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L'AZIONE CULTURALE E LA NECESSITÀ DI UNA VISIONE DI LUNGO PERIODO

  • Pubblicato il: 14/12/2016 - 22:27
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Vittoria Azzarita

Francesco Bandarin è Vice Direttore Generale alla Cultura presso l'UNESCO. Specialista in architettura e pianificazione urbana, per dieci anni ha ricoperto l’incarico di Direttore del Centro del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, favorendo lo sviluppo di un vasta rete di collaborazioni tra pubblico e privato. In virtù della sua lunga esperienza nel settore culturale, ci siamo confrontati con lui per sondare lo stato di salute del nostro patrimonio e riflettere sull'azione culturale a livello internazionale. Non nascondendo la sua preoccupazione per il futuro, Francesco Bandarin pone l'accento sulla necessità di dotarsi di un approccio integrato di lungo periodo perché – come lui stesso afferma - “nel complesso c'è un serissimo problema di prospettiva. Se non pianifichiamo le azioni e gli interventi da compiere nei prossimi venti o trent'anni, ci ritroveremo con delle città che somiglieranno sempre di più a dei luna park, che saranno sempre più sotto pressione, e avremo sempre meno margini di azione”


 
 
Prof. Bandarin, sono passati settant'anni da quando la Costituzione dell'UNESCO è entrata in vigore, il 4 novembre 1946. In qualità di Vice Direttore Generale alla Cultura, e anche in virtù del suo precedente incarico di Direttore del Centro del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, c'è un'azione oppure un programma dell'UNESCO a cui si sente particolarmente legato?
Il discorso è ampio, però quello che ho cercato di fare da quando sono arrivato all'UNESCO sedici anni fa, è stato di fornire una strutturazione maggiormente omogenea alle azioni che ricadevano nel campo del patrimonio, visto che per dieci anni sono stato il Direttore del Centro del Patrimonio Mondiale, che è l'ente responsabile della gestione corrente della Convenzione e dell’amministrazione del Fondo per il Patrimonio Mondiale. La strutturazione e l'organizzazione del Centro del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO sono stati determinanti per poter svolgere il ruolo di centro di coordinamento della Convenzione, e per aprirsi verso nuove esperienze con differenti partner pubblici e privati. In termini di visibilità il Centro del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO è diventato uno degli organi più importanti dell'UNESCO. Se si considera che complessivamente i nostri siti web hanno circa 2 milioni di visitatori al mese, e che di questi 1 milione fa riferimento al sito internet del Centro del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, è possibile affermare che il programma sul Patrimonio Mondiale è quello che ha conseguito il maggior successo in termini di pubblico.
All'interno di questa azione, data la mia formazione di architetto e di urbanista, mi sono reso conto che c'era un'insufficienza nel modo in cui non solo l'UNESCO, ma anche le altre organizzazioni internazionali come l'ICOMOS e l'ICCROM, concepivano e gestivano il tema del patrimonio urbano, facendo riferimento nella maggior parte dei casi ai principi della conservazione del patrimonio monumentale delle città storiche. Questo secondo me era un approccio poco appropriato alla grande varietà dei contesti urbani con cui l'UNESCO deve confrontarsi. Per tale motivo abbiamo cercato di innovare l'approccio alla conservazione del patrimonio urbano. E oggi possiamo dire di esserci riusciti visto che nel 2011 l'UNESCO ha approvato la prima Raccomandazione sulla conservazione del patrimonio urbano della sua storia, che si chiama appunto “Raccomandazione per il Paesaggio urbano storico”. L'interesse nei confronti di questo tema ha poi dato vita a ulteriori studi e a numerosi centri di ricerca, e questo non può che farmi piacere.
 
 
Prof. Bandarin, come ricordava prima lei è specializzato in architettura e pianificazione urbana. Una delle ultime pubblicazioni dell'UNESCO - “Culture: Urban Future. Global Report on Culture for Sustainable Urban Development” - analizza i contesti urbani e pone in evidenza il ruolo che la cultura svolge nel favorire uno sviluppo sostenibile all'interno delle città e delle grandi aree metropolitane. Quale coordinatore delle attività di ricerca che hanno portato alla stesura del rapporto appena citato, ci può dire qualcosa di più a riguardo?
Circa un mese fa, in occasione della United Nations Conference on Housing and Sustainable Urban Development (Habitat III), abbiamo presentato il rapporto “Culture: Urban Future. Global Report on Culture for Sustainable Urban Development”. Tale studio, su cui abbiamo lavorato per molti anni e che ha coinvolto centinaia di persone, contiene la prima indagine mondiale sulla situazione del patrimonio urbano. Essendo docente di questa materia all'università, so che non esiste un'altra ricerca globale sulla situazione del patrimonio urbano, né nell’ambito accademico né in quello professionale. Secondo me, questo studio rappresenta un punto d'inizio molto importante per un'istituzione come l'UNESCO, sia perché i contesti urbani saranno sempre più rilevanti nei prossimi anni, sia perché le aree urbane e metropolitane comprendono al loro interno le città storiche, che sono il riferimento delle Convenzioni dell'UNESCO. Le città sono i luoghi della contemporaneità, e se si vuole lavorare sugli aspetti culturali non si può stare sulle nuvole ma si deve scendere a terra. E quando si scende a terra ci si accorge che la gran parte della popolazione del pianeta vive oggi nelle città; quindi chiunque abbia la possibilità di sviluppare ed espandere programmi in campo culturale è in un certo senso obbligato a partire dalle città, che rappresentano il futuro dell'azione culturale a livello internazionale.
 
 
In qualità di esperto del settore culturale, come valuta lo stato di salute delle nostre città d'arte?
A questo proposito, desidero farle sapere che da due anni sono anche il Presidente dell'Associazione Nazionale Centri Storico-Artistici (ANCSA), che è stata costituita nel 1960-61 allo scopo di promuovere iniziative culturali e operative a sostegno dell'azione delle amministrazioni pubbliche per la salvaguardia e la riqualificazione delle strutture insediative esistenti. Recentemente con l'ANCSA abbiamo avviato – dopo una intensa ricerca di finanziamenti – uno studio per arrivare tra sei/otto mesi alla pubblicazione di un Libro Bianco sulla situazione delle città storiche in Italia. Mi sembra opportuno sottolineare che in quest'ambito esiste un vuoto pneumatico di conoscenze, in quanto sono trent'anni che non si fanno più studi sui centri storici a livello nazionale. Lo scopo della nostra ricerca è quello di offrire una piattaforma di discussione sulle politiche di intervento, destinata principalmente al governo nazionale che da molti anni non ha messo la sua attenzione su questi “gioielli d'Italia”, trasferendo tutte le competenze alle Regioni e non facendo alcun monitoraggio sulla situazione.
Fortunatamente le città italiane sono quasi tutte abbastanza preservate, sono tutte sotto tutela, ed è difficile che vengano distrutte. Quindi sul piano della conservazione fisica credo che nell’insieme siano stati raggiunti dei buoni risultati. Sul resto assistiamo invece a una vera e propria catastrofe annunciata: spopolamento generale, presa di potere da parte del turismo di massa; per cui dobbiamo cercare di ripristinare un equilibrio: un equilibrio sociale, un equilibrio di usi, ed anche un equilibrio economico.
Io sono veneziano e credo che lei possa capire perché sono così preoccupato per il futuro delle nostre città d'arte. Quando mi reco a Venezia capisco che quella non è più una città, non lo è secondo nessuna delle definizioni possibili di città; è un villaggio turistico bellissimo e anche di grande qualità, con monumenti perfetti e musei interessanti, ma non è più una città. Una città è un'altra cosa, è una realtà che ha una popolazione, che ha una società che è in grado di gestirsi, di costruire il proprio futuro. A Venezia, purtroppo, non c'è più una società in grado di programmare il suo futuro. Il futuro lo costruisce soltanto la grande industria turistica: questa è la verità.
E questo succede anche a Firenze, succede in molte città. Ogni volta che parlo con i sindaci italiani mi sembrano poco coscienti del fatto che il turismo internazionale è il settore produttivo con il tasso di crescita più rapido del mondo: cresce a una media del 4,5% all'anno da trent'anni e continuerà a farlo per i prossimi trent'anni. Quindi noi tra quindici anni avremo circa il doppio di turisti internazionali: per cui Venezia che oggi ha 25 milioni di turisti l'anno ne avrà 50, e così via. E a quel punto non si potrà parlare neanche di villaggio turistico, perché tutto si sarà trasformato in un gigantesco luna park.
Dal mio punto di vista c'è un'assenza totale di politiche a livello nazionale; sì certo alcune regioni fanno qualcosa, ma nel complesso c'è un serissimo problema di prospettiva. Non sono catastrofista, sono realista. Quindi come Associazione Nazionale Centri Storico-Artistici stiamo portando avanti uno studio serio, scientifico, con l'obiettivo di presentarne i risultati nel corso di una conferenza sulla situazione dei centri storici italiani che si terrà nel 2017 a cui spero che parteciperà anche il Presidente del Consiglio dei Ministri, per comprendere perché i gioielli d'Italia sono in grave pericolo.
 
 
In tema di condivisione delle conoscenze, dall'8 al 10 novembre il MiBACT ha riunito in una conferenza intitolata “Per un Osservatorio dei Siti UNESCO”, i 51 siti italiani iscritti nella Lista del Patrimonio dell’Umanità con l'intento di dar vita a un luogo di integrazione e di contatto tra le istituzioni e i vari livelli amministrativi coinvolti nella gestione dei siti UNESCO. Dal suo punto di vista, tale Osservatorio è un buon punto di partenza?
L’idea di costituire un Osservatorio mi sembra molto buona, in quanto conoscere la situazione fa parte del mestiere di chi deve governare. Purtroppo, ripeto quanto detto prima, la conoscenza a livello aggregato è oggi pari a zero, nel senso che se si chiede al Ministro dei Beni Culturali qual è la situazione delle città storiche in Italia, di certo non saprà rispondere perché al momento non c'è nessuno strumento che permetta di ottenere questo tipo di informazioni. Quindi prevedere la nascita di un Osservatorio è un'ottima iniziativa in quanto permette di razionalizzare le informazioni e di metterle a disposizione delle politiche.
A questo proposito, è bene sottolineare che le politiche non sono solo quelle culturali. A mio parere, uno dei maggiori disastri per le città storiche è stata la Legge Bersani che, liberalizzando le attività commerciali, ha tolto ai Comuni l'unico strumento che avevano per gestire l'andamento e regolamentare la distribuzione del commercio nelle città. Per cui tolto quello, il mercato turistico si è impadronito delle città storiche. Quindi diventa necessario istituire delle regole, fornire degli strumenti di gestione ai sindaci. C'è un problema serio di gestione dei centri storici, che non può essere risolto con il liberalismo indiscriminato se vogliamo preservarne la bellezza e se vogliamo continuare a considerare le città d'arte un elemento strategico per l'immagine del nostro Paese nel mondo. Ecco se vogliamo che i nostri centri storici non diventino dei villaggi turistici bisogna darsi delle regole. So che questo ad alcuni non piacerà, ma purtroppo non ci sono alternative.
 
 
A fine ottobre la Fondazione Riccardo Catella e il Sovereign Investment Lab dell’Università Bocconi hanno organizzato un workshop intitolato “L’Arbitraggio culturale: nuove frontiere nella gestione del patrimonio culturale e del turismo”, a cui lei ha partecipato. Alla luce della sua esperienza, ritiene che le operazioni di arbitraggio culturale siano realmente applicabili al contesto italiano?
Credo sia importante spiegare prima di tutto cosa si intenda per “arbitraggio culturale”. È una terminologia che indica gli scambi tra paesi che sono ricchi di capitale economico e poveri di patrimonio, e quelli che sono poveri o comunque meno ricchi economicamente e hanno molto patrimonio culturale. È una specie di compensazione o di interscambio tra contesti che hanno risorse distribuite in modo diverso. Ora, quest'idea si applica molto facilmente ad alcuni contesti: ad esempio, se prendiamo in considerazione il contesto arabo – che è tra l'altro quello che ha ispirato questo convegno – ci sono città come Dubai che hanno un patrimonio culturale davvero minimo e moltissime risorse economiche, e Paesi come l'Egitto che hanno un patrimonio culturale immenso e rilevantissimo ma risorse economiche molto scarse.
In questo scenario, il caso italiano è un po' diverso perché l'Italia non presenta una condizione estrema né in un senso né nell'altro. Si tratta quindi di uno strumento che va sicuramente adattato ai contesti in cui viene applicato. Inoltre bisogna capire cosa si dà in cambio perché il denaro non si muove mai senza una valida ragione. Quindi diviene necessario fornire una motivazione se vogliamo attrarre capitali esteri in Italia, una motivazione che può essere di tipo mecenatistico oppure di tipo economico mostrando ad esempio quali potrebbero essere gli eventuali utili anche nel lungo periodo.
L'aspetto che mi è piaciuto di più del convegno è stato il fatto che abbia posto l'accento su un approccio di lungo periodo, perché il nostro compito è quello di proteggere il patrimonio, e non si fa protezione nel breve periodo; invece tutto il sistema finanziario e politico è concentrato sul breve periodo. Quindi trovare un sistema che riesca a pensare a lungo termine è molto importante per noi.
Come ho detto anche a Milano, durante il convegno, un altro problema serio è che la principale industria che fa uso del patrimonio culturale – ossia il turismo – è focalizzata sul breve periodo, ed è molto volatile e anche instabile. Dal mio punto di vista il turismo non si è mai assunto la responsabilità di conservare nel lungo periodo quello che è l'oggetto principale della sua attività. Un'industria di lungo periodo ha una strategia di tutela, di protezione e di rigenerazione delle risorse. Al contrario il turismo non ha mai voluto affrontare seriamente questa questione, e a me sembra che sia questo il vero problema. In questo senso, l'arbitraggio potrebbe essere una modalità da proporre al sistema turistico, in modo che nel suo insieme – anche se ciò è molto complesso da attuare – si possa dar vita a una cooperazione di lungo periodo per la tutela e la valorizzazione del patrimonio. Purtroppo al momento non vedo alcun atteggiamento di responsabilità sociale da parte dei grandi operatori turistici, fatte salve le dovute eccezioni che restano in ogni caso una piccolissima minoranza. Secondo me gli economisti, che lavorano su questi temi, dovrebbero cercare di proporre dei meccanismi per fare in modo che la principale industria che beneficia dell'investimento pubblico sui beni culturali possa entrare in compartecipazione nella conservazione del patrimonio e nella rigenerazione delle risorse.
 
 
In quest'ottica, crede che una virtuosa collaborazione tra pubblico e privato possa contribuire a una migliore gestione del patrimonio culturale? Ci sono dei modelli e delle esperienze di partenariato che ritiene particolarmente efficaci?
In questo campo gli americani sono certamente più avanti di noi, quindi dobbiamo guardare ai loro modelli, che hanno puntato molto sullo strumento delle esenzioni fiscali. Noi li abbiamo in parte adottati, però secondo me c'è ancora molto da fare su questo fronte. Credo sia necessario creare una coscienza collettiva soprattutto partendo dall’approccio di quella parte del mondo imprenditoriale che ha adottato la logica della Corporate Social Responsibility e, quindi, è abituato a utilizzare questi meccanismi fiscali. In America il fenomeno delle donazioni in esenzione è molto diffuso anche a livello individuale, mentre noi stiamo ancora costruendo una cultura della partecipazione del privato alle missioni collettive e ci vorrà del tempo.
Forse in Italia serve anche qualche spinta in più sul piano legislativo. Però non vedo alternative, il modello è l'America dove non voglio dire che lo strumento sia perfetto ma c'è una partecipazione collettiva certamente rilevante. Poi si possono immaginare una serie di meccanismi per collettivizzare di più la partecipazione finanziaria alla conservazione del patrimonio, ma questa mi sembra l'unica strada percorribile in futuro visto che le risorse pubbliche non si stanno certo risollevando.
Va detto che in Italia abbiamo la fortuna di avere anche le fondazioni che certamente aiutano il settore culturale. Però anche loro in questo momento sono parecchio sotto stress: con la crisi che c'è stata in questi anni, il trasferimento di alcuni oneri di carattere sociale – come l'assistenza sociale di base - ha molto ristretto il margine operativo delle fondazioni, lasciandole con meno risorse da investire nel settore culturale. Non c'è dubbio che il terzo settore compensi molte delle mancanze e delle carenze del pubblico. In ogni caso, secondo me va ripensato il rapporto con il privato nella sua accezione più ampia, che non comprende solo le imprese ma anche i privati cittadini. E va ripensato sul lungo periodo perché se non facciamo così tra dieci anni ci ritroveremo con delle città che somiglieranno sempre di più a dei luna park, che saranno sempre più sotto pressione e avremo sempre meno margini di azione.
 
 
Dalle sue osservazioni traspare una profonda preoccupazione per il futuro del nostro patrimonio...
È evidente che i Comuni e lo Stato non avranno in futuro le risorse per continuare a fare ciò che è stato fatto in questi decenni. C'è stata una notevole riduzione della finanza pubblica e le altre priorità sembrano arrivare sempre prima della cultura. Quello che mi dispiace è che il discorso che stiamo facendo non venga trattato a livello nazionale. Invece bisognerebbe affrontare di petto la questione e chiedersi cosa succederà nei prossimi trent'anni: ci sarà un'ulteriore moltiplicazione del turismo e quindi un impatto crescente dell'industria turistica. Ma dove sono le strategie per far fronte e gestire questa domanda? E come questa domanda potrà partecipare alla conservazione del patrimonio? Ecco se io fossi nei panni di chi ci governa cercherei di elaborare una strategia di lungo periodo, di pianificare le azioni e gli interventi da compiere nei prossimi venti o trent'anni, ma purtroppo questo non lo fa nessuno. Secondo me c'è una mancanza di coscienza politica e sociale, oltre che di visione di lungo raggio, perché alla fine i problemi arrivano sempre.
Io sono solito dire che a Venezia alla fine sarà la polizia a gestire i flussi turistici nel prossimo futuro, perché già oggi in alcuni giorni dell'anno la città è al collasso e la polizia è costretta a fermare la gente sul Ponte della Libertà, che è la via d'accesso alla città, in quanto è stata raggiunta la massima capienza possibile. A Venezia oggi che si fa? Come si fa a bloccare oppure a invertire una tendenza del genere? Come si fa a riportare la popolazione locale? Come si fa a riportare i giovani? Come si fa a regolare il mercato immobiliare? Come si fa a impedire che tutto diventi solo a servizio del turismo? È molto difficile perché non c'è stata alcuna azione intermedia. Come si dice, una volta che i gatti sono scappati è difficilissimo riportarli indietro. Certo è più complesso ragionare in questo modo e capisco anche le difficoltà dell'amministrazione locale, che è imputata di tante cose su cui non ha nessuna capacità di governo. Però deve essere chiaro che più si va avanti in questa direzione, meno si potrà fare per rimediare a questa forma di squilibrio, a questi nuovi modelli d'uso che le città hanno creato.
 
 
Garantire alla cultura una posizione di rilievo nelle strategie e nei processi di sviluppo è uno dei principi fondativi dell'UNESCO. Per quale motivo, secondo lei, le politiche culturali faticano ancora oggi ad affermarsi non solo nei paesi in via di sviluppo ma anche in contesti economicamente maturi?
La cultura è sempre stata considerata una specie di lusso, e nella realtà delle amministrazioni pubbliche la cultura rappresenta quasi sempre l'ultima delle priorità. Non c'è mai stata secondo me una visione integrata. Come UNESCO stiamo cercando di spiegare a livello internazionale che la cultura non è solo un elemento fondamentale nella buona messa in pratica di progetti che si applicano a contesti intrinsecamente culturali, ma è anche un fattore di sviluppo economico molto importante, insieme al turismo. Quindi stiamo cercando di spiegare che il settore delle industrie culturali e creative ha bisogno di politiche d'appoggio. La Convenzione UNESCO per la Protezione e la Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali opera esattamente in questa direzione, creando le condizioni affinché il contributo della cultura come strumento di sviluppo economico non venga dimenticato dalle politiche pubbliche. Certo ci vorrà del tempo. Siamo coscienti del ruolo ancora marginale che la cultura svolge nelle politiche pubbliche, però abbiamo messo in moto una serie di meccanismi che in futuro speriamo possano portare a dei risultati migliori.
 

 
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