Un patrimonio invisibile e inaccessibile. Idee per dare valore ai depositi dei musei statali
Come valorizzare i depositi dei musei statali? Cosa si nasconde nei depositi dei musei statali? Un ricco patrimonio di opere per niente valorizzato, oppure uno sparuto gruppo di beni artistici poco pregiato e numericamente poco consistente?
L’Istituto BrunoLeoni, il centro studi che prende il nome dal filosofo Bruno Leoni e che promuove gli ideali del libero mercato, della proprietà privata, della libertà di scambio e della libera iniziativa, tenta di rispondere a questi interrogativi attraverso il briefing paper n. 111 dal titolo «Un patrimonio invisibile e inaccessibile. Idee per dare valore ai depositi dei musei statali» e curato da Maurizio Carmignani, Filippo Cavazzoni e Nina Però.
I «Briefing Papers» dell’Istituto Bruno Leoni, pubblicati e divulgati ogni mese, intendono fornire un punto di vista liberale, coerentemente con l’attività del centro studi, su questioni d’attualità e di pubblico interesse.
«Il contributo che questo paper si prefigge di dare è legato ad una prima analisi volta a comprendere la situazione problematica dei beni culturali invisibili, ovvero quelli ‘nascosti’ in magazzini e depositi statali, ipotizzando possibili soluzioni di policy al fine di valorizzarli» sostengono gli autori.
Una situazione problematica per la quale, se si pensa che l’Italia è il Paese dove i beni culturali sono capillarmente diffusi sull’intero territorio nazionale, si manifesta l’urgenza di un intervento radicale.
Secondo l’indagine «La fruizione del nostro patrimonio culturale risulta essere per lo più concentrata sui grandi attrattori; a titolo esemplificativo l’84% dei fruitori registrati nel 2010 ha visitato soltanto il 10% dei siti statali. In altri termini il restante 90% dei siti, nel medesimo anno, ha registrato una fruizione inferiore ai 100.000 visitatori annui, mentre per il 25% della totalità dei siti ministeriali i flussi risultano essere inferiori a 1.000 fruitori. A fianco di un patrimonio poco conosciuto e poco fruito se ne cela poi un altro di cui si ignora la composizione e la quantità: si tratta di quello stipato nei magazzini dei musei. Da un recente articolo scritto dal Direttore della Galleria degli Uffizi si è appreso che il museo fiorentino, su una superficie totale di 6 mila metri quadri e all’interno di 55 sale, espone 1.835 opere. Quelle conservate nei depositi sono 2.300. Le opere esposte rappresentano pertanto poco più del 44% del totale delle opere possedute (Natali, 2011)».
Dati imbarazzanti cui la ricerca dell’IBL tenta di rispondere con proposte concrete.
Il paper si compone di tre parti.
Dalla prima sezione, dedicata all’analisi della letteratura sui depositi dei musei, emerge, soprattutto per quanto riguarda i beni statali, una sconcertante lacuna di una catalogazione definitiva e completa - nonostante i tentativi da parte del MIBAC per giungere ad una stima attendibile - dei beni culturali presenti nel nostro paese, soprattutto relativamente ai beni mobili.
La mancanza di un quadro di riferimento completo comporta inevitabilmente una forte criticità in merito alla definizione di criteri di selezione delle priorità, alla definizione degli investimenti e degli interventi di tutela e conservazione, nonché di valorizzazione del patrimonio.
La conoscenza è, infatti, il presupposto fondamentale per la tutela, la conservazione e la valorizzazione del nostro patrimonio, per attuare politiche di intervento mirate alla sua promozione e fruizione, pena l’oblio e la perdita dell’identità culturale.
Una lacuna unanimemente esplicitata anche dalle considerazioni degli expert intervistati - organi centrali del Ministero, organi periferici, responsabili di singoli depositi - al fine di consegnare una visione il più completa possibile dell’argomento. Tra le autorevoli voci, che costituiscono la seconda parte del paper - anche quelle della responsabile dell'Osservatorio sulla catalogazione dell'ICCD; la direttrice del Museo Nazionale di Capodimonte di Napoli e la direttrice della Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma.
Chiudono la riflessione le «Indicazioni di policy» per una governance del patrimonio culturale, indicazioni dipendenti da una preliminare e necessaria «conoscenza, catalogazione e valutazione (in termini di valore scientifico e culturale e, quindi, di priorità) del patrimonio da parte degli organi preposti (Soprintendenze)» ma che auspicano una maggiore autonomia e flessibilità nella conduzione delle istituzioni culturali e nella amministrazione delle opere artistiche al fine di «ottenere – stabilendo delle precise linee guida – dei ritorni (anche economici, ndr) importanti».
Secondo la riflessione avanzata dall’IBL, l’Italia dovrebbe ripensare al proprio quadro istituzionale: alle soprintendenze andrebbe lasciato il ruolo di «guardiani» del patrimonio, mentre i musei dovrebbero diventare soggetti autonomi, sia da un punto di vista amministrativo che finanziario.
Ponendo un approccio differente a seconda che si tratti di beni culturali archeologici o storico-artistici, il paper propone sostanzialmente – coerentemente con una visione liberista - una politica attiva in termini di relazione e scambio tra i musei. Nonostante il testo unico dei beni culturali regoli in maniera piuttosto severa l’alienazione del patrimonio statale, il paper sostiene che, dall’utilizzo del patrimonio stipato nei magazzini si potrebbe ottenere un aumento dei ricavi attraverso prestiti anche a lungo termine. Con riferimento poi ai magazzini delle aree archeologiche, pieni di materiale di risulta, propone di «creare una linea di merchandising - anziché occupare spazio nei magazzini e accumulare polvere - basata sul concetto di pezzo unico». Infine sostiene la possibilità di «ottenere beni utili a completare le collezioni visibili utilizzando i magazzini come moneta per lo scambio con le istituzioni interessate».
In definitiva, riprendendo la tesi di Frey in Arts & economics. Analysis & cultural policy (2003), «i musei dovrebbero essere trasformati in soggetti più indipendenti dal punto di vista della gestione. Non c’è bisogno che vengano interamente privatizzati, ma dovrebbero essere soggetti alla sola supervisione generale da parte dello Stato. Dovrebbe essere concessa ai musei almeno la completa sovranità sul proprio budget, in maniera tale che possano vendere opere d’arte e usare i conseguenti ricavi liberamente per comprare altre opere, per l’attività di conservazione e di restauro, per le mostre, ecc».
Condividendo alcuni aspetti del paper e posto il riconoscimento della necessità di una ridefinizione sistemica delle policy in materia di beni culturali, a partire innanzitutto da un riesame della «politica del vincolo», processo che dalla prima legge in materia di «cose di interesse artistico» (Legge n. 1089/1939) ad oggi, nonostante un approccio «proibizionista», non ha evitato il compiersi di scempi immondi, a chi scrive piace pensare che il merchandising applicato a beni culturali, sia e rimanga una provocazione. Che l'arte sia e resti «bene comune».
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