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L’impresa di comunità nei processi di innovazione culturale

  • Pubblicato il: 15/02/2018 - 08:05
Rubrica: 
DOVE OSA L'INNOVAZIONE
Articolo a cura di: 
Paolo Venturi (Aiccon), Flaviano Zandonai (Euricse, Iris Network)

In un quadro normativo sempre più sfaccettato quale ruolo giocano comunità di luogo e di intenti come attori di trasformazione sociale? Dal Rapporto Federculture
 


 
La collocazione dell’impresa di comunità in campo culturale
Nel dibattito sull’imprenditorialità culturale l’avvento dell’impresa di comunità può rappresentare sia un rischio che un’opportunità. Un rischio per il fatto che, in questo ambito, si sono moltiplicate, soprattutto negli ultimi anni, le proposte in termini di modelli organizzativi e di forme giuridiche che dovrebbero consentire di definire l’“impresa culturale” [Bosi, 2017]. Uno statuto che, nelle attese delle varie coalizioni che ne promuovono la definizione, dovrebbe collocarsi in posizione di equilibrio dinamico e sostenibile tra, da una parte, le conformazioni di origine nonprofit – associazioni e fondazioni in particolare - e dall’altra la cultura organizzata in forma di industria for profit [Busacca, Rubini, 2016]. L’opportunità è sostanzialmente legata alla recente “new wave” di innovazione che dal contesto strettamente legato alla produzione culturale si allarga al più ampio alveo della social innovation [che Fare, 2016]. Un ambito nel quale la ricomposizione delle modalità di azione collettiva rappresenta l’ingrediente fondamentale per un mutamento non incrementale ma sistemico, teso cioè a modificare i parametri di funzionamento dei modelli sociali ed economici dominanti. La leva del cambiamento consiste non tanto in nuove infratrutture tecnologiche, ma nell’ingaggio e nella messa in rete di attori distinti e fin qui non interconnessi che assumono, significativamente, l’assetto di “communities” fortemente orientate al coinvolgimento nei processi produttivi e negli assetti di governance di organizzazioni, progetti, politiche [Caroli, 2016].
 
In questo senso le forme ri-emergenti di imprenditoria comunitaria scaturiscono essenzialmente dall’arricchimento dei modelli di impresa a scopo sociale che si moltiplicano anche al di fuori dei confini del terzo settore [Venturi, Zandonai, 2016]. Al tempo stesso una medesima spinta generativa scaturisce dalla ridefinzione di modelli di economia sociale, in particolare di origine cooperativa, recuperandone il carattere di alterità rispetto al modello economico mainstream, ma, al tempo stesso, alterandone i caratteri costitutivi secondo modalità che allargano il mutualismo in senso multi-stakeholder [Borzaga, Fazzi, 2011]. Sollecitazioni che sono quindi di origine esogena ed endogena rispetto a un inedito campo di azione e di significato che scaturisce dall’intersecarsi di processi di produzione di valore sociale, azioni di advocacy su una nuova agenda di politiche inclusive e innovazione di processo introdotta dalle più recenti tecnologie dell’informazione e della conoscenza. Il tutto secondo modalità collocabili all’interno di tre diverse cerchie, corrispondenti ad altrettanti livelli di intensità di riconoscimento e di attivazione dei legami tra persone ed enti pubblici e privati per ridefinire identità, organizzazione ed economie su base comunitaria [Farina, et al., 2017].
 
La cerchia centrale è costituita dalle startup di cooperazione di comunità, sorte spontaneamente, in epoca recente, soprattutto in aree extraurbane e che hanno contribuito a ricostruire l’offerta di servizi di pubblica utilità facendo leva sul recupero di attività e tradizioni locali capaci di intercettare economie esterne, spesso attraverso l’offerta turistica fortemente connotata in senso culturale. L’accompagnamento di alcuni corpi intermedi ha consentito di scalare un’innovazione estremamente localizzata, intercettando risorse e avviando un percorso di riconoscimento grazie a brand e normative (queste ultime per ora a livello regionale) [Mise, 2016].
 
La seconda cerchia raccoglie l’esperienza della cooperazione sociale che rappresenta la formula cooperativa fin qui più affermata per rispondere a un esplicito obiettivo di “interesse generale della comunità”. L’evoluzione della cooperazione sociale si inscrive certamente nell’ottica dello sviluppo comunitario, anche se limitata a determinati ambiti di attività e soprattutto in parte fagocitata all’interno di regole di fornitura di beni e servizi per conto della Pubblica Amministrazione che hanno a volte penalizzato proprio la dimensione di legame con il territorio attraverso la quale leggere i bisogni e intercettare risorse [Venturi, Zandonai, 2014]. Certamente il riposizionamento delle cooperative sociali nelle dinamiche dello sviluppo locale può rappresentare un importante arricchimento del contributo cooperativo. Ad esempio attraverso le cooperative sociali di inserimento lavorativo, che evolvono sempre più in forma di “multiutilities” ambientali radicate territorialmente e in grado di rispondere a esigenze di inclusione sociale. Piuttosto che attraverso cooperative di servizi sociali, educativi e sanitari che incorporano sempre più la domanda di questi servizi, attraverso il volontariato e, in forma più esplicita, il coinvolgimento degli utenti nei processi produttivi e nei sistemi di governance. Anche in questo ambito la cultura come produzione e come tutela del patrimonio rappresenta un importante vettore di recupero degli elementi che hanno fondato il progetto originario della cooperazione sociale. Un numero sempre più significativo di queste imprese è infatti alla ricerca di nuove modalità per interpretare la loro missione. Il “welfare culturale” rappresenta così una prospettiva di sviluppo che arricchisce sia l’efficacia dei servizi alla persona (terapeutici, educativi, ecc.), sia le modalità attraverso cui le cooperative sociali si risintonizzano sui processi di generatività locale [Sacco, 2017]. Un insieme di dispositivi dai quali passa, a vario titolo, una nuova e sostanziale legittimazione di queste imprese e al tempo stesso mette in luce la crescente disponibilità di risorse da riutilizzare per scopi di natura sociale, come nel caso degli immobili rigenerati sia strutturalmente che nella funzione d’suso collettivo [Battistoni, Zandonai, 2017].
 
La terza cerchia, quella più esterna, è rappresentata da tutte quelle imprese che evidenziano margini significativi per riqualificare i propri modelli di servizio e di business, recuperando competitività grazie a un rapporto più strutturato con le loro comunità di riferimento. Questa macro tendenza è visibile in alcuni comparti del movimento cooperativo come quello del credito e del consumo [Borzaga, 2015] e in segmenti sempre più consistenti di PMI for profit che aumentano la loro competitività nella misura in cui sono più coesive rispetto al territorio [Sturabotti, Venturi, 2016]. Ambiti e mercati diversi, ma accomunati dall’esigenza di riconoscere e di valorizzare asset locali, anche in termini di apporto di risorse e meccanismi di creazione di fiducia, agendo soprattutto sul versante del coinvolgimento di interlocutori da considerare non solo come portatori di bisogni, ma anche e soprattutto di risorse.
 
Elementi definitori e processi generativi
 
A partire da queste esperienze sono stati individuati alcuni criteri comuni per riconoscere un’impresa comunitaria, in particolare a matrice cooperativa [AaVv, 2016].
  • Produce beni o servizi in modo stabile e continuativo, inclusi beni di proprietà “comune” o pubblici, allocati in modo da garantire la propria sostenibilità.
  • E’ posseduta e gestita, del tutto o in larga prevalenza, da persone (i soci) sulla base di principi inclusivi e democratici.
  • E’ radicata in una comunità, in quanto il suo obiettivo ultimo è il miglioramento non di singoli aspetti della vita personale e sociale ma del ben-essere inteso nell’accezione di sviluppo umano integrale [Rago, Venturi, 2013]. In questo senso la comunità è intesa come una collettività che corrisponde non esclusivamente all’insieme dei residenti di un determinato territorio, ma piuttosto alla capacità di dotarsi di un livello significativo di mutuo riconoscimento come gruppo di persone che condividono - secondo varie modalità e in diversi contesti – competenze e culture coagulate intorno a interessi, risorse e progetti.
  • E’ aperta e orientata allo sviluppo, garantendo a tutti i membri della comunità l’accesso non discriminatorio ai beni e servizi e avvicinandosi in tal senso ai modelli di governo dei beni comuni [Sacconi, Ottone, 2015].

 
I processi generativi di nuove imprese comunitarie e, più in generale, di emersione e consolidamento di nuove economie ibride a matrice cooperativa rappresentano un percorso di sviluppo, conoscitivo e di policy che si colloca in posizione mediana tra l’astrattezza delle strutture normative e il relativismo della narrazione. Questi processi, dagli andamenti non sempre lineari, sono legati a trasformazioni profonde che scaturiscono da un allentamento della rigida suddivisione tra sfere istituzionali (stato, mercato e società civile) e tra i ruoli dei soggetti coinvolti nell’erogazione di beni e di servizi (produttore / consumatore).

  • Un primo fattore generativo riguarda la valorizzazione di risorse ambientali e storico culturali spesso svilite o non riconosciute come tali. Le economie generate da questi asset materiali e immateriali hanno un valore in sé – nel senso che si ispirano a paradigmi di sostenibilità ambientale e sociale – e inoltre hanno un valore strumentale, perché producono e redistribuiscono risorse a favore di altre iniziative di carattere sociale che, per ragioni diverse, non sono in grado di garantire la loro sostenibilità economica attraverso scambi di mercato [Colucci, Cottino, 2015].
  • Un secondo fattore riguarda la promozione di partnership tra soggetti diversi – principalmente lungo l’asse pubblico-privato / sociale - che insistono non solo sul versante della pianificazione delle politiche, ma sulla reciproca corresponsabilizzazione in sede di attrazione di risorse e cogestione di iniziative. Le imprese di comunità, da questo punto di vista, si collocano pienamente in contesti di “amministrazione multipolare” in contrapposizione a modelli bipolari dove invece l’amministrazione pubblica si rivolge a soggetti esterni esclusivamente nella veste di fornitori di beni e di servizi [Bombardelli, 2016].
  • Terzo e ultimo fattore generativo riguarda la già ricordata diffusione di modelli di produzione dove i beneficiari svolgono anche un ruolo attivo in sede di progettazione e gestione delle attività [Orlandini, Rago, Venturi, 2014]. Queste forme di prosuming pongono sfide non indifferenti rispetto al riconoscimento e alla regolazione di modalità di azione dove i ruoli tradizionalmente separati di produttore e consumatore sono fortemente intrecciati. In questo ambito giocano un ruolo tutt’altro che secondario tecnologie che abilitano la coproduzione come quelle di produzione di energie rinnovabili e i social network che interfacciano le comunità vis a vis come nel caso delle social street [Pais, in Arena, Iaione, 2015].

 
Un framework per l’emersione delle imprese comunitarie
 
Sulla base degli elementi definitori proposti e dell’analisi dei processi di startup può essere elaborato uno schema multidimensionale utile per riconoscere la presenza di imprese di comunità, anche in forma embrionale e al di fuori dei contesti fin qui più esplorati. Una modalità utile per verificare quanto il campo della produzione culturale, in particolare il segmento più orientato all’innovazione, può trovare in questo modello non solo una forma organizzativa, ma anche un driver che acceleri e consolidi processi di imprenditoria finora latenti o residuali.
 
Le dimensioni del framework vengono presentate di seguito. Per ciascuna verranno descritte le condizioni minime di praticabilità, le possibili evoluzioni che ne evidenziano il carattere comunitario (elementi promettenti che si trasformano in orientamenti intenzionali) e, infine, gli sviluppi che definiscono il benchmark di riferimento.
 
La prima dimensione corrisponde alla governance dell’impresa e che richiede, come precondizione, di essere formalizzata ma anche arricchita di pratiche partecipative di natura conversazionale che sostanziano la “ritualità” dei processi decisionali e di allocazione del potere. In questo senso il modello a cui tendere corrisponde alla capacità di articolare gli apporti di diversi attori intorno alla dimensione della domanda che nelle imprese di comunità corrisponde più che ai bisogni alle aspirazioni di chi si coalizza, via via sempre più stabilmente per ricercare “l’interesse generale”.
 

Livelli di osservazione Governance
benchmark Multi-stakeholder centrata sulla domanda (utenza)
orientamento intenzionale Forma nonprofit e/o cooperativa
elementi promettenti Routines informali di codecisione
condizioni base - neutrali Presenza di un modello formale
 

 
La seconda dimensione è quella del coinvolgimento che si declina a due livelli (fortemente intrecciati). Il primo corrisponde ai già citati “assetholder”, ovvero interlocutori definiti sulla base della capacità di generare e apportare risorse. Il livello minimo, in questo caso, è legato al riconoscimento degli interlocutori primari che assumono cioè una posizione di centralità nel determinare le linee guida strategiche e gestionali. A seguire si possono riconoscere modalità di individuazione e soprattutto di coinvolgimento di soggetti esterni in modo sempre più stabile.
 

Livelli di osservazione Coinvolgimento degli assetholder
benchmark Azioni mirate e continuative di coinvolgimento
orientamento intenzionale Presenza di un sistema di mappatura e rendicontazione
elementi promettenti Rapporti strutturati con interlocutori esterni
condizioni base - neutrali Stakeholder interni riconoscibili
 

 
Il secondo livello riguarda invece il coinvolgimento di più vaste comunità legate, a diverso titolo, all’organizzazione. La modalità base di coinvolgimento potrà corrispondere alla dotazione di sistemi di feed-back sulla qualità prodotti / servizi / attività, ma procedendo in maniera più esplicita verso modelli di imprenditoria comunitaria si dovrebbe notare l’adozione di pratiche di co-progettazione, produzione e finanziamento.
 

Livelli di osservazione Coinvolgimento della comunità
benchmark Adozione modelli di co- progettazione, produzione, finanziamento
orientamento intenzionale Iniziative di redistribuzione a favore del territorio
elementi promettenti Riconoscimento delle proprie comunità di riferimento
condizioni base - neutrali Sistema di feed-back su qualità prodotti / servizi / attività
 

 
La terza dimensione da indagare per l’individuazione di imprese di comunità emergenti riguarda l’ambiente di riferimento declinato secondo una duplice scala: luogo di relazione e dotazione infrastrutturale. Guardando alla dimensione di luogo intesa come “spazio dotato di significati” [Warren, Jones, 2015] la condizione minima corrisponde alla capacità di “tracciare il perimetro” entro il quale l’organizzazione è in grado di operare come “sense-maker” attraverso azioni che arricchiscono non solo se stessa ma una più vasta collettività. L’evoluzione, su questo fronte, corrisponde alla capacità di contribuire a produzioni di beni e servizi place-based, cioè strettamente legate al contesto e di partecipare, anche formalmente, alla governance dello stesso ambito in cui agisce.
 

Livelli di osservazione Dimensione di contesto
benchmark Partecipazione a organismi di governo territoriale
orientamento intenzionale Adesione a filiere e marchi locali
elementi promettenti Dimensione territoriale esplicitata nella mission
condizioni base - neutrali Identificazione del proprio contesto di riferimento
 

 
Per quanto riguarda invece la dotazione di infrastrutture il livello minimo corrisponde alla disponibilità di sedi, spazi virtuali e repository che segnalano la presenza dell’organizzazione, ma, a tendere, la dimensione comunitarie diventa evidente grazie alla costruzione e gestione di infrastrutture analogiche – come i community hub – e piattaforme digitali che intermediano processi di coproduzione di beni di interesse collettivo [Montanari, Mizzau, 2016].
 

Livelli di osservazione Dotazione infrastrutturale
benchmark Struttura rigenerata per attività economiche cogestite
orientamento intenzionale Disponibilità di uno spazio aperto al pubblico
elementi promettenti Promozione di iniziative di aggregazione sociale
condizioni base - neutrali Presenza di una sede e/o di unità locali accessibili
 

 
 
Infine si possono mettere a fuoco, a vari livelli, le attività e le economie di imprese comunitarie. Nel caso delle prime si tratta, come requisito di base, di un’operatività all’interno di generiche economie locali che evolvono nella gestione di una pluralità di beni e servizi locali di interesse collettivo.
 

Livelli di osservazione Attività
benchmark Multi settore su servizi di interesse collettivo
orientamento intenzionale Specializzazione su servizi di interesse collettivo
elementi promettenti Gestione di risorse localizzate
condizioni base - neutrali Operatività in settori legati a economie locali
 

 
Guardando invece alle economie si può evidenziare, in primo luogo, la presenza di investimenti in ricerca e sviluppo che insistono su progetti di innovazione sociale, mentre, in fasi più avanzate, la presenza di economie basate non solo su attività specialistiche (core-business), ma piuttosto sulla capacità di abilitare una pluralità di iniziative economiche che prendono forma come esternalità della propria azione, potendo però essere promosse e gestite anche da soggetti esterni all’impresa di comunità.
 

Livelli di osservazione Economie
benchmark Investimento su esternalità e spillover
orientamento intenzionale Presenza di progetti di diversificazione settoriale
elementi promettenti Orientamento all’innovazione sociale
condizioni base - neutrali Investimenti in R&D
 

 
Queste dimensioni, nel loro insieme, contribuiscono a cogliere gli elementi di peculiarità delle imprese comunitarie distinguendole anche da modelli prossimi ad esse e dalla quali scaturiscono. A differenza delle organizzazioni nonprofit, ad esempio, le imprese di comunità pongono in modo esplicito e costitutivo il dato dell’economia e della produzione, a partire da combinazioni inedite di asset di varia natura. Ma sono anche diverse da altre espressioni di impresa “a vocazione sociale” come imprese sociali, società benefit, startup innovative sociali, ecc. In questo caso infatti le imprese di comunità esasperano, fino a renderli propri, tratti organizzativi e gestionali che nelle altre espressioni di impresa sociale si intravedono solo parzialmente. Il primo corrisponde alla capacità di organizzare processi produttivi sfumando ruoli tradizionalmente separati di produttore / consumatore / finanziatore. Il secondo tratto riguarda le economie ricche di spillover e che non si risolvono solo all’interno dei confini organizzativi ma lungo reti abilitate ad ampio raggio. Infine la dimensione di governance che non riguarda solo la “gestione d’impresa” in senso stretto ma un più ampio contesto socioeconomico. Un identikit che, almeno ad un primo sguardo, non appare estraneo alle espressioni più innovative della produzione culturale.
 
Impresa di comunità e rigenerazione dello “spazio pubblico”
 
La crescente domanda di socialità ricombinata alla necessità di rigenerare, anche in senso materiale, lo spazio pubblico rappresenta, con tutta probabilità, la principale industry dell’imprenditoria comunitaria. Questo modello d’impresa, infatti, si sta affermando come forma diffusa soprattutto nelle aree interne dove a fronte del crescente spopolamento dei territori e della bassa accessibilità ai servizi tipica delle aree rurali e periferiche si è assistito ad una crescente tensione politica e sociale volta alla difesa e alla “rigenerazione” di questi luoghi.
Osservando l’evoluzione della rigenerazione prodotta da imprese di comunità, che spesso usano la cultura come ingrediente centrale per produrre la riattivazione della comunità, si possono osservare alcuni tratti centrali per la replicabilità del modello [Battistoni, Venturi, 2016].
 
Intenzionalità imprenditoriale e presenza di asset comunitari
I percorsi comunitari e di cooperazione, nascono dalla comunità stessa, dai cittadini e dagli abitanti del territorio di riferimento. Ciò non significa, però, che la nascita di organizzazioni di comunità sia un atto assembleare o totalizzante. Il percorso di costituzione è infatti promosso da una minoranza profetica, visionaria e determinata che si assume il rischio e la responsabilità imprenditoriale del progetto: non può esistere un’impresa di comunità, se non è la comunità ad investire in se stessa. Ciò che succede è che in tanti (la comunità) condividono l’idea imprenditoriale di pochi (minoranza profetica). Per questo motivo è importante focalizzarsi sulla dimensione individuale per poter attivare le competenze ed abilità che ogni socio fondatore ha e canalizzarle nelle attività proposte dalla cooperativa stessa. L’equilibrio fra la dimensione lavorativa e di ricerca di reddito dei soci e la dimensione comunitaria alla quale l’impresa è volta, è fondamentale: nelle imprese di comunità il tratto economico incorpora la dimensione comunitaria. In questo percorso di emersione per esempio la coltivazione e trasformazione di prodotti agricoli, l’ospitalità turistica, le attività culturali, servizi di manutenzione territoriale, diventano veri e propri asset comunitari su cui investire.
 
Sussidiarietà e innovazione aperta
L’attività imprenditoriale si genera attraverso la relazione con le altre entità del territorio (pubbliche, private o cooperative) con le quali vi è condivisione valoriale e di visione del progetto. La cooperativa o l’impresa sociale in ambito comunitario si inserisce in un contesto sociale e relazionale, affermando la propria interdipendenza con i soggetti del mercato, i cittadini del territorio, i soci lavoratori e le policy territoriali. L’impresa di comunità si pone quindi come infrastruttura territoriale attraverso la quale esperienze diverse – come il coinvolgimento di nuovi stakeholder, reti di collaborazione civica e sociale, esperienze di economia solidale – si riconoscono in un soggetto pronto ad essere il motore e il ricettore di forme di rinnovata socialità. In questa logica, il rapporto tra cooperativa di comunità e Pubblica Amministrazione si avvicina alla logica del partenariato e richiede un patto, in cui i soggetti coinvolti collaborano sullo stesso piano, contrapponendosi a quella del contracting out caratterizzata dall’ esternalizzazione dei servizi. Le policy territoriali diventano quindi politiche rigenerative, attività abilitanti e di supporto della cooperativa e del territorio.
 
Co-investimento e circolarità dei meccanismi di produzione del valore
Nelle cooperative di comunità la minoranza profetica investe e diventa connettore dell’investimento comunitario. La comunità si attiva attraverso meccanismi cooperativi che sono alla base della creazione di valore sociale. Non esiste una impresa di comunità se non è la comunità stessa che investe in se stessa, se non sono i cittadini che si fanno carico direttamente di rispondere ad una domanda o sviluppare un’opportunità per tutti.
 
 
 
 
Bibliografia
 
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[1] Questo contributo è stato pubblicato su AaVv (2017), Impresa Cultura. Gestione, innovazione, sostenibilità, Roma, XIII Rapporto annuale Federculture. Gli autori desiderano ringraziare Claudio Bocci per l’opportunità accordata.