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Coltivare il re-incanto

  • Pubblicato il: 14/10/2015 - 22:55
Autore/i: 
Rubrica: 
LA PAROLA AGLI ARTISTI
Articolo a cura di: 
Stefania Crobe

Ad aprire le riflessioni di questo autunno è Adrian Paci. Albanese di nascita, italiano di adozione, prima di altri ha raccontato le «vite in transito» ponendo all’attenzione il fenomeno delle migrazioni, i flussi, gli attraversamenti, ai quali la politica non fa che dare miopi risposte.
Ma l’arte di Adrian Paci è soprattutto il frutto di un’esperienza di vita individuale che attraverso il linguaggio, la narrazione, diventa bene collettivo.
Con lui l’arte si libera da una richiesta di funzionalità per riacquistare una dimensione spirituale attraverso dedizione, capacità di ascolto, attese. Un invito alla cura di sé attraverso lo stupore, attraverso il «re-incanto»
 
 
 
 
 
 

Alcuni, e non fra i peggiori, recalcitrano di fronte a questa prospettiva. Ma qual è l’alternativa? Evidentemente il reincanto.
S. Quinzio*

 
 
 
Attraverso itinerari sensibili, percorsi erratici, l’arte guarda all’esistente, restituisce «potenzialmente» un mondo più consapevole delle dinamiche di trasformazione del reale. Legge la polisemia del territorio e il suo primato simbolico, ripensando le esigenze attraverso l’osservazione del quotidiano, dell’esperire, del fare, dell’immaginare, per riscoprirne il senso e il mistero, svelando l’intraducibile. 
Ma forse l’arte è prima di tutto un’esperienza individuale che diventa collettiva attraverso il linguaggio. Un invito alla cura di sé attraverso lo stupore, attraverso il «re-incanto». 
Come Giano bifronte, l’arte – nel suo essere in tensione – mantiene un occhio a sé, al proprio essere e al proprio passato, e uno sguardo che migra verso mondi inesplorati e sconosciuti, che non esistono ancora. E’ qui e altrove.
 
L’altrove verso cui ci facciamo piacevolmente naufragare è quello di Adrian Paci.
 

Il territorio è forse la più grande opera collettiva che l’uomo abbia creato. Un’opera viva che si ridefinisce costantemente nel dialogo tra vivente e non vivente, tra natura e cultura, nello spazio e nel tempo. Nella corsa alla modernità e all’artificio, con il mito del progresso, l’uomo ha però abbandonato il territorio a sé stesso, riducendolo a funzione, a orpello, a risorsa da sfruttare.
Lo spazio – inteso in termini fisici e sociali - muta e la città in particolare diventa il caleidoscopio attraverso cui guardare alle realtà. Realtà che oscillano tra il globale e il locale, attraversano e sono attraversate da una profonda mutazione in atto caratterizzata da un intensificarsi delle connessioni, sempre più virtuali, da una dissipazione delle risorse naturali a favore del consumo di suolo, da una ridefinizione costante delle forme elementari di relazionalità che privilegia la sfera privata sul bene (e sul tempo) comune, producendo il depauperamento del concetto di «civitas». Può l’arte «rispondere» a questo cambiamento e contribuire a un ri-pensamento dell’esistente? L’arte si dice anticipi. Può fare qualcosa per il governo della città e del territorio? Per suggerire nuovi usi e abitudini, un modo altro di abitare..

A volte credo che non facciamo un buon servizio all’arte quando cerchiamo di caricarlo di una responsabilità alla quale non è capace di dare risposta. Quando pensiamo al contributo che l’arte può dare al mondo di oggi o a quello del domani non dobbiamo mai dimenticare di misurare quest'aspettativa con l’esperienza del contributo che l’arte ha dato già nel passato. Se devo pensare al contributo di Masaccio, Vermeer, Cézanne, Brancusi, Klee, Kaprow, De Maria e tanti altri artisti del passato lontano e recente, mi viene da pensare che il registro sul quale l’arte agisce è diverso da quello di chi è chiamato a governare un territorio. Oggi gli artisti si sentono «liberati» dallo spazio ristretto della tela pittorica e spesso sono attratti da dinamiche che coinvolgono il territorio e le relazioni sociali, ma questo non garantisce di per se nessun «successo» e «miglioramento» del territorio e del modo di abitarlo. 
 
 
 
Un questo clima di irrisolutezza occorre ribaltare le categorie per lo sviluppo di nuovi «laboratori di pensiero» fondati sull’incontro delle differenze e sulla pluralità, per una definizione costruttiva del conflitto, per la nascita di azioni ed effetti collaborativi passando da uno a molti. Che segnino cioè il passaggio dalla democrazia alla demopraxia**, in cui l’azione è processo condiviso di un progetto collettivo. Quali ruoli, funzioni, processi da attivare per l’arte nella sfera pubblica? Nella e per la società?
E' dall’ottocento che assistiamo ad uno sgretolarsi continuo del rapporto dell’arte con la sfera pubblica e l’affermarsi di un atteggiamento che privilegia l’individualità e la sua espressione con tutte le ricchezze e i capricci, le zone oscure e gli slanci. Credo che questo abbia portato ad un'importante emancipazione dell’individuo e del suo linguaggio espressivo, ma forse ha anche rotto quei ponti di comunicazione tra l’arte e il pubblico. Le dittature sono state quelle che hanno tentato di riagganciare il rapporto tra l’arte e la sfera pubblica. Nei paesi comunisti, per esempio, l’arte del «Realismo Socialista» ha avuto un ruolo sociale, ma soltanto diventando complice dell'ideologia dominante e della violenza brutale che essa esercitava. Anche il coinvolgimento dell’arte nella sfera pubblica durante il fascismo, non credo che abbia dato risultati entusiasmanti. Oggi lo spazio pubblico è molto determinato dallo sviluppo di un potere virtuale e mediatico con zone di condivisione e piattaforme sociali che richiedono un continuo ripensamento del rapporto tra l’arte e la sfera pubblica. 
Alla fine non si tratta di trovare la formula giusta, ma mantenere una tensione per aggiustare continuamente la tua posizione. Come artista non sono mai in cerca di un «pubblico» come un’entità astratta e generica. Mi interessa condividere il mio sguardo con altri, aprendo possibilità di dialogo e di arricchimento. Mi interessa indagare cose, fenomeni, immagini, storie e indagandole, scopro, modello e rimodello continuamente il linguaggio. Quando parliamo della dimensione pubblica non dobbiamo dimenticare che il linguaggio stesso è un bene pubblico. Il linguaggio dell’arte non è un fatto privato. Certo, prende corpo e voce dall’utilizzo del singolo, ma non è un fatto individuale. Il linguaggio non lo inventiamo noi, ci precede e ci precede come un bene collettivo.
 
 
 
Gilles Deleuze diceva nelle Conversazioni con Claire Parnet: «Non c’è alcun bisogno di filosofia: essa viene prodotta forzatamente là dove qualsiasi attività spinge in avanti la propria linea di deterritorializzazione. Uscire dalla filosofia, fare non importa cosa, in modo da poterla produrre dal di fuori. I filosofi son sempre stati un’altra cosa». 
Vale anche per l’arte? Si può uscire «fuori di sé» e dare vita a «matrimoni illegali» con altre discipline, con altre realtà, per avviare una nuova costruzione di senso che muove dalla complessità e non dalla semplificazione?

Penso che l’uscire  fuori di sé sia stata una tendenza che ha accompagnato fortemente l’arte di questi ultimi decenni. Mai come in questi tempi gli artisti che si chiamano artisti si rifiutano di fare Arte. 
Sicuramente c’è molta energia liberatrice in questa tendenza, ma come tutte le tendenze rischia di diventare un’inerzia e allora perde forza, perde tensione e si accomoda in delle formule e citazioni fatte di buone intenzioni ma prive di qualsiasi intensità.
Io credo che oggi non abbiamo bisogno di un’arte che conferma se stessa, ma non abbiamo neanche bisogno di un’arte che naviga in territori altrui come se fosse un turista viziato, pieno di disponibilità e privo di desideri. Quello che voglio dire è che non si può perdere totalmente l’attrazione per il proprio territorio, il proprio linguaggio, e accontentarsi di attraversamenti superficiali nei territori degli altri. Spesso vediamo artisti che si interessano un po’ di filosofia, un po’ di politica, un po’ di agricoltura, un po’ di antropologia, urbanismo, psicologia, fisica, economia, letteratura, medicina, sociologia, botanica, etc. etc., ma solo un po’. Entrano in questi territori e creano un piccolo scombussolamento, tutto finto, e poi  escono in cerca di altri territori, mai interrogandosi profondamente sul proprio contributo specifico.
Ho letto una bellissima intervista di Cesare Pietroiusti sul vostro giornale e su tante cose che lui dice mi trovo totalmente d’accordo. Penso però che vedere principalmente il gesto artistico come un gesto che porta imprevedibilità e immaginazione nei campi altrui, portando gli specialisti a lavorare sui margini della loro ricerca, sia sbagliato. 
Io non ho nessuna simpatia per l’artista che rimane chiuso e compiaciuto nel suo territorio di linguaggio, ma penso che la fatica di mettere in discussione il proprio territorio, non abbandonandolo ma coltivando nuove possibilità, sia oggi una sfida per quelli che si chiamano artisti. 
Non occuparsi del territorio dell’arte come un territorio di linguaggio che ha bisogno di essere coltivato e rinnovato, vuol dire consegnare del tutto il potere al cosiddetto mondo dell’arte che ogni tanto decide di includere al suo interno gesti extra artistici, con il potere di trasformarli in «arte» con una logica da ready made. 
I musei, le gallerie e le biennali di oggi sono pieni di gesti di deterritorializzazione che si legittimano solo grazie al potere dell’istituzione o del mercato che pensa a «ri territorializzare» tutto. 
Quello di cui sento la mancanza e il bisogno sono gesti di approfondimento intellettuale e poetico, atteggiamenti di cura e dedizione, capacità di entrare nelle pieghe delle cose e scoprire i dettagli nascosti attraverso uno sguardo colmo di stupore e affetto. Credo che per fare questo ci voglia coraggio ma anche il recupero di un senso di modestia, lontano da atteggiamenti furbi e cinici.
Ho assistito due anni fa ad una bellissima giornata d'incontro con un agricoltore bio dinamico a Lecce e mi ha commosso per la sua dedizione e la cura per la terra, per le piante, per gli animali, gli insetti, il suo rapporto con il tempo, le stagioni, la pioggia, il freddo e il caldo, la sua capacità di ascolto verso tutti questi elementi e poi la sua capacità di andare oltre, caricare tutto questo di una dimensione spirituale senza togliere niente alla sua fisicità. Tutto questo dentro una grande modestia e semplicità.
Ecco, mi chiedo, ed è una domanda che faccio soprattutto a me stesso, come può essere oggi un artista che pensa al suo territorio così come l’agricoltore pensa al suo. Non artisti che passano una settimana nei campi e piantano un albero, leggono due pagine di Deleuze, fanno un video, scombinano qualcosa di imprevedibile e se ne vanno. 
 
 
 
Prima di altri, ponendo l’urgenza davanti al nostro sguardo, hai abbracciato il tema delle migrazioni, mistificate troppo spesso da una politica dell’odio e da una retorica della sicurezza.
Con la tua ricerca dai visione ad una condizione antropologica: l’esodo forzato di intere popolazioni costrette a spostarsi, abbandonando le loro radici, per raggiungere un altro luogo, migliore, forse u-topico, nel quale vengono riposti desideri e vocazioni da coltivare con il bagaglio che ci si porta dietro. I tuoi lavori, indagando e ribaltando le categorie, nelle relazioni che creano con il mondo, sembrano suggerire uno sguardo migrante, quell’essere qui e altrove che auspicabilmente diventa un cum patire, un sentire comune.   

La migrazione per me non è un tema ma un’esperienza di vita. Mi è difficile affrontare l’argomento con il distacco di uno sguardo analitico. Guardando il film Anija, del regista Roland Sejko, che percorre la migrazione albanese con le navi durante gli anni ‘90 verso l’Italia, ho provato una strana sensazione di contentezza. Ero contento perché mi sentivo parte di quel popolo. Intendiamoci, non mi riferisco al popolo albanese in quanto nazione, ma quel popolo, che in un certo momento della sua storia, ha maturato dentro di sé questo grande desiderio di esplodere in un viaggio rischioso e ha posto su quel viaggio sogni, speranze e progetti per un futuro migliore. Sicuramente un viaggio di queste dimensioni, carico di rischi e di speranze è anche frutto di una situazione di disperazione, ma lasciamo stare per un attimo la disperazione, che è spesso la causa e che rende il viaggio migratorio necessario. Cerchiamo di concentrarsi su questo accumulo di speranza e di desiderio che contiene questo gesto. Io penso che c’è un'energia vitale nel movimento migratorio che deve farci pensare due volte prima che ci imbarchiamo in politiche respingenti. Sappiamo tutti che i flussi migratori scombussolano lo scorrere tranquillo della vita dei residenti e  non penso che dobbiamo pretendere che non ci sia nessuna tensione in questa dinamica, ma chiudere le frontiere e respingere non è assolutamente la soluzione. Un’altra cosa che i movimenti migratori ci insegnano oltre al desiderio e alla speranza verso i nuovi traguardi è poi la mancanza della terra che abbiamo lasciato. L’immigrato non è il turista che si sposta carico di curiosità e legittimo senso di avventura, ma quello che mentre pone tutte le speranze nella nuova vita dove si è imbarcato, non smette mai di pensare a quella che ha lasciato alle spalle. In questa tensione nascono spesso lacerazioni, ma anche delle bellissime cose.
 
 
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Adrian Paci (born in 1969 in Shkoder, Albania) studied painting at the Academy of Art of Tirana. In 1997 he moved to Milan where he lives and works. Throughout his career he held numerous solo shows in various international institutions such as: MAC, Musée d'Art Contemporain de Montréal (2014); Padiglione d’Arte Contemporanea – PAC, Milan (2014); Jeu de Paume, Paris (2013); National Gallery of Kosovo, Prishtina (2012); Kunsthaus Zurich, Zurich (2010); Bloomberg Space, London (2010); The Center for Contemporary Art – CCA, Tel Aviv (2009); Museum am Ostwall, Dortmund (2007); MoMA PS1, New York (2006) and Contemporary Arts Museum, Houston (2005).
Amongst the various group shows, Adrian Paci’s work has also been featured in the 14th International Architecture Exhibition – La Biennale di Venezia (2014); in the 48th and the 51st edition of the International Art Exhibition – La Biennale di Venezia (respectively in 1999 and 2005); in the 15th Biennale of Sydney (2006); in the 15th Quadriennale di Roma, where he won first prize (2008); in the Biennale de Lyon (2009); and in the 4th Thessaloniki Biennale of Contemporary Art (2013).
His works are in numerous public and private collections including Metropolitan Museum, New York, Museum of Modern Art, New York, Musée d’Art Contemporain de Montréal, Centre Pompidou, Paris, Israel Museum, Jerusalem, MAXXI, Rome, Fundacio Caixa, Barcelona, Moderna Museet, Stockholm, Kunsthaus Zürich, Zurich, Switzerland, UBS Art Collection, London, Museum of Contemporary Art, Miami, New York Public Library, New York, Solomon Guggenheim Foundation, New York, Seattle Art Museum, Seattle,
Adrian Paci teaches painting at Nuova Accademia di Belle Arti NABA, Milan. He has been a teaching art classes at Accademia Carrara di Belle Ari Bergamo, 2002-2006, IUAV, Venice 2003-2015 and has been giving lectures and workshops in many Universities, Art Academies and Institutions in different countries.

* Il riferimento è tratto da Enzo Scandurra, Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città aperta edizioni, 2007
** M. Pistoletto, Omniteismo e democrazia, Cittadellarte edizioni, 2012