Una via d’uscita
Farsi dei piaceri: l’attività culturale come qualità della vita ai tempi della crisi
Non lo si dice in giro, per una forma arcaica di pudore o per una riposta gelosia infantile, come se fosse un nostro segreto accesso alla felicità.
Qualche giorno fa al Teatro Luigi Bon di Udine, che pur piccolo vanta una stagione con una dozzina di appuntamenti intriganti di musica e di prosa, «hanno fatto» Di jerbas e di suns, che riprende canzoni scritte da Giorgio Ferigo ormai trent’anni fa, con musiche nuove e aggiunte di testi.
Una ventina di persone, tra loro quasi sconosciute, ciascuno appassionato di teatro e con competenze specifiche, hanno avuto la gana di incontrarsi da mezza Europa per studiare, provare e fare insieme uno spettacolo intorno a liriche emozionanti di una persona scomparsa da qualche anno, sconosciuta ai più, anche a loro.
La creatività e la sensibilità di tanti single, messe a prova forse dalla potenza dei testi, forse dall’avventura di un arrangiamento complesso, hanno sortito un inedito ensemble, quasi stupito dello straordinario valore aggiunto che il collettivo recava alle individualità e viceversa. L’intesa intensa e tesa di quelli sul palco ha contagiato la platea, che ha pianto e riso con loro sentendo canzoni in carnico. E già, perché i testi originali, una «Spoon river carnica», non sono stati alterati, e tutti abbiamo riso e pianto senza capire le parole ma «sentendone» profondamente il senso.
Due giorni prima, a Lecce, una ventina di giovani architetti e ingegneri ha concluso con un workshop progettuale uno dei tanti corsi che in questi anni si sono dedicati ai progetti territoriali e paesaggistici. Questo, organizzato da Aforisma in un programma della Regione Puglia, era intitolato al “Paesaggio dolce”, alludendo alla costruzione, condivisa dalle comunità locali, di capacità d’interpretazione e di progettazione di luoghi e di sensibilità per abitare meglio. Caso studio del workshop un tema realistico e difficile: la definizione delle caratteristiche di un nuovo luogo centrale che valorizzi una periferia diffusa e banale, senza segni e senza identità. Si è lavorato su Merine, una frazione ai bordi di Lecce dove vent’anni fa 3000 abitanti vivevano tradizionalmente, per lo più di agricoltura, e dove oggi dormono in 5000, per lo più city users del capoluogo.
In questo contesto si è riusciti a mettere in moto una dinamica di gruppo eccitante e produttiva, che ha fatto partecipare e discutere di progetto almeno una dozzina di persone, con un impegno e una tensione positiva di cui alla fine loro stesse si sono stupite. Forse nel percorso di riflessioni maturato in un paio di mesi di corso si era caricata una capacità di mettere a sinergia le proprie idee più di quanto si credessero capaci, forse il lavoro che questi giovani funzionari o professionisti svolgono nel quotidiano non è così soddisfacente, e la voglia di progettare cova sotto la cenere.
In ogni caso, dopo la performance, gli occhi attenti e contenti dei tecnici di Lecce avevano un riflesso emozionato simile a quelli dei musicisti di Udine. in ogni caso sia a Udine che a Lecce era percepibile la timidezza adolescenziale di fronte al contatto non abituale di più creatività e sensibilità che si accarezzavano e si sfregavano per un “fare” comune, che fosse musica o progetto.
Forse tutte queste persone hanno pensato che valeva la pena di concedersi questo lusso, una volta tanto che capitava, come una bella notte d’amore inaspettata, che hanno saltato pasti, che sono andate in ritardo a prendere i bambini all’asilo, che si sono viste di sabato e di domenica gratis, in un mondo senza soldi.
Forse le endorfine che ci danno piacere non si scatenano solo mangiando cioccolato, facendo coccole al corpo amato, o ascoltando musica in accordo col ritmo del cuore. Forse c’è un livello più complesso e intenso di piacere, che non è solo passivo, da apparecchi riceventi, ma anche e soprattutto da apparecchi emittenti. E’ quello che ci prende quando le nostre note o i nostri concetti si congiungono e si completano senza fatica con quelle e quelli degli altri, quando vediamo prendere forma un prodotto creativo dove il nostro contributo si è sciolto in un disegno comune, impossibile da immaginare da soli.
Non è un processo produttivo come ci siamo abituati a vedere, esito di un’organizzazione aziendale, di una gerarchia di ruoli, di una razionalità organizzativa. Forse ci sono anche queste componenti, a monte, nello studio e nella preparazione, ma quello che dà piacere è l’evento collettivo, quella sorta di secrezione che fisicamente si può percepire solo all’accadere di certe condizioni.
Nella ricerca del piacere in un «fare» comune prende senso la parola com-mozione, che è lo stesso della parola sin-patia: un gran collante delle creatività individuali quando sono vicine e con-sonanti, una sorta di pozzolana che tiene insieme pietre e mattoni e che consente di realizzare grandiosi monumenti.
Scopriranno che sono correnti elettriche, aure, magnetismi, insomma qualcosa di immateriale ma di molto fisico, che richiede prossimità di corpi e danza di respiri. Solo in quelle condizioni siamo capaci di far cadere le nostre barriere egoiche e di cedere al vortice dell’esperienza comune, del gran frullatore che consente di dire a Paolo Conte «l’orchestra era partita… decollata».
Non voglio insinuare che così nascono esecuzioni musicali e progetti portentosi, anzi spesso i prodotti, risentiti in registrazione o rivisti nei disegni, non sono esaltanti, e le emozioni che quelle riproduzioni suscitano non sono neppure confrontabili con quelle che aleggiavano durante le performance. Ma la differenza sta proprio nel «fare»: chi è attore in quei frangenti partecipa di un godimento intenso e straniante, tale da motivare la ricerca di quelle condizioni con le sue più impegnative imprese logistiche e la maggiore spesa di tempo e di energia per allenarsi e tenere in forma la mente e la sensibilità.
Allora si può azzardare un’ipotesi: forse il vero motore delle scelte di vita dedicate alla cultura, contro ogni probabilità di carriera, di stabilità economica, di successo, non è una delirante sovrastima di sé. Forse non è perché ci si crede Hendrix o De Carlo o Fellini che si fa il musicista, l’architetto, o ci si occupa di video, ma perché una dozzina di volte si è riusciti a fare notte con un concerto, un progetto o una sceneggiatura, e si ha avuto accesso a questa magnifica via d’uscita dalle piccolezze della noia quotidiana, ad un piacere che solo così si riesce ad ottenere.
Forse quelle incontrate le scorse settimane a Udine e a Lecce sono solo alcune delle migliaia di persone che vivono per uscire da quella porta, ogni volta che possono.
Ma non si può sapere, perché non lo si dice in giro, per una forma arcaica di pudore o per una riposta gelosia infantile, come se quello fosse un nostro segreto accesso alla felicità.
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