Mecenati, famiglie, cultura
Mecenate: parola antica, preziosa, oggi da ripensare. Filologicamente è parte di una storia, in cui le arti e il saper fare artigiano erano sovrapposti e i mestieri della creazione non avevano ancora conquistato l’autonomia consegnata loro dal romanticismo. Oggi il suo significato si estende al senso della «presenza privata» nel sistema delle produzioni artistiche, una presenza contigua a quella dei mercati, che si confronta con i profondi processi di ristrutturazione che caratterizzano il nostro tempo. In Italia il «privato» ha giocato un ruolo importante e duraturo nelle arti. Il nostro patrimonio culturale è costellato di ville, castelli, parchi, giardini, collezioni, biblioteche, archivi storici, che si sono mantenuti grazie alla passione di individui, alle risorse e all’orgoglio di famiglie e imprese. Le arti hanno trovato nei privati un riferimento per la loro continuità e il loro ruolo. E’ stato un Visconti di Modrone a salvare la Scala in crisi ai primi del Novecento e altre imprese, industriali e bancarie, hanno preso il testimone negli ultimi anni, accompagnando il teatro milanese ai vertici attuali. Anche nel campo del patrimonio culturale l’azione dei privati è significativa, basti pensare all’azione del Fondo Ambiente Italiano, sia sul piano della conservazione che in quello della promozione della cultura del patrimonio. Con il Fai si muovono in un impegno diffuso altre associazioni (Dimore Storiche, Ville Venete).
Non sono episodi isolati. La tradizione italiana di imprese capaci di immaginare e condurre una consapevole politica culturale si è radicata tra Otto e Novecento sull’onda di esempi non privi di venature utopiche di matrice anglosassone e soprattutto tedesca, che hanno trovato nuove forme di concretezza nelle esperienze dei Marzotto a Valdagno, dei Rossi di Schio, dei Camerini a Piazzola sul Brenta, della stessa Fiat a Torino. La grande svolta è stata dettata nel secondo dopoguerra dalla visionarietà incandescente di uomini come Adriano Olivetti e, seppur con toni diversi, Enrico Mattei, ancora oggi capaci di ispirare modelli e comportamenti. La contemporaneità è in mano a un mondo privato spesso non chiassoso, difficile da censire, molto variegato in termini di strumenti, di esperienze, di risultati. Un mondo prezioso per la cultura. I privati gestiscono in Italia 729 archivi (il 20% dei censiti, una quota in rapido aumento), 2.114 biblioteche, 771 Musei di cui 149 direttamente dipendenti da imprese industriali, bancarie, commerciali e di servizio, questo per non parlare delle 131 fondazioni d’impresa e delle centinaia di mostre, concerti, eventi, festival che devono la loro esistenza al supporto privato.
Questo mondo e questo modo di fare oggi si trovano al centro di una sfida di inusuale portata. Dal secondo dopoguerra in poi nel nostro Paese cultura e industria si sono confrontate stando nel cono d’ombra di una mano pubblica capace di sostenere almeno l’ottanta per cento dei fabbisogni di risorse delle istituzioni culturali. Il mercato dei biglietti e dei servizi copre complessivamente il dieci per cento, un'altra quota equivalente dipende dal sistema delle fondazioni bancarie e delle imprese private. Da ora, per note ragioni macroeconomiche, le risorse pubbliche sono destinate a ridursi drasticamente ponendo, il mondo della cultura e quello dell’impresa in una necessità di contatto finora sconosciuta.
Cosa potrebbe accadere? Per quali ragioni questa situazione può essere pensata come una grande opportunità e non come l’anticamera di una catastrofe?
E’ bene partire da un’evidenza scomoda. I due sistemi, quello delle imprese e quello delle produzioni culturali, per la loro storia e per la tradizionale presenza dell’intervento pubblico sono, ad oggi, profondamente disallineati: rispondono a logiche non comuni e sovente non comunicanti, altrettanto può dirsi dei loro obiettivi, dei loro processi. Non mancano esempi di rapporti corretti e duraturi, ma nel complesso sono immersi in un mondo in cui le buone prassi sono rare. Le imprese italiane, oggi non moltissime, coinvolte nella cultura offrono un panorama frammentato e diseguale, fortemente influenzato dalla sensibilità di individui. Non sono frequenti, seppur in crescita, politiche sistematiche. Le azioni sono per lo più mirate all’acquisizione di capitale simbolico per i marchi e non mancano dubbi riguardo ai risultati e ai costi opportunità rispetto ad altri tipi di investimento (nello sport o nell’imprenditorialità sociale).
Non si tratta di immaginare che le imprese prendano il posto del sistema pubblico. E’ prevedibile che, in tempi non lunghi, in questo scenario congiunturale, diverse e urgenti istanze di soccorso andranno ad affollare le agende delle imprese più grandi e delle banche.
Per questo motivo, il mecenatismo o il «neomecenatismo» non possono essere richiamati come leitmotiv del possibile futuro. La disponibilità alla partecipazione delle imprese al sistema cultura non si risolve con appelli alla generosità. Interventi privati, per quanto eccezionali, non saranno risolutivi se non verrà data reimpostazione complessiva al sistema, che deve passare da una riedificazione del ruolo e della capacità operativa del sistema pubblico e dalla creazione delle condizioni per il diffondersi di pratiche di partenariato tra imprese e cultura caratterizzate da una adeguata consapevolezza della carica di opportunità e di complessità che esse implicano.
Una delle caratteristiche strutturali del sistema industriale italiano, invidiata da tutto il mondo, soprattutto dopo le ondate di industrializzazione degli anni ottanta del Novecento è rappresentata dalla ricchezza del tessuto delle medie imprese familiari, dalla loro capacità di costruire percorsi di eccellenza di grande livello internazionale. Le oltre 2.500 imprese familiari caratterizzate da un fatturato superiore ai 50 milioni di euro (Osservatorio Aidaf-Unicredit-Bocconi) hanno legami stretti con i loro territori. I loro interventi culturali rispondono a tre principali linee:
1. di coerenza identitaria e legittimazione della famiglia come riferimento simbolico e strategico per le imprese. La politica culturale ribadisce la presenza di valori, di responsabilità, di successi e di relazioni politico-istituzionali. Le narrazioni di famiglia sono sorgenti di ispirazione e conferme di autenticità. In imprese operative da più generazioni, la cultura rilancia un’egemonia che dai fondatori si irradia sulle leadership future, sui prodotti e sui marchi anche attraverso memorie, archivi, donazioni, restauri, collezioni;
2. di pratiche di mercato. Le politiche culturali generano il valore auratico e simbolico dei prodotti, lo irradiano nei punti vendita, lo rilanciano in azioni di diplomazia culturale. Sono frequenti nel mondo della moda o nell’alta gamma (i casi noti di Trussardi, Prada, Zegna, nelle cantine astigiane Gancia, Ceretto o in quelle toscane di Frescobaldi, Ama, nelle politiche di Illy, dei Lunelli e di molte altre famiglie);
3. delle caratteristiche specifiche delle organizzazioni, in alcuni casi per le competenze tecniche antiche o di archivi (Rubelli), collezioni (Alessi), architetture (come nelle belle cantine dei Rallo a Marsala). Più rara è la consapevolezza che la cultura possa creare un senso del lavoro e dell’impresa capace di cementare, di motivare, di innovare.
Le evidenze comuni di questi esempi sono importanti: la cultura è una necessità insita nel fare impresa, sentita direttamente, sulla pelle delle persone, senza mediazioni burocratiche, gestita ai diversi livelli di soggettività, con una tendenza allo sviluppo diretto dei progetti, prevalente rispetto a sistemi articolati di mediazione e partecipazione.
Le politiche culturali non sono un tratto accessorio, periferico, delle politiche di comunicazione, ma sono dettate dalla stringente necessità di rilanciare, in una prospettiva sociale, il senso di fare impresa. Il senso di un’imprenditorialità capace di creare ponti tra tecnologia, scienza, arti e immaginari, parte centrale, irrinunciabile di ogni modernizzazione. Un’intuizione su cui ricostruire il presente della nostra economia. Una necessità che potrà trovare risposta solo se lo Stato diffonde a piene mani cultura nel contesto, formando reti di connessione, alleanze, partenariati, uscendo da obiettivi istantanei e focalizzati, nella consapevolezza che ogni progetto culturale investe un interesse pubblico. Questa prospettiva, ancora da costruire, si deve congiungere a forme di governo che dovranno vedere il rilancio del ruolo pubblico sia a livello centrale che a livello locale, basato sul confronto con le imprese e con le professioni più radicate della cultura.
Un cammino lungo, da cominciare subito. Prima che sia tardi.
dal X Rapporto Annuale Sponsorizzazioni del Giornale dell'Arte (novembre 2011)
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Stefano baia curioni è Direttore Laurea Specialistica Economics and Management for the Arts, Media and Entertainment (ACME)- Università Bocconi-Milano