Ni una más. Arte e attivismo contro il femminicidio
Francesca Guerisoli, direttore artistico della Fondazione Pietro Rossini e curatrice italiana di Zapatos Rojos, il progetto partecipativo che vede protagoniste le famose scarpe rosse dell’artista messicana Elina Chauvet diventate simbolo della lotta contro la violenza sulle donne, ci racconta come da Ciudad Juárez a Milano, la sua ricerca sul rapporto tra Arte e attivismo contro il femminicidio si sia sviluppata ed arricchita fino a diventare un libro
Tre capitoli densi di informazioni, dati, riflessioni elaborati attraverso un approccio interdisciplinare che mette in dialogo studi storico-artistici, giuridici, antropologici e sociologici per ricostruire un fenomeno complesso e a lungo rimasto nell’ombra, il femminicidio a Ciudad Juárez, Messico, e di come arte e attivismo abbiano permesso di portare avanti un processo di ridefinizione della memoria, di affermazione della verità e giustizia, di una ri-umanizzazione delle vittime e sensibilizzazione della comunità internazionale in un contesto di totale disinformazione e occultamento da parte delle istituzioni e dei poteri dominanti.
Qual è la storia di questo libro? Qual è il percorso?
Il percorso inizia con Zapatos Rojos, un progetto di arte pubblica partecipativa, realizzato a Ciudad Juárez, Messico, da Elina Chauvet nel 2009 e che insieme abbiamo portato a Milano, per la prima volta in Europa, nel Novembre del 2012.
Conoscevo già il problema del femminicidio a Ciudad Juárez perché qualche anno prima avevo visto il film Border Town, una pellicola del 2006 realizzata con il sostegno di Amnesty International per diffondere consapevolezza a livello internazionale su quello che avviene in questa città di frontiera. Il film, presentato al Festival del Cinema di Berlino e diretto da Gregory Nava, prende avvio da una storia vera: il rapimento, lo stupro e il tentato omicidio di una giovane lavoratrice a bordo di un autobus sul quale era salita per tornare a casa.
Quando qualche anno dopo sono entrata in contatto con Zapatos Rojos di Elina Chauvet, ho deciso di capire più a fondo questo fenomeno e di iniziare le mie ricerche rispetto alle cause e al contesto.
Un percorso lungo mesi che ho portato avanti anche grazie al supporto importante di Amnesty International che da subito, nella persona di Monica Mazzoleni, responsabile del coordinamento America Latina della sezione italiana di Amnesty, si è resa disponibile nel fornirmi tutte le informazioni e i report prodotti nel corso degli anni.
Il lavoro delle madres de Juárez, delle ONG, degli attivisti, la mobilitazione su scala internazionale ha portato nel 2009 alla sentenza “Campo Algodonero” della Corte Interamericana dei Diritti Umani che si è pronunciata contro lo Stato federale: come sottolinea la giurista Barbara Spinelli, per la prima volta nella storia del diritto internazionale umanitario uno Stato è dichiarato responsabile per i femminicidi avvenuti sul suo territorio. Una condanna esemplare ad uno Stato che ha ignorato la situazione, occultato le indagini, non perseguendo questi crimini.
Quali sono state le principali fonti della tua ricerca?
I documenti che ho utilizzato sono di stampo diverso: oltre a saggi e cataloghi d'arte, ho consultato testi di tipo giuridico, ricerche accademiche prevalentemente di stampo sociologico, rapporti di ONG, inchieste investigative di giornalisti costantemente minacciati, tra i quali Sergio González Rodríguez, autore di Ossa nel Deserto, ridotto in fin di vita per il suo lavoro scomodo sul femminicidio.
Ma non solo, una parte della mia ricerca è il frutto di relazioni e scambi costanti e proficui con artisti e con attivisti per i diritti umani, prime fra tutte le Madres de Juárez, il movimento paragonato alla Madres argentine che ha dato il via alla denuncia: queste donne scendono in piazza in modo pacifico, con elementi simbolici che richiamano la lotta per la verità e la giustizia per le proprie figlie scomparse. E’ grazie a loro e ai movimenti femministi che questo fenomeno completamente occultato dalle autorità è venuto alla luce.
Cosa ci dicono tutte queste fonti? Cosa rende Ciudad Juárez la più pericolosa al mondo per una giovane donna?
Ciudad Juárez ha i classici fattori di rischio delle città di frontiera tra Messico e Stati Uniti: criminalità dilagante legata al traffico di droga, da qui passa l’80% della cocaina proveniente dalla Colombia che va a rifornire il mercato statunitense. Si contano circa 500 gang criminali legate al traffico di stupefacenti, oltre ai cartelli, molto potenti, che governano la città, con una conseguente corruzione molto diffusa di membri delle forze dell’ordine. Connivenza emersa in più inchieste giornalistiche che crea una situazione di violenza costante e quotidiana nello spazio pubblico come in quello privato.
Rispetto al problema del femminicidio però, le statistiche mostrano che le vittime a Ciudad Juárez sono cinque volte maggiori che in città con le stesse caratteristiche come ad esempio Tijuana.
L’inizio del fenomeno è stato identificato nel 1993 e teorizzato nel 1995 da Esther Chavez Cano, attivista femminista, la donna raccolse articoli di giornale dal maggiore quotidiano di Juárez attraverso i quali provò che in quei due anni gli omicidi di donne erano notevolmente aumentati e presentavano caratteristiche comuni, le autorità negarono ma intorno a lei si costituì il primo gruppo di denuncia.
Il 1993 è una data significativa perché è l’anno precedente all’entrata in vigore del Trattato di libero scambio che consente a Stati Uniti e Canada di impiantare le proprie industrie di assemblaggio in Messico.
Questa offerta di lavoro richiamò soprattutto giovani donne, che arrivando in città sole, prive di contatti e di una rete di conoscenze e di supporto, divennero presto le prede più facili.
Studi da parte di sociologi e antropologi legano il fenomeno ad alcuni elementi come il fatto che molte di queste bande criminali pratichino lo stupro come rito di iniziazione per entrare a far parte della gang, o come spesso esponenti delle forze dell’ordine siano essi stessi autori di questi reati. L’antropologa Rita Laura Segato definisce questi crimini “da Stato parallelo”, crimini che servono a comunicare il potere, un’autorità all’interno del gruppo, dove la donna è vittima sacrificale.
Con un’impunità al 95%, il fenomeno sembra quasi diventare socialmente accettabile, si è arrivato a dire, come ha fatto più volte il Governatore dello Stato di Chihuahua, che queste donne se la sono cercata comportandosi in modo disdicevole.
A questo proposito, una cosa importante che fa l’arte prima ancora di dare consapevolezza, è quella di ristabilire la memoria di queste donne e riaffermare, contro i discorsi ufficiali, quello che erano veramente: donne normalissime, giovani, studentesse, lavoratrici.
Il rispetto della memoria delle loro figlie è il nucleo centrale della lotta del movimento delle Madres, che attraverso elementi simbolici come le croci rosa disseminate nei punti dove sono stati ritrovati i corpi, continuano a lottare contro le istituzioni che vogliono cancellare dal dibattito pubblico il problema del femminicidio.
Qual è stato il ruolo della cultura e dell’arte in questo contesto?
In questa situazione estremamente critica di informazione manipolata e offuscamento, la cultura ha reagito e lo ha fatto con forza.
In molti hanno cercato di diffondere consapevolezza del fenomeno attraverso l’arte, ci sono state rappresentazioni teatrali, uno de I monologhi della Vagina ad esempio è proprio su Ciudad Juárez, ma anche la città di Santa Teresa, nel libro 2666 di Roberto Bolaño, parla proprio di queste donne. E ancora la poesia, il cinema, la musica: Tori Amos, ad esempio, ha scritto un brano su questa città.
Nel secondo capitolo del libro racconto delle forme artistiche e dei progetti che hanno indagato e affrontato il tema. Una mappatura dalla quale emerge una grande varietà e che coinvolge diversi artisti: oltre alle opere di Teresa Margolles, Lorena Wolffer, Ursula Biemann, Santiago Sierra, molti progetti sono nati in forte connessione con le famiglie delle vittime, come nel caso di Mayra Martell, che fotografa le loro stanze catturando in modo molto sensibile ciò che resta, la memoria. Lavori partecipati, come l’opera di Lise Bjorn Linnert, dove su etichette standard poi installate a parete, vengono ricamati i nomi della donne uccise e la parola “sconosciuta” per i corpi senza nome.
Molte artiste sono di Città del Messico, mentre è più difficile trovare artiste locali, un fattore probabilmente dovuto alla paura, poiché parlarne, anche attraverso l’arte, ti mette a rischio. Elina Chauvet per via del suo progetto è stata minacciata più volte.
Raccontaci di più di lei e di Zapatos Rojos, di cosa si tratta?
Zapatos Rojos nasce nel 2009 e viene installato proprio in una del centro cittadino strade da cui sono scomparse molte ragazze, ma io ne sono venuta a conoscenza quando il progetto è stato riproposto a El Paso nel 2012, mentre facevo ricerca rispetto a come l’arte affrontasse il problema della violenza contro le donne.
Un tema molto complesso e difficile, spesso si incontrano dei lavori che sono banali e sensazionalistici, ma quando ho visto l’immagine del progetto in un articolo che parlava di Zapatos Rojos a El Paso, ne ho subito capito la forza.
Quel che si vede è la fotografia di un'installazione di scarpe rosse, ma si tratta solo della parte finale di un lavoro processuale e partecipativo dove le scarpe vengono donate da singole e singoli, vengono dipinte tutti insieme mentre si racconta e si viene a conoscenza di quello che succede a Ciudad Juárez. Un lavoro che ha senso solo se si crea una rete, una rete che condivide una battaglia, una rete di solidarietà della quale le scarpe rosse ne sono la visualizzazione.
Una rete che negli anni si è estesa seguendo il cammino fatto da Zapatos Rojos non solo in Italia, ma anche in Spagna, Norvegia, Stati Uniti, Inghilterra, Canada, Uruguay e in molti altri paesi. Chiunque può diventare “soggetto attivatore” del progetto sul proprio territorio e riproporre l’opera seguendo le indicazioni dell’artista ma con margine d autonomia rispetto ad alcuni punti, diventando responsabile della rete.
Come racconti nel libro, in Italia le scarpe rosse Elina Chauvet sono diventate simbolo della lotta al femminicido, come lo spieghi?
In modo molto inaspettato e dirompente in Italia le scarpe rosse sono diventate nei media e nell’immaginario collettivo un simbolo condiviso della lotta contro la violenza sulle donne, è molto bello perché è avvenuto in modo spontaneo, dal basso, grazie alla forza dell’opera e del suo significato.
In alcuni casi questa assimilazione ha fatto sì che non si citasse il progetto o il fenomeno da cui deriva, in altri, Zapatos Rojos è stato replicato senza che l’artista stessa ne fosse a conoscenza, una perdita di autorialità arrivata in alcuni casi fino al plagio più sfacciato.
Ma è proprio qui l’eccezionalità del progetto: l’aver saputo dare visibilità ad una problematica in un contesto preciso che aveva bisogno di una rete di attenzione internazionale e al contempo essere diventato simbolo di una lotta, quella al femminicidio, che è priva di confini geografici o politici.
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Ni una más
Arte e attivismo contro il femminicidio
Francesca Guerisoli
postmedia books 2016
240 pp. 147 ill.
isbn 9788874901562