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Il 60% degli italiani nel 2010 non ha visitato neanche un sito culturale

  • Pubblicato il: 11/01/2013 - 10:49
Rubrica: 
STUDI E RICERCHE
Articolo a cura di: 
Francesca Romana Morelli
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Roma. «L’Italia con i suoi beni culturali sembra la bella addormentata nel bosco»: con questa metafora Sam Baron, francese e direttore della sezione Design di Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton, ha definito la situazione del nostro Paese, che, pur attanagliato dalla crisi, non fa fruttare i suoi «giacimenti culturali». Questa affermazione è nata nel corso del dibattito seguito alla presentazione dell’ultimo rapporto di CivitaL’arte di produrre Arte. Imprese culturali a lavoro, curato da Pietro Antonio Valentino (270 pp., Ricerche Marsilio-Civita, Venezia 2012), economista della cultura e docente presso La Sapienza di Roma, che ha collaborato con la Fondazione Roma Arte-Musei e la Provincia di Roma. Alla presentazione, oltre al curatore, ne hanno discusso, tra gli altri, Albino Ruberti, segretario generale dell’Associazione Civita, Antonia Pasqua Recchia, segretario generale Mibac, Luca De Biase, giornalista di «Il Sole 24 Ore», e Baron stesso.
Il rapporto sull’Industria Culturale e Creativa (Icc) italiana ha riguardato unicamente il settore privato, ma indagato anche nell’interazione con settori statali e suddiviso in quattro comparti cercando di evidenziarne potenzialità e carenze: beni culturali; arti visive; editoria, televisione e cinema; design, web, pubblicità e pubbliche relazioni. Le cifre fornite, seppure riferite all’anno2010, parlano chiaro: le imprese private attive nell’Icc, nemmeno 180mila, costituiscono il 4,5% delle imprese nostrane (una quantità inferiore perfino alla Germania) e sono caratterizzate da una dimensione artigianale (due addetti in media). Il 67,3% delle imprese è nel settore creativo (ampia la presenza di studi d’architettura), mentre quelle impegnate nella realizzazione dei servizi per i Beni culturali sfiorano appena lo 0,5%. Le prime si localizzano soprattutto nel Nord, la altre nel Centro e in generale in aree metropolitane, come Milano e Roma. L’Icc ha creato 355.825 posti di lavoro pari al 2,2% del totale nazionale, contro il 2,9% in Germania, il 3,0% in Spagna e il 3,2 % in Francia e in Gran Bretagna. Il più alto numero di occupati si è avuto nei settori del design, web, pubblicità e pubbliche relazioni (49,9% dell’Icc).
Ancora più grave è la questione riguardante la «domanda» di cultura: il 58,9% degli italiani con più di 18 anni non ha visitato un luogo culturale né una mostra, per un totale di oltre 28 milioni di persone, adducendo come motivazioni una scarsa o non chiara comunicazione sul web, cattiva qualità ed elevato costo dei servizi. La categoria dei «non fruitori» costituisce, pertanto, un segmento importante: un potenziale di domanda non utilizzato che potrebbe sostenere in modo non marginale lo sviluppo del settore. Poi è intervenuto Ruberti, che ha rilevato una realtà ferma alla legge Ronchey (1993), accusando il Mibac di non capire la strategia di flessibilità dei prezzi (estate, inverno, festività ecc.), di non favorire le energie investite dal privato, fino alla mancanza di un’azione di reciprocità con l’estero (il mercato dell’Icc è rivolto di solito all’interno del Paese). Recchia a sua volta ha spiegato le ragioni di certe posizioni rigide, dovute a ragioni risalenti allo Stato unitario «accentratore», ma, tra le altre cose, ha ricordato che il privato spesso rifiuta di occuparsi dei beni culturali poco visibili o mancanti di «appeal».

da Il Giornale dell'Arte numero 327, gennaio 2013