L’arte non è decorazione
Commentiamo l’ultimo numero di VITA, il magazine del Terzo Settore, che dedica la sua copertina a una domanda: «Arte puoi cambiare il mondo?». Se lo chiede presentando uno speciale con 50 casi scelti nel pianeta che parlano di rinascita sociale e urbana attraverso le arti. Un’attenzione verso un fenomeno crescente che vede un numero sempre maggiore di «opere d’arte» – dalla street art alle pratiche artistiche partecipate – abitare lo spazio pubblico per attivare o generare un cambiamento, dando vita a nuovi paesaggi. Si incontrano tante buone pratiche ma anche qualche retorica legata all’arte pubblica. Pratiche che esprimono un potenziale di trasformazione ma che evidenziano la necessità di costruire un nuovo vocabolario, uscendo dalle facili categorie. Potenzialità che si concretizzano solo se l’azione va oltre l’evento, se si traduce nella costruzione di significati, se da uno va a molti, dalle pratiche va alle politiche
Se il modo di concepire l’arte[1] e l’artista - rispetto al ruolo che la storia negli ultimi cinque secoli aveva loro attribuito nella cultura occidentale[2] - è radicalmente cambiato, assistiamo oggi, dopo il ripiegamento edonistico degli anni ’80, che ha visto l’arte fagocitata dal mercato, ad un ritorno verso una maggiore aderenza alla realtà, che vede un numero sempre maggiore di artisti «prendersi in carico» le questioni inerenti alla società.
Si fa riferimento a quella tipologia di ricerca artistica che nasce direttamente nella sfera pubblica, che diventa strumento di indagine e conoscenza – metafora epistemologica, sottolineando di fatto come non ci siano confini tra corpo, mente e ambiente – e dispositivo di cambiamento.
Una specifica accezione dell’arte contemporanea che predilige il processo al prodotto, che si cala completamente nella realtà, che rifugge da un atteggiamento solipsistico e autoriferito e che agisce nel cuore dello spazio pubblico con la volontà di sperimentare e proporre modelli alternativi a quelli esistenti, rispondendo alle istanze, rivelate o latenti, dei territori.
Pratiche artistiche come dispositivi trasformativi alla cui base vi è una cultura della partecipazione e dell’interdisciplinarità per la quale Tomas Maldonado ha usato il termine «terza cultura», e cioè il tentativo di superare la dicotomia tra le scienze «hard» e «soft»[3].
Un’idea ambiziosa ma «un’esigenza profonda del mondo in cui viviamo. Un mondo in cui avvengono fenomeni socialmente (e addirittura politicamente) degenerativi, legati , tra molti altri fattori, a quel ‘proliferare delle ortodossie dei campi separati’ di cui parla Edward W. Said»[4].
Arte puoi cambiare il mondo?
E’ la domanda da cui parte l’analisi sul ruolo e sulle funzioni delle pratiche artistiche contemporanee nell’ultimo numero di VITA, la rivista dedicata al settore no profit.
Una mappatura – naturalmente parziale ma paradigmatica – di esperienze diffuse in più parti del mondo che raccontano inedite ibridazioni e contaminazioni. 50 casi declinano in maniera differente l’arte nella sfera pubblica: da «Favela Painting» a Rio de Janeiro, che utilizza l’arte come strumento di empowerment, al rinnovato interesse per la street art nelle periferie romane – Tor Marancia, Tor Pignattare, San Basilio – diventando vettore di inclusione nei territori marginali e che trova un precedente nel MAU di Torino; dalla riscoperta della montagna ad opera di Dolomiti Contemporanee – che si traduce non in una nostalgia vernacolare ma in una pluralizzazione del valore identitario del territorio, visto attraverso uno sguardo contemporaneo – all’umanizzazione dei luoghi di cura nell’Ospedale Sant’Anna di Torino, così come nel London Royal Children’s Hospital; dall’elogio dell’errore nei laboratori con le diverse abilità di Luca Santiago Mora, alla condivisione pubblica dello spazio privato nell’esperienza padovana de «La settima onda»; dall’arte come rigenerazione urbana – vedi il caso di Nova a S. Stefano di Magra – alla produzione di spazio sociale - come nelle opere di Garutti – alla poesia quasi intimista di Jaar, all’arte come atto di negazione e resistenza.
Il fil rouge che connette le 50 esperienze descritte – non approfondite, ma non era certamente quello l’obiettivo – sembra essere la dimensione della partecipazione delle «pratiche artistiche» contemporanee. E i casi riportati, ad uno sguardo più attento, ne mettono in luce evoluzioni e nodi irrisolti: viene evocata la differenza ad esempio che intercorre tra arte interattiva, partecipata e partecipativa generando di conseguenza spettatori o partecipanti o decisori (concorrendo alla conseguente morte dell’autore decretata da Barthes)[5]; emergono nuove forme di committenza dal basso, nuove forme di relazionalità e democratizzazione – reale, presunta, auspicata o evocata – attivate attraverso l’arte; nuove modalità di conoscenza e produzione dello spazio pubblico.
Operazioni che, muovendosi dal basso vanno talvolta a istituzionalizzarsi in organismi giuridici, associazioni o fondazioni, per dare forza strategica e continuità al messaggio di impegno civile.
L’arte nella sfera pubblica, d’altronde, fondando le sue premesse storiche nelle avanguardie artistiche del ‘900, raccoglie molteplici declinazioni che vanno da un’accezione di «abbellimento», dove l’opera d’arte, sottratta alle stanze dei musei, va ad occupare lo spazio pubblico senza entrare realmente in dialogo con l’ambiente benché fruita, ad un’arte – rispecchiata dagli esempi riportati – centrata sul concetto di site specific, in stretto rapporto con la specificità del luogo, fino all’accezione di «pratica artistica», progetto interprete non solo del luogo nella sua realtà materiale, ma progettualità capace di dialogare con la città, le comunità – costituite e costituenti – e i contesti, di intercettare processi di trasformazione sociale, assumendo un ruolo attivo nelle dinamiche sociali del luogo in cui «accade» e restituendo – nel migliore dei casi – un nuovo paesaggio, espressione di una volontà di cambiamento.
Il dossier di VITA in conclusione, con un approccio positivista, afferma con enfasi che si, l’arte può cambiare, migliorandolo, il mondo. Ma – citando l’artista Alfredo Jaar – lo fa una persona alla volta.
Da uno a molti
Il punto nevralgico della riflessione sembra essere proprio l’utilizzo del verbo potere e quel punto di interrogazione della domanda iniziale che implicitamente ne richiama altre: può l’arte attivare processi di coesione, integrazione e innovazione sociale facendosi promotrice di un processo di democratizzazione e di nuove forme di socialità? Può l’arte – oltre la retorica decorativa, così come del beneficio sociale – essere agente generativo per la conoscenza, riappropriazione, re-invenzione, trasformazione dello spazio urbano e sociale?
I casi citati richiamano quel processo di enfatizzazione dei concetti di partecipazione, collaborazione e condivisione che prese avvio sistematicamente a partire dagli anni Sessanta e che procede di pari passo con le evoluzioni dell’arte nella sfera pubblica.
Ma, dalle riflessioni di Enrico Crispolti[6] – che auspica ad una nuova figura, quella dell’operatore estetico – e dalle risposte offerte dalle arti visive alle istanze di partecipazione sociale diffuse nel nome di quel «diritto alla città» echeggiato da Henri LeFebvre[7]negli anni ’60, fino alle più recenti espressioni di socially engaged art, il carattere e l’ambizione dell’arte pubblica – tra partecipazione e non – continua ad oscillare sempre, in un dibattito acceso, tra funzione estetica e politico-sociale, tra libertà e responsabilità.
E se Markus Miessen evidenzia «l’incubo» che si cela dietro la partecipazione[8], Jacques Rancière ci ricorda che l’estetica è la capacità di pensare le contraddizioni[9].
Risuonano allora dense di significato le parole di Alfredo Jaar che evidenziano come l’arte sia – prima di tutto – un’esperienza prettamente individuale.
L'apparente ritorno ad una singolarità – in un momento storico in cui tutto è elevato al CO- – diventa allora l'espressione di una autonomia critica che è il presupposto per la ri-definizione delle forme elementari di relazionalità, per la costruzione di quel legame sociale, di un capitale civico che non corrisponde alla costruzione di una comunità – che rimanda ad un ormai obsoleto pensiero coloniale – quanto piuttosto ad un senso di comunità, che è principalmente un sentire comune. Non un ripiegamento solipsistico ma la costruzione di un pensiero critico che fa della libertà individuale un impegno sociale.
Ecco allora che l’arte non è tanto la rappresentazione quanto l’espressione della volontà e della capacità di saper immaginare il cambiamento, «aspirando, non tanto ad un mondo riconciliato (e condiviso, ndA) ma a un mondo più consapevole delle reali dinamiche di trasformazione, e interessato ad affrontare il conflitto, piuttosto che a negarlo»[10].
In tal senso, non solo l’arte coltiva sensibilità critica e il rapporto con la società ma, generando micro-spostamenti di senso, assume un ruolo politico, agisce come dispositivo immaginifico per quei «matrimoni illegali» che costituiscono non tanto il cambiamento tout court quanto la possibilità di saperlo immaginare.
Ma tra cambiamento e miglioramento non sempre vi è soluzione di continuità e queste restano riflessioni che sfiorano la questione, restando un dato parziale di un problema reale e, dunque, in perenne evoluzione[11].
© Riproduzione riservata
Bibliografia:
R. BARTHES, La mort de l’auteur, Mantéia, V, Paris 1968
W. BENJAMIN, L 'Opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, 2011
E. CRISPOLTI, Arti visive e partecipazione sociale. Da «Volterra 73’ alla Biennale 1976, De Donato ed., 1977
H. LE FEBVRE, Le Droit à la ville, Anthropos, 1968
T. MALDONADO, Arte e Artefatti. Intervista di Hans Ulrich Obrist, G. Feltrinelli, Milano 2010
J. RANCIÈRE, Malaise dans l’esthétique, editions Galilée, 2004
E. SCANDURRA, «La mutazione darwiniana del PD renziano», Il Manifesto, 13 ottobre 2014
G. SCARDI (a cura di), Paesaggio con figura - Arte, sfera pubblica e trasformazione sociale, Allemandi & C. con Susacultureproject, 2011
[1] E’ Walter Benjamin, nel saggio «L 'Opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936)» a descrivere paradigmaticamente la svolta dell'arte a partire dal primo quarto del secolo scorso, attraverso il concetto di perdita dell’aura e cercando di spiegare questa perdita a partire dai mutamenti intervenuti nel campo della riproduzione tecnica.
[2] Tomàs Maldonado, Arte e Artefatti. Intervista di Hans Ulrich Obrist, G. Feltrinelli, Milano 2010
[3] Arte e Artefatti, op. cit., p. 9
[4] Ibidem
[5] Si fa qui riferimento alla nota riflessione di Roland Barthes (La mort de l’auteur, Mantéia, V, Paris 1968), cui ovviamente si rimanda, che, enfatizzando il ruolo del fruitore, decreta la morte dell’autore, riprendendo l’idea che il significato di un lavoro non è dipendente dall’intenzionalità dell’autore ma dal punto di ricezione. Una decadenza, quella dell’autore, cui incide sensibilmente l’avanguardia surrealista che contribuisce alla sua desacralizzazione.
[6] Enrico Crispolti, Arti visive e partecipazione sociale. Da «Volterra 73’ alla Biennale 1976, De Donato ed., 1977
[7] H. Le Febvre, Le Droit à la ville, Anthropos, 1968
[8] M. Miessen, L’incubo della partecipazione, Archive Books, 2014
[9] J. Rancière, Il disagio dell’estetica, edizioni ETS, 2009
[10] G. Scardi, Introduzione. Itinerari sensibili: l’arte incontra la società in G. Scardi (a cura di), Paesaggio con figura. Arte, sfera pubblica e trasformazione sociale, Allemandi con SusaCulture, 2011
[11] Il termine evoluzione è utilizzato nell’accezione data da Herbert Spencer che rimandava letteralmente all’ «aprirsi a qualcosa». Il riferimento è tratto da Enzo Scandurra, «La mutazione darwiniana del PD renziano», Il Manifesto, 13 ottobre 2014