Università: modello nordamericano?
Le Facoltà di Architettura italiane stanno subendo una profonda riorganizzazione per effetto della riforma Gelmini. Provando a sintetizzare la questione, i cambiamenti sono determinati dall’introduzione di un modello nordamericano incentrato su Dipartimenti e Scuole, e dalla sua applicazione negli statuti degli Atenei che registra in forme diverse i rapporti di forza locali.
È un processo che ovviamente non riguarda solo le Facoltà di Architettura, ma che forse mette in discussione il loro status quo più di altre, segnando la fine di una condizione appartata e marginale, ma tutto sommato tranquilla. Il caso più noto è quello di Palermo, dove l’Ateneo ha alzato l’asticella fornita dalla riforma quel tanto che basta a far perdere ad Architettura uno status autonomo. L’asticella è costituita dal numero dei docenti (e dei Dipartimenti) necessario a formare una Facoltà. Per chi non lavora nell’Università è necessario spiegare come si è formato il paesaggio terremotato dalla riforma.
Nell’arco di due decenni le Facoltà sono passate da 10 a circa 30, a cui si aggiunge l’esplosione dei corsi di laurea in Ingegneria edile Architettura. È stato introdotto uno sbarramento quando i buoi erano già scappati, e gli iscritti agli ordini professionali sono più che triplicati dopo che il numero chiuso era già in vigore. Ma soprattutto poiché le Facoltà sono state fino a oggi i contenitori di due strutture complementari, i corsi di laurea (didattica) e i Dipartimenti (ricerca), all’aumento delle Facoltà ha corrisposto un aumento dei Dipartimenti. La tendenza alla frammentazione non è stata Sufficientemente compensata dalla necessità di contare di più e disporre di più risorse. I corsi di laurea hanno proliferato, anche per (sovra)compensare gli effetti del numero chiuso con un’offerta di altri accessi senza filtro. Fino a quando un provvedimento ministeriale non ha introdotto dei «requisiti minimi» per attivare o tenere aperti i corsi di studio, manifestando la solita schizofrenia tra autonomia irresponsabile dal basso e regolazione burocratica dall’alto.
Adesso invece i Dipartimenti diventano le strutture di base della didattica e della ricerca, con un numero minimo di 35 componenti e una serie di prerogative che erano delle Facoltà. Queste ultime sono definite dalla riforma semplici «strutture di raccordo» tra più Dipartimenti nei quali sono «accasati» i corsi di laurea.
Si supera così l’equivoco terminologico del Dipartimento all’italiana. Il precedente nome di «istituto» era infatti molto più comprensibile fuori d’Italia, anche se rifletteva un’impostazione monodisciplinare. Mentre il termine più in voga per le strutture di ricerca interdisciplinare è nel frattempo diventato «center». Come al solito, però, l’adozione di un modello non riesce a essere perfetta, perché nel nostro paese si procede con le leggi anche nel campo che non è loro proprio. In quale angolo del mondo un Parlamento si sognerebbe di votare un provvedimento per stabilire in maniera assoluta di quanti professori debba essere composto un Dipartimento universitario?
Nel sistema nordamericano il Dipartimento è, a tutti gli effetti, un organismo compiuto e non ulteriormente scindibile, con una sua identità. All’estremo opposto, una «Faculty» è sempre un ombrello sotto il quale si raccolgono più entità, siano essi Dipartimenti o Scuole. Esiste quindi un’elasticità, che dipende da scelte accademiche, per cui il termine Dipartimento o Scuola è intercambiabile, e può definire lo stesso tipo di struttura. Questo va detto anche per quelli che vivono come una perdita di rango il passaggio della propria Facoltà a Dipartimento. Inoltre il termine «School» segnala principalmente, anche se non esclusivamente, la natura professionale della formazione, e per questo è più frequentemente associato a «Law-», «Medical-», «Business-», e quindi «Architecture-». Il nuovo panorama di Dipartimenti, Scuole e Facoltà si va formando in questi mesi, e sarà interessante tornare a osservarlo una volta che tutti i pezzi del mosaico saranno andati a posto. Ma c’è una decisiva opportunità in questo sofferto processo: quella di poter misurare, oltre le inevitabili beghe tra fazioni accademiche, e soprattutto partendo dai Dipartimenti, la coerenza, distribuzione e numero delle strutture che ancora si concentrano sulla formazione degli architetti. Che si chiamino in un modo o nell’altro, conterà soprattutto la chiarezza dell’identità che sapranno darsi.
All’orizzonte c’è di più di una ricognizione culturale: l’avvento dell’era della valutazione. Forse è un bene che l’Anvur (l’Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca) cominci con la ricerca, in modo da dare tempo alle strutture riorganizzate di mettere a fuoco i propri obiettivi. Ma subito dopo dovrà venire il momento di valutare la didattica, altrimenti l’Università italiana, e soprattutto le Facoltà di Architettura, non si reggeranno in piedi sulla sola gamba della ricerca.