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Tutto cambia

  • Pubblicato il: 20/09/2013 - 21:26
Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Alessandra Gariboldi e Neve Mazzoleni

Come definisci l’Innovazione sociale a base culturale?
È un tema molto complesso che può essere utile vedere come multi-dimensionale.
La prima dimensione riguarda il sistema di produzione e distribuzione, forse fra gli elementi più sottostimati nel dibattito attuale. Siamo in un momento di incertezza sistemica; l’evoluzione tecnologica cambia continuamente la natura dei beni e dei servizi sul mercato e, ancora più in profondità, la natura stessa del valore. La sostenibilità economica per il settore culturale in Italia è problematica da sempre, avendo vissuto di posizioni vantaggiose conquistate in congiunture particolari o legate a finanziamenti pubblici non sempre monitorati a dovere. Va affrontato un processo di trasformazione radicale delle economie culturali, con un’attenzione particolare ai nuovi modi di produrre, distribuire e consumare nel quadro di rapporti sociali di produzione di natura diversa.
Una seconda dimensione riguarda i lavoratori stessi. Nel decennio passato c'è stata molta enfasi sulla cosiddetta Classe Creativa teorizzata da Richard Florida: era un'idea facilmente comprensibile e comunicabile, sexy e divertente. La crisi del 2008 ha messo in crisi questo paradigma, rilevandone l’insostenibilità sociale ed economica in un tessuto produttivo nel quale i lavoratori cognitivi sono sempre più difficilmente integrabili nel mercato del lavoro.
Un terzo aspetto è legato al tema più ampio dell'innovazione sociale, quindi la capacità di produrre valore sociale a partire da processi di produzione e condivisione.

Come analizzi il fenomeno della disoccupazione dei lavoratori cognitivi?
Nonostante i mass-media pubblichino spesso statistiche sull'argomento, non c'è ancora una reale coscienza del danno enorme per il paese causato dalla perdita di capitale umano e di intelligenza collettiva che si auto-esilia all'estero. Il problema principale rimane il fatto che quando bisogna tagliare fondi pubblici, amministratori di ogni colore tagliano per primi i fondi alla ricerca ed alla cultura, causando una perdita enorme di competitività a medio termine sui mercati internazionali. Il welfare è un'altra parte molto importante del problema: i lavoratori cognitivi sono più fragili di altri perché sono più difficili da inquadrare (e dunque da tutelare) con leggi e rappresentanze. Questo diviene ancora più dolorosamente vero in un contesto nel quale la flessibilità è richiesta ad ogni categoria lavorativa. Inoltre, i lavoratori cognitivi sono tra quelli che soffrono maggiormente il fenomeno dell'«emotional labour»: pur di svolgere professioni che ritengono gratificanti, in linea con la propria formazione e le proprie aspirazioni, costruiscono carriere caratterizzate da un alto tasso di auto-sfruttamento e da una bassa remunerazione, in un percorso che conduce ad uno stato di precarietà continua sia dei singoli che delle organizzazioni di cui fanno parte. Sono nella situazione assurda di rivestire un ruolo chiave nella riorganizzazione socio-economica dell'Italia e, al tempo tesso, di non trovare rappresentanza politica o sindacale, tutele legali, spazio nell'opinione pubblica.

Quale il senso del bando cheFare?
Per via della centralità della narrazione all'interno del percorso di selezione, cheFare è stata un'opportunità per tanti di raccontarsi, di dare visibilità alle proprie progettualità, storie e comunità. Per costruire un percorso di storytelling è necessario prima pensarsi, contarsi, auto-valutarsi. Prima di essere rappresentati, bisogna rappresentarsi.

Quale Italia sotterranea è emersa dal Bando?
Nonostante una forte presenza di fondazioni, imprese consolidate e start-up, la maggioranza dei soggetti che ha partecipato è costituita da associazioni. Manca completamente una capacità comunicativa strategica, per  raccontare gli intenti progettuali. Molte realtà patiscono la mancanza di progettazione, ma stanno emergendo realtà embrionali promettenti, che hanno progettualità anche con i territori. Per esempio Libéros, vincitore della prima edizione di cheFare, ha dimostrato un'incredibile capacità nell'organizzare network territoriali per diffondere la propria attività di promozione della lettura e dell'editoria in chiave di bene comune, costruendo relazioni con tutta la filiera.
E' un caso concreto di applicazione delle teorie del valore condiviso tra pari, come teorizzato da Michel Bauwens della Peer-to-peer Foundation. Questo vale anche per altri partecipanti, come la Casa del Quartiere di San Salvario a Torino o il Teatro Valle di Roma: si tratta di realtà che hanno capito prima e meglio di molte aziende «corporate» che la comunicazione sociale è un nuovo paradigma e nuovo strumento di produzione di valore.
Secondo me, la produzione condivisa, la co-creazione dell'offerta con gli utenti finali e con tutti gli stakeholder sono passaggi fondamentali perché le industrie culturali sviluppino degli strumenti per sopravvivere alla crisi. Questo si amplifica con l'integrazione della tecnologia e della rete, come nel caso della Fondazione Cesare Pavese: attraverso Twitter la Fondazione ha costruito percorsi di riscrittura collettiva dislessici della letteratura italiana del '900, integrando cultura, marketing territoriale e nuovi media. Sono situazioni ancora pionieristiche, ma che tracciano percorsi decisamente promettenti.

Come il bando cheFare è stato innovativo?
Innanzitutto dal punto di vista della comunicazione e della partecipazione. Attraverso il web abbiamo aperto la votazione dei progetti anche al pubblico on line. Non abbiamo ragionato in termini di marketing ma di narrazione e di riflessione culturale, cercando di comunicare la complessità senza renderla complicata ma, allo stesso tempo, senza banalizzarla.
Dall'altro, da quello editoriale e culturale. Sulle pagine di Doppiozero, e grazie alla partnership con la Domenica del Sole, abbiamo costruito un dibattito di alto livello articolando punti di vista che raramente hanno modo di dialogare all'interno dello stesso scenario. Da ormai un anno ospitiamo interventi di intellettuali, operatori culturali, esperti di impresa sociale, di economia culturale e di innovazione.
Sulla scia di Schumpeter, è sempre bene considerare l'innovazione come una medaglia a due facce. Da un lato crea un trauma per lo status quo, e può essere percepita come una forza distruttiva che mette in discussione molti dei valori maturati nei percorsi precedenti, spostando il focus su ambiti nuovi. Dall'altro invece, provando a ragionare in un'ottica di sistema si possono alimentare reti che integrano innovazione e tradizione. Può essere un percorso in grado di generare e rigenerare valore sociale, oltre che economico.

Come mettete a frutto il patrimonio di storie che avete raccolto?
Grazie alla collaborazione con una rete crescente di partner di eccellenza stiamo costruendo modelli di analisi per mappare e comprendere le realtà imprenditoriali culturali emergenti in Italia, e per capire come si articolano tra non-profit, low-profit e profit. Sul medio periodo, l'idea è quella di unire le forze con altri attori che stanno iniziando ad operare nel campo dell'innovazione culturale per costruire un ecosistema variegato e differenziato composto da bandi come il nostro, da percorsi di formazione e ricerca, incubazione e mentorship, ma anche dalla costruzione di fondi d'investimento per la cultura.

Quali sono le azioni immediate da mettere in campo per stimolare innovazione del settore Culturale?
Come dicevo, è necessario innanzitutto costruire un sistema di infrastrutture permanente integrato, fra Fondazioni, Bandi e impresa sociale. I primi strumenti da attivare sono la diffusione di cultura imprenditoriale (profit come non-profit), sistemi di consulenza e mentorship. Ovviamente bisogna anche costruire strumenti di lettura dell'impatto. Non sono sufficienti 5 o 10 Bandi all'anno. C'è bisognodi una cultura diffusa di investitori e imprenditori che capiscano che l'impacting investing è possibile anche per il settore culturale. Sul fronte finanziario c'è la necessità di costruire fondi di investimento che permettano, a fronte di un ritorno «calmierato», di finanziare attività ad alto valore sociale e culturale. Un po' come sta facendo, sul fronte della sanità e dell'housing, Oltre Venture a Milano. Ho l'impressione che il problema non sia tanto quello di trovare investitori per iniziative di questo tipo, quanto di costruire strutture (tecniche, legali, economiche) che gestiscano le risorse. Questa è una priorità. Da ultimo, credo che ci sia la necessità di moltiplicare gli strumenti a disposizione di chi vuole fare impresa sociale base culturale, rivedendo la legge sulle imprese sociali (ritenuta troppo poco flessibile da molti esperti del settore) e ragionando su altre formule possibili.

Quali sono le tue fonti d'ispirazione?
Trovo molto interessanti le riflessioni di Adam Ardvisson e Nicolai Petersen in «Ethical Economy», appena uscito, nel quale si prova a suggerire una nuova teoria del valore. Credo che sia fondamentale il lavoro di analisi e di mappatura di Michel Bauwens e della Peer to peer Foundation. E sono ovviamente anche molto interessato al lavoro del giurista statunitense Yochai Benkler sul Benessere delle Reti e la co-costruzione di beni comuni, culturali e non.
Inoltre, stiamo seguendo con particolare attenzione lo sviluppo della sharing economy, quel particolare incrocio di realtà ibride che nascono con il percorso tipico delle startup tecnologiche ma operano in un modo diverso, costruendo una redditività economica assieme a dei valori tipicamente onciali e di condivisione. Una volta c'era solo il couch-surfing, la condivisione di posti-letto in giro per il mondo tramite piattaforme Web. Oggi si mettono all'interno di piattaforme di condivisione passaggi in auto, lezioni, prestazioni specialistiche, stanze e appartamenti, in un indotto economico che sembra diventare sempre più significativo. Riviste come Shareable e portali come Peers stanno lavorando alla costruzione di un nuovo paradigma.

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