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Per un nuovo cinema d’impatto

  • Pubblicato il: 15/10/2017 - 20:01
Rubrica: 
DOVE OSA L'INNOVAZIONE
Articolo a cura di: 
Chiara Galloni, Ivan Olgiati

Sperimentare una via allo sviluppo e alla produzione cinematografica attraverso l’opera prima di un regista emergente, che apre connessioni inedite tra settima arte e la realtà che la circonda. Una possibile “modellizzazione di un approccio produttivo piuttosto inedito nella cinematografia italiana contemporanea (…) per il processo culturale e produttivo che l’ha accompagnato fin dalla sua gestazione.”. Impact producing, nel cinema di finzione, significa prendere atto che la maggior parte, se non la totalità delle storie, hanno riferimenti al reale (…) presente negli oggetti e nelle persone (…) Il film diventa progetto culturale a tutto tondo, che non si risolve più, soltanto, nel prodotto finale, ma consiste anche dei processi di realizzazione dello stesso, dove tutte le parti sono coinvolte”.
 

“Tu hai a che fare con la realtà
anche quando pensi di fare qualcosa di finto”
G. Maccioni
 

 
Imbarcarsi in una produzione cinematografica è un viaggio nello spazio e nel tempo. Nello spazio, perché inevitabilmente vieni immerso in quello della storia che stai raccontando; nel tempo, perché sono progetti che dal concepimento alla realizzazione durano anni, con fermate e accelerazioni, retromarce, incidenti e mete non sempre certe. Alla fine, però, puoi permetterti di tracciare delle linee tra i punti e darti alcune risposte. Per questo oggi ci sentiamo di dire che Gli Asteroidi – il primo film di Germano Maccioni, prodotto da Articolture e Ocean Production, con RAI Cinema e in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà –, potrebbe aprire alla modellizzazione di un approccio produttivo piuttosto inedito nella cinematografia italiana contemporanea. Non per la dimensione estetica del film – non saremo noi a giudicarla – ma per il processo culturale e produttivo che l’ha accompagnato fin dalla sua gestazione.
 
Forse perché la dimensione industriale, per meccanismi e fatturati, ne oscura la componente intellettuale (quando presente), il cinema resta sempre piuttosto ai margini della riflessione culturale; eppure oggi come oggi sta vivendo una vera e propria rivoluzione e democratizzazione degli impianti, legislativi e produttivi, tanto che varrebbe la pena di esplorarli con più attenzione. La novità maggiore è la Legge Cinema appena varata, che ha confermato gli assunti della Legge Urbani del 2008, correggendo alcuni effetti distorti del credito d’imposta esterno[1] ma radicalizzando il tax credit interno, fino alla percentuale del 30%: ossigeno in termini di liquidità[2] per chi produce, che viene sgravato in questa percentuale degli oneri fiscali e previdenziali a debito e può contare automaticamente su quote consistenti a copertura del piano finanziario del progetto filmico in lavorazione. Questo non significa che produrre cinema sia diventato semplice, ma significa aver affiancato ai pur essenziali contributi selettivi, un meccanismo di abilitazione del tessuto economico nel suo complesso, che oggi da un lato ha meno scuse circa l’accesso al mercato e dall’altro meno dispositivi per confermare rendite di posizione.
 
Gli Asteroidi nasce anche grazie a questo, nella “bassa” bolognese, lontano dall’ombelico cinematografico di Roma. Solo due membri della troupe su quaranta vengono dalla Capitale, e si stupiscono di una crew quanto mai orizzontale, dei capi-reparto coinvolti nell’efficientamento delle risorse, dell’affetto. I protagonisti sono giovani persi nell’orizzonte piatto della pianura, dove la tradizionale socialità si sta sgretolando. Non sono attori, sono ragazzi, studenti veri e davvero persi, che si arrabattano e finiscono coinvolti in giochi più grandi di loro. Il film racconta un territorio, perché non può fare diversamente per essere autentico: di quel territorio è impregnato in ogni dimensione, dalla sceneggiatura, al regista, alla produzione, gli attori, le maestranze, ogni singola location, ogni singolo Comune dell’hinterland che ha accolto la troupe come una famiglia. Ma radicamento non significa campanilismo, e – aiutato a sollevarsi dalla tensione verso l’universo del co-protagonista, Cosmic, convinto che un asteroide a stretto giro colpirà la terra – il film è arrivato in Europa dall’ingresso principale, unica opera italiana selezionata in concorso ufficiale al Settantesimo Festival di Locarno.
 
Durante la fase di sviluppo abbiamo creato un percorso produttivo inedito, che invece che chiudere regista e sceneggiatore in una casa isolata, a raccontarsela tra loro, li ha forzati a confrontarsi con oltre cento studenti di cinque Istituti Superiori della Città Metropolitana di Bologna. Scuole complesse, camere di compensazione tra la città e la cosiddetta periferia. Nessuno “studente modello”, anzi, soprattutto quei ragazzi “non raccomandabili” secondo i professori. Tre mesi di laboratori di recitazione e sceneggiatura, che chiedevano a questi quasi diciottenni di riscrivere insieme a noi le battute del film, perché suonassero più naturali; storyboard disegnati in classe come programma d’esame; contest paralleli supportati da istituzioni pubbliche e private locali, pizze, bevute. Poi due di loro sono diventati i protagonisti di questa storia, molti altri figurazioni speciali e comparse, tutti ingaggiati in un processo che li ha visti parte attiva nello sviluppo e nella produzione e li vedrà – auspicabilmente – ambasciatori tra quel pubblico che dal 1° novembre, a poco più di un anno dalle riprese, andrà a vedere il film nei cinema di tutta Italia. Un percorso di formazione in prima battuta, ma anche di audience development, su un target che normalmente non va al cinema, e se ci va entra in una multisala e sceglie a caso il film da vedere, possibilmente americano e con molti effetti speciali. Dopo sei mesi di training, cinque settimane di riprese e davanti alle tremila persone che hanno assistito all’anteprima assoluta del film in Svizzera, uno dei due protagonisti – che si era iscritto al laboratorio solo “per avere crediti formativi” e mai avrebbe pensato di ritrovarsi a recitare la parte di sé stesso – ci ha detto: ma davvero un film come questo andrà al cinema? Come se le due esperienze, per quanto a lui noto, non avessero nulla in comune. Così come il messaggio whatsapp di un altro studente – il più timido e ritroso di tutti nonostante i suoi capelli ostinatamente ossigenati –, che ci ha comunicato di essere stato selezionato per un corso di sceneggiatura alla Southern California University. Ci piace pensare che senza il nostro workshop, forse non si sarebbe mai avvicinato alla scrittura per il cinema, non avrebbe trovato il modo di prendere un aereo e volare dall’altra parte del mondo. Per noi questo si chiama impatto.
 
Confrontandoci con i colleghi, abbiamo scoperto che esiste già qualcosa del genere. Si chiama “impact producing” ed è un termine coniato dalla BritDoc Association di Londra, a proposito dell’ambito documentario che effettivamente è predisposto, per tematiche e linguaggi, all’attivazione di comunità di interesse. Da lì abbiamo iniziato a chiederci se non potesse essere teorizzato anche nell’ambito fiction. Abbiamo iniziato a chiederci se non potesse essere una nuova chiave di lettura per il cinema italiano, almeno quello indipendente. Un approccio trasversale, tra cultura e sviluppo locale, complesso per la necessità di pensiero laterale e investimento umano nella creazione di connessioni inesistenti. Il cinema che abbiamo in mente, o che semplicemente a noi interessa produrre, riparte dai territori non perché le film-commission regionali cominciano a pagare bene, ma perché raccontano storie che possono essere realizzate solo lì e non altrove. Pertanto, senza mai rinunciare a un respiro sovralocale, diventano proprie di quei territori, nuovo patrimonio condiviso che si nutre di quello pre-esistente in cui è immerso e che rielabora con la libertà e la chiave critica dell’arte – come già discusso di recente ad Artlab17, parlando di produzione culturale contemporanea[3].
 
Impact producing, nel cinema di finzione, significa prendere atto che – parafrasando il nostro regista – la maggior parte, se non la totalità delle storie, hanno riferimenti al reale, direttamente o per converso, e per quanto lo si stia “ricostruendo”, esso è presente negli oggetti e nelle persone, quindi tanto vale lasciarlo entrare, o strabordare, dalla quarta parete. Per questo, all’interno di un impianto produttivo che sicuramente vive anche di percorsi tradizionali come fondi pubblici, co-produzioni e pre-vendite ai broadcaster, è possibile aprire dei varchi che mettano a frutto la concentrazione di ingenti risorse, economiche e umane, in uno spazio-tempo definito, creando esternalità positive attraverso azioni e strategie mirate, che partono dai contenuti specifici dell’opera e rilanciano, moltiplicandone il valore. Il film diventa quindi progetto culturale a tutto tondo, che non si risolve più, soltanto, nel prodotto finale, ma consiste anche dei processi di realizzazione dello stesso, dove tutte le parti sono coinvolte: le componenti artistiche, manageriali, gli investitori, gli amministratori, i non pubblici. Incoraggiando questa lettura, che il film piaccia o meno ai critici non è l’unica dimensione rilevante, così come l’impianto produttivo può diventare dirimente per il suo sostegno tanto quanto la qualità della sceneggiatura (come già del resto pretende il programma MEDIA rispetto all’ottenimento dei fondi europei). La storia produttiva, quindi, viaggia al pari della narrazione, e si sente anche attraverso lo schermo, oltre lo schermo. Ad esempio, con la volontà dei produttori di non abbandonare l’opera al raggiungimento della “copia campione”, ma di interessarsi fino all’ultimo spettatore, di stringere alleanze con i distributori tali per cui ti permettano di accompagnarlo fino nelle sale, in collaborazione con ogni singolo esercente resiliente che difende il cinema d’autore italiano, e con strategie di promozione che non tradiscano l’indole del film. Che magari non è perfetto, ma è l’inizio di un percorso potenzialmente virtuoso, che vale la pena di osservare, e abbracciare.
 
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[1] La norma dell’ingente tax credit esterno previsto dal Decreto Urbani a vantaggio di quelle imprese esterne al settore cinematografico che desiderassero investire in un’opera filmica, è risultato così appetibile da comportare un uso della misura improprio, stressandone l’applicazione anche in assenza di un reale rischio di impresa da parte degli investitori.

[2] Per la precisione, il tax credit non è propriamente liquidità immediata, ma credito d’imposta; tuttavia, la Legge prevede la cessione del credito ad istituti convenzionati, fornendo così liquidità alla produzione.

[3] http://artlab.fitzcarraldo.it/sites/default/files/ArtLab17Mantova_Gallon...