Cultura: chiuso per inventario
Autore/i:
Rubrica:
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di:
Paolo Castelnovi, architetto paesaggista
Questi mesi di vacanza, nel senso più largo del termine, sono l’occasione per ragionare di Cultura nel complesso, per fare il punto un po’ in profondità, come i bravi allenatori che, dopo un disastro agonistico, riprendono l’intera impostazione di gioco a partire dai fondamentali. “Quelli che emergono oggi, anche se sono antistorici, sono riferimenti valoriali che dureranno a lungo, che resisteranno a prove contrarie sino alla catastrofe, che genereranno crisi isteriche difficili da curare, come per ogni malattia mentale o ideologica”. Paolo Castelnovi invita a fare un inventario delle pratiche culturali e degli operatori. Esperimenti e attività reali per reagire alla pseudocultura degli slogan e dei fantasmi non verificabili. “propongo a ciascuno di quelli che si apprestano ad andare controvento, di fare un elenco, una mappa, un layout di chi conosce seriamente impegnato a FARE cultura. Non di chi ne parla, di chi coordina, di chi gestisce (…) delle pratiche culturali indenni dalla corruzione delle parole d’ordine populiste, inconfrontabili con l’ottusità degli slogan di massa perché verificano ogni giorno e in ogni luogo la realtà delle situazioni, mobilitano davvero le persone e ottengono risultati effettivi, anche se spesso ridotti nelle dimensioni e nel tempo.”
La nonna diceva: se non sai cosa fare metti in ordine!
Ora è veramente difficile sapere cosa fare. Diciamocelo: siamo spiazzati. Dopo anni di impegno a mostrare che la cultura non è una sovrastruttura, che è parte dei temi economici, che quelli sono la vera struttura del mondo, il mondo smette di andar dietro ai temi economici, e d’improvviso è conquistato da chi impone davanti a tutto temi culturali.
Non stiamo a sottilizzare che non si può chiamare cultura quella dello sparare a vista agli estranei, dello stare chiusi in casa propria, della gogna a chi la pensa diversamente. Non è certo economia, i cui conti non tornano neppure nei provvedimenti economici dei vari governi, non è funzionalità della cosa pubblica, non è strategia diplomatica. E’ invece creazione di valori ideali, perseguimento di concetti astratti, dichiarazione di diritti. Ciò che fa la cultura.
Attenzione: non conta che i valori che ora vengono pubblicizzati sono il contrario di quelli dell’Illuminismo, che i concetti perseguiti sono fantasmi per paure pompate senza riscontri reali, che quei diritti gridati come slogan calpestano i Diritti dell’Uomo che credevamo definitivamente consolidati nella modernità. Questi che emergono oggi, anche se sono antistorici, sono riferimenti valoriali che dureranno a lungo, che resisteranno a prove contrarie sino alla catastrofe, che genereranno crisi isteriche difficili da curare, come per ogni malattia mentale o ideologica. Forse non ci saranno maggioranze a crederci, ma in tanti non molleranno, neppure di fronte all’evidenza, perché abbiamo accreditato che qualsiasi idea vale, che non c’è né criterio morale né razionalità del riscontro con il reale che tenga. Quando si accredita che il fine giustifica i mezzi, c’è sempre qualcuno che dice: perché per il Principe sì e per me no? Quando anche una sola volta chi governa accetta di sostenere a oltranza una menzogna a fronte della realtà, tutta la primazia della verità scompare e non ci sono più parole che tengano.
Con queste emergenze che sembrano politiche ed etiche, ma sono in primis culturali abbiamo a che fare, ed è sciocco continuare a comportarsi come un professore di liceo alle prese con una classe di immigrati, che pensa: e Foscolo? (e si dimentica che il trentenne Foscolo scappa esule dall’Italia in piena Restaurazione, dopo aver richiamato da una cattedra e riscuotersi dal torpore: “Italiani, io vi esorto alle storie…”)
All’Uomo di Cultura viene spontaneo rifiutare questa scalata ostile alla padronanza dell’azienda del Sapere che credeva di dominare senza problemi, e vigliaccamente si rifugia in una sdegnata presa di distanza. L’ha fatto con il fascismo, lo farà anche ora. Chi vuole andare controvento deve attrezzarsi per un viaggio se non solitario di pochi, in mare incognito, probabilmente tempestoso.
D’altra parte anche chi, senza proclami e visioni strategiche, è operatore culturale non sa bene cosa fare: siamo di fronte a ministri nuovi molto attenti a non scoprire le carte, a una intera generazione di direttori ministeriali pensionati o pensionandi, al blocco degli investimenti regionali.
Insomma, questi mesi sono di vacanza, nel senso più largo del termine.
E’ l’occasione per ragionare di Cultura nel complesso, per fare il punto un po’ in profondità, come i bravi allenatori che, dopo un disastro agonistico, riprendono l’intera impostazione di gioco a partire dai fondamentali. Ecco, ricominciamo dai fondamentali, riprendiamoci il galileiano riscontro delle teorie con gli aspetti reali, che è il ponte per il cambiamento, è democraticamente constatabili da chiunque, ci permette di verificare dove e come la Cultura ci offre ancora quella funzionalità e quel piacere che l’hanno resa così utile.
Dobbiamo riguardare ad una serie di assiomi che abbiamo da troppo tempo dato per scontata: verificare se è ancora vero che il liceo classico ti avvantaggia nella vita, che una serata a teatro è un piacere poco sostituibile, che una visita in un luogo d’arte ci lascia soddisfatti, che il paesaggio interessante è guardato e non mangiato e bevuto. Già che ci siamo verifichiamo quanti sono gli interessati all’arte contemporanea che non siano artisti o mercanti, quanta poesia oggi passa per i libri invece che per le canzoni, quanti si rendono conto che studiamo come modelli Cristo, Ulisse, Garibaldi: stranieri che portavano scompiglio in patrie altrui. E se la risposta è: pochi, pochissimi, allora dobbiamo capire che il problema di una Cultura disadattata è di sostanza, non di abilità comunicativa di questo o quell’imbonitore. E’ nella sostanza di ciò che vantiamo come Cultura che dobbiamo guardare, e cambiarla se ciò che viene recepito non ha più il potere nutritivo che davamo per certo.
Mai come oggi si può, si deve, mettere in ordine.
Ma il riordino non serve a nulla se dà solo strumenti per scontrarsi a parole, per diatribe su chi ha i concetti migliori o chi si proclama realistico contro chi mente o fantastica.
Il riordino deve servire non a dire ma a fare. A fare azioni culturali che superino quella cultura che non è più attrattiva, non genera piacere e non si capisce quanto renda.
Io parto dall’ipotesi che la pianta che fruttifica la nostra cultura sia ancora buona, ma che abbiamo lasciato sviluppare ramaglie e parassiti senza curarci del fatto che progressivamente la nostra frutta era sempre meno comprata.
Occorrono nuove azioni, che partano dalla pianta buona ma che siano evidenti nella loro novità: dobbiamo capire sin dove si deve potare il ramo perché rifiorisca. Ma se, come mi sembra evidente, le ramaglie e i parassiti sono per lo più parti aggiunte, sovrastrutture, che sono intervenute non dove si produce cultura, ma dove la si rimesta, la si coordina, la si mette in circolazione, allora occorre risalire a dove la pianta produce i frutti, e provare a scartare o sostituire tutte le fasi successive, di post-produzione.
Mi piacerebbe che il riordino avesse il sapore di un inventario, di quella ricognizione delle risorse operative già disponibili che si rimanda sempre, come in un guardaroba quando si è abituati ogni giorno a usare ciò che è fuori dagli armadi, anche se ormai liso e stinto.
Quindi propongo a ciascuno di quelli che si apprestano ad andare controvento, di fare un elenco, una mappa, un layout di chi conosce seriamente impegnato a FARE cultura. Non di chi ne parla, di chi coordina, di chi gestisce. Rendiamoci conto delle aziende, delle associazioni, degli insegnanti, degli operatori di progetti attivi che conosciamo. Ascoltiamone il lavorio incessante, cerchiamo di capire come amplificarlo, come farlo emergere, come farlo apparire in termini sistematici e coprenti, come farlo apprezzare da chi lo usa tutti i giorni e non porge attenzione.
Nelle scorse settimane sono andato a quattro della dozzina di incontri a cui ero invitato. Per l’educazione al paesaggio, per la soft economy, per il coordinamento dei patrimoni archivistici. In ciascuno dei convegni tre o quattro relatori e salutatori dicevano generalità in un’aula più o meno gremita. Poi, per ore, davanti a poche persone, a dieci minuti a testa, dozzine di report di esperienze, spesso interessanti, sempre piene di voglia di fare, di progetti da poche migliaia di euro, di operatori che consumano mesi per un’impresa di giorni, che curano un bene, che sviluppano un’idea a scala locale, che mobilitano una classe di ragazzi o un circolo di pensionati, che attrezzano per lavori desueti un gruppetto di migranti.
Sono pratiche culturali indenni dalla corruzione delle parole d’ordine populiste, inconfrontabili con l’ottusità degli slogan di massa perché verificano ogni giorno e in ogni luogo la realtà delle situazioni, mobilitano davvero le persone e ottengono risultati effettivi, anche se spesso ridotti nelle dimensioni e nel tempo.
Se l’inventario si attua in modo complessivo ed esteso, permetterà a ciascuno dei partecipanti attivi di capire in quale compagnia si trovino, quale copertura del paese garantiscano, quanti utenti affezionati raggiungano. Diventa un censimento qualitativo, che permette a ciascuno di rendersi conto dell’esercito a cui partecipa, quell’esercito per il quale la cura delle persone e delle cose è il patrimonio culturale per cui siamo noti nel mondo ed è quello che ci tiene aperte le porte del futuro.
E forse, a partire da questa consapevolezza, cominceremo a reagire, a rifiutarci di essere riconosciuti non come paese della cura e della bellezza ma come paese che investe nella paura e nelle fabbriche di armi e che si scandalizza se una ditta di pannolini e biberon fa una pubblicità che invita esplicitamente a fare l’amore, a fare figli, a fare il futuro.
Ma bisogna partire sapendo che a fronte di questa pseudocultura incalzante di slogan e fantasmi non conteranno le parole, ma i fatti, quelle opere delle migliaia di persone che ogni giorno provano, sperimentano, inventano cose da fare per interessare i ragazzi, consolare i vecchi, accogliere i diversi, divertire gli adulti con la curiosità, la conoscenza, la dignità della propria storia e del proprio territorio.
Ora è veramente difficile sapere cosa fare. Diciamocelo: siamo spiazzati. Dopo anni di impegno a mostrare che la cultura non è una sovrastruttura, che è parte dei temi economici, che quelli sono la vera struttura del mondo, il mondo smette di andar dietro ai temi economici, e d’improvviso è conquistato da chi impone davanti a tutto temi culturali.
Non stiamo a sottilizzare che non si può chiamare cultura quella dello sparare a vista agli estranei, dello stare chiusi in casa propria, della gogna a chi la pensa diversamente. Non è certo economia, i cui conti non tornano neppure nei provvedimenti economici dei vari governi, non è funzionalità della cosa pubblica, non è strategia diplomatica. E’ invece creazione di valori ideali, perseguimento di concetti astratti, dichiarazione di diritti. Ciò che fa la cultura.
Attenzione: non conta che i valori che ora vengono pubblicizzati sono il contrario di quelli dell’Illuminismo, che i concetti perseguiti sono fantasmi per paure pompate senza riscontri reali, che quei diritti gridati come slogan calpestano i Diritti dell’Uomo che credevamo definitivamente consolidati nella modernità. Questi che emergono oggi, anche se sono antistorici, sono riferimenti valoriali che dureranno a lungo, che resisteranno a prove contrarie sino alla catastrofe, che genereranno crisi isteriche difficili da curare, come per ogni malattia mentale o ideologica. Forse non ci saranno maggioranze a crederci, ma in tanti non molleranno, neppure di fronte all’evidenza, perché abbiamo accreditato che qualsiasi idea vale, che non c’è né criterio morale né razionalità del riscontro con il reale che tenga. Quando si accredita che il fine giustifica i mezzi, c’è sempre qualcuno che dice: perché per il Principe sì e per me no? Quando anche una sola volta chi governa accetta di sostenere a oltranza una menzogna a fronte della realtà, tutta la primazia della verità scompare e non ci sono più parole che tengano.
Con queste emergenze che sembrano politiche ed etiche, ma sono in primis culturali abbiamo a che fare, ed è sciocco continuare a comportarsi come un professore di liceo alle prese con una classe di immigrati, che pensa: e Foscolo? (e si dimentica che il trentenne Foscolo scappa esule dall’Italia in piena Restaurazione, dopo aver richiamato da una cattedra e riscuotersi dal torpore: “Italiani, io vi esorto alle storie…”)
All’Uomo di Cultura viene spontaneo rifiutare questa scalata ostile alla padronanza dell’azienda del Sapere che credeva di dominare senza problemi, e vigliaccamente si rifugia in una sdegnata presa di distanza. L’ha fatto con il fascismo, lo farà anche ora. Chi vuole andare controvento deve attrezzarsi per un viaggio se non solitario di pochi, in mare incognito, probabilmente tempestoso.
D’altra parte anche chi, senza proclami e visioni strategiche, è operatore culturale non sa bene cosa fare: siamo di fronte a ministri nuovi molto attenti a non scoprire le carte, a una intera generazione di direttori ministeriali pensionati o pensionandi, al blocco degli investimenti regionali.
Insomma, questi mesi sono di vacanza, nel senso più largo del termine.
E’ l’occasione per ragionare di Cultura nel complesso, per fare il punto un po’ in profondità, come i bravi allenatori che, dopo un disastro agonistico, riprendono l’intera impostazione di gioco a partire dai fondamentali. Ecco, ricominciamo dai fondamentali, riprendiamoci il galileiano riscontro delle teorie con gli aspetti reali, che è il ponte per il cambiamento, è democraticamente constatabili da chiunque, ci permette di verificare dove e come la Cultura ci offre ancora quella funzionalità e quel piacere che l’hanno resa così utile.
Dobbiamo riguardare ad una serie di assiomi che abbiamo da troppo tempo dato per scontata: verificare se è ancora vero che il liceo classico ti avvantaggia nella vita, che una serata a teatro è un piacere poco sostituibile, che una visita in un luogo d’arte ci lascia soddisfatti, che il paesaggio interessante è guardato e non mangiato e bevuto. Già che ci siamo verifichiamo quanti sono gli interessati all’arte contemporanea che non siano artisti o mercanti, quanta poesia oggi passa per i libri invece che per le canzoni, quanti si rendono conto che studiamo come modelli Cristo, Ulisse, Garibaldi: stranieri che portavano scompiglio in patrie altrui. E se la risposta è: pochi, pochissimi, allora dobbiamo capire che il problema di una Cultura disadattata è di sostanza, non di abilità comunicativa di questo o quell’imbonitore. E’ nella sostanza di ciò che vantiamo come Cultura che dobbiamo guardare, e cambiarla se ciò che viene recepito non ha più il potere nutritivo che davamo per certo.
Mai come oggi si può, si deve, mettere in ordine.
Ma il riordino non serve a nulla se dà solo strumenti per scontrarsi a parole, per diatribe su chi ha i concetti migliori o chi si proclama realistico contro chi mente o fantastica.
Il riordino deve servire non a dire ma a fare. A fare azioni culturali che superino quella cultura che non è più attrattiva, non genera piacere e non si capisce quanto renda.
Io parto dall’ipotesi che la pianta che fruttifica la nostra cultura sia ancora buona, ma che abbiamo lasciato sviluppare ramaglie e parassiti senza curarci del fatto che progressivamente la nostra frutta era sempre meno comprata.
Occorrono nuove azioni, che partano dalla pianta buona ma che siano evidenti nella loro novità: dobbiamo capire sin dove si deve potare il ramo perché rifiorisca. Ma se, come mi sembra evidente, le ramaglie e i parassiti sono per lo più parti aggiunte, sovrastrutture, che sono intervenute non dove si produce cultura, ma dove la si rimesta, la si coordina, la si mette in circolazione, allora occorre risalire a dove la pianta produce i frutti, e provare a scartare o sostituire tutte le fasi successive, di post-produzione.
Mi piacerebbe che il riordino avesse il sapore di un inventario, di quella ricognizione delle risorse operative già disponibili che si rimanda sempre, come in un guardaroba quando si è abituati ogni giorno a usare ciò che è fuori dagli armadi, anche se ormai liso e stinto.
Quindi propongo a ciascuno di quelli che si apprestano ad andare controvento, di fare un elenco, una mappa, un layout di chi conosce seriamente impegnato a FARE cultura. Non di chi ne parla, di chi coordina, di chi gestisce. Rendiamoci conto delle aziende, delle associazioni, degli insegnanti, degli operatori di progetti attivi che conosciamo. Ascoltiamone il lavorio incessante, cerchiamo di capire come amplificarlo, come farlo emergere, come farlo apparire in termini sistematici e coprenti, come farlo apprezzare da chi lo usa tutti i giorni e non porge attenzione.
Nelle scorse settimane sono andato a quattro della dozzina di incontri a cui ero invitato. Per l’educazione al paesaggio, per la soft economy, per il coordinamento dei patrimoni archivistici. In ciascuno dei convegni tre o quattro relatori e salutatori dicevano generalità in un’aula più o meno gremita. Poi, per ore, davanti a poche persone, a dieci minuti a testa, dozzine di report di esperienze, spesso interessanti, sempre piene di voglia di fare, di progetti da poche migliaia di euro, di operatori che consumano mesi per un’impresa di giorni, che curano un bene, che sviluppano un’idea a scala locale, che mobilitano una classe di ragazzi o un circolo di pensionati, che attrezzano per lavori desueti un gruppetto di migranti.
Sono pratiche culturali indenni dalla corruzione delle parole d’ordine populiste, inconfrontabili con l’ottusità degli slogan di massa perché verificano ogni giorno e in ogni luogo la realtà delle situazioni, mobilitano davvero le persone e ottengono risultati effettivi, anche se spesso ridotti nelle dimensioni e nel tempo.
Se l’inventario si attua in modo complessivo ed esteso, permetterà a ciascuno dei partecipanti attivi di capire in quale compagnia si trovino, quale copertura del paese garantiscano, quanti utenti affezionati raggiungano. Diventa un censimento qualitativo, che permette a ciascuno di rendersi conto dell’esercito a cui partecipa, quell’esercito per il quale la cura delle persone e delle cose è il patrimonio culturale per cui siamo noti nel mondo ed è quello che ci tiene aperte le porte del futuro.
E forse, a partire da questa consapevolezza, cominceremo a reagire, a rifiutarci di essere riconosciuti non come paese della cura e della bellezza ma come paese che investe nella paura e nelle fabbriche di armi e che si scandalizza se una ditta di pannolini e biberon fa una pubblicità che invita esplicitamente a fare l’amore, a fare figli, a fare il futuro.
Ma bisogna partire sapendo che a fronte di questa pseudocultura incalzante di slogan e fantasmi non conteranno le parole, ma i fatti, quelle opere delle migliaia di persone che ogni giorno provano, sperimentano, inventano cose da fare per interessare i ragazzi, consolare i vecchi, accogliere i diversi, divertire gli adulti con la curiosità, la conoscenza, la dignità della propria storia e del proprio territorio.
Ph: Paul Klee, Burg and Sun, 1928