» e alle «Colonne sole» del 2014, fino all’opera che dà il titolo alle mostre, un cubo di 4 metri per lato che contiene 11 quadri bianchi e in cui il visitatore è invitato a entrare.
Alla Gam circa 25 lavori provenienti dallo studio di Spalletti nel pescarese (dov’è nato nel 1940) e da importanti collezioni cercano di ricreare l’atmosfera sospesa, magica e spirituale del suo luogo di lavoro, da dove proviene anche il «Disegno» del 1981 esteso su 8 metri, presentato in prima nazionale. Al Madre una quarantina di opere ripercorre l’intera ricerca di Spalletti a partire dagli anni Sessanta, con inediti tra i quali l’installazione-scultura «Foglie» del 1969 e lavori di avvicinamento alle piena maturità espressiva come «Contatto» (1976), «Presenza stanza» (1978) e «Colonna di colore» (1979). Abbiamo intervistato l’artista alla vigilia della prima inaugurazione.
Perché una mostra così articolata?
L’idea è dei direttori e dei curatori dei musei che hanno voluto fare queste tre mostre quasi in contemporanea. Il problema è quello di distinguerle all’interno della realtà della mia opera. Io lavoro sul colore, sull’assorbenza, e lo stesso colore a Torino e Napoli è completamente diverso perché è diversa la luce. La qualità della luce dà respiro al colore, e questo respiro lo si legge in maniera differente nelle tre città. Come nel mio studio, muovo le cose attraverso le luci perché sento che vivono momenti diversi: dalla mattina, con la prima luce, che quasi sempre mi sfugge perché arrivo tardi, alla sera, quando al tramonto i colori si acquietano. Il mio lavoro ha questa caratteristica, ossia il desiderio di offrire prima accoglienza. Dopo, piano piano, inizio a costruire l’opera, un lavoro fatto di luci, colori e forme diverse. E dopo ancora, vado a vederne singolarmente la qualità: opere ferme sulla parete, opere che si spostano e che dalla parete vanno incontro allo spazio, creano dei volumi di pigmento colorato.
Lei ha usato il termine di «accoglienza» anche per l’architettura.
Penso l’architettura come accoglienza, anche se adesso più che altro si aspira a creare riconoscibilità. Io penso l’architettura così, anche nel mio studio le stanze sono costruite con colori diversi, le indico come stanze spirituali. Mi piace parlare della spiritualità, è una realtà dell’uomo che appartiene a tutti e invece ne è stato fatto un uso ristretto dentro la realtà delle religioni.
Come ha affrontato un museo fortemente caratterizzato come il MaXXI?
È un’autocelebrazione dell’architetto, non è un luogo di grande ospitalità, però gli artisti in Italia sono abituati a risolvere i problemi creati dai luoghi, ad allestire mostre negli spazi più strani, perfino in vecchi garage. Provo appunto a risolvere lo spazio, a non subirlo; devo riuscire a sentirne l’umore, capirne le luci, a vedere il mio lavoro dentro un’architettura caratterizzata da desideri lontanissimi dai miei, completamente diversi da quelli che vivo nel mio studio, che è uno spazio di accoglienza, di offerta dell’arte. L’arte è un dono che viene fatto a se stessi e quando si riesce a trasformare il proprio lavoro in un bene, in cui c’è anche il bene sociale, penso che si sia trovato, almeno per me, un luogo importante dell’arte.
A Torino viene ricreato il suo studio?
Non è proprio così, ma a Torino ci sono sculture e lavori alle pareti, e ciò in effetti può far pensare al mio studio. Ci sono anche dei disegni, meno conosciuti, dal mio studio. Invece a Napoli, dove ci sono 17 stanze, ripercorro tutta la mia storia, persino con lavori antichi e meno conosciuti, alcuni mai esposti, ad esempio uno del ’74. Però quello che mi interessa di più è di costruire un umore e, nonostante tutto, di annullare l’idea del tempo, perché quest’età che viviamo è così breve che offrire un dono è già tanto. E allora il valore della data è solo un valore di ricognizione.
Perché tutte e tre le mostre saranno introdotte da una riproduzione in bianco e nero di un’opera del 1976?
È un lavoro fatto a Pescara. Avevo sostituito due pietre in un bagno borbonico, tutte consumate dal calpestio di chi era condannato a vivere in quel luogo di umidità. Ogni giorno andavo a ripulire queste pietre di gesso, una azzurra e una rosa, e intorno si era creato un piccolo alone di polvere. Ho scelto questa immagine per condensare il mio lavoro e i colori che lo hanno caratterizzato: l’azzurro, che è atmosferico, ci viviamo dentro, sempre immersi; il rosa, che si trasforma continuamente, lo penso attraverso l’emotività dell’umore, dell’incarnato.