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Scienza della visione e arte. Echi da VSAC 2018

  • Pubblicato il: 15/09/2018 - 08:03
Rubrica: 
STUDI E RICERCHE
Articolo a cura di: 
Laura Messina Argenton e Tamara Prest Da Boit
Il Congresso internazionale annuale Visual Science of Art Conference mostra che dallo studio delle opere artistiche si possono continuare a ottenere riscontri e indicazioni per il procedere della ricerca psicologica sulla percezione e che lo studio delle scienze della visione da parte degli artisti visivi, specularmente, può fornire conferme o giovare alla loro produzione. A tutto vantaggio, non solo di una sempre maggiore comprensione del fenomeno artistico, com’è negli intenti del VSAC, ma anche della ‘contaminazione’ di coloro che sono al di fuori delle comunità di artisti e scienziati e del nutrimento delle politiche di audience engagement delle istituzioni culturali.
Due simposi sono stati dedicati a Alberto Argenton, docente di Psicologia dell’arte all’Università di Padova, e a Manfredo Massironi, docente di Psicologia generale all’Università di Verona, con un precipuo interesse per la Psicologia dell’arte, e al tempo stesso entrambi artisti visivi, scomparsi da qualche anno.
Appuntamento al VSAC 2019 (Lovanio 22-24 agosto), organizzato da Johan Wagemans, con la
keynote lecture affidata a Robert Pepperell, studioso di arte e percezione e artista, su “Integrating art and science: Challenges and opportunities”.

L’arte è conoscenza e comprensione del mondo
e la conoscenza e la comprensione psicologica del fenomeno artistico
è indispensabile per contribuire a conoscere e a comprendere la natura umana.
Alberto Argenton, 1996
 
Anni or sono, in un volume miliare per la scienza della visione, Vedere e pensare, Gaetano Kanizsa (1991, p. 83) affermava che “fenomenologia sperimentale e pittura si integrano a vicenda e, in quanto i risultati nei due ambiti non possono essere in contraddizione, sono l’una il banco di prova dell’altra[1]. Può essere, questa, un’utile chiave di lettura introduttiva al congresso internazionale annuale Visual Science of Art Conference, che, dopo le edizioni curate da Baingio Pinna (Alghero), Slobodan Marković (Belgrado), Marco Bertamini (Liverpool), Alejandro Parraga (Barcellona), Claus-Christian Carbon e Joerg Fingerhut (Berlino), si è svolto a fine agosto di quest’anno a Trieste (VSAC 2018), con l’organizzazione di Rossana Actis-Grosso e Daniele Zavagno, docenti, rispettivamente, di Psicologia della percezione e di Psicologia dell’arte all’Università di Milano Bicocca.

Il VSAC è stato istituito nel 2012 quale satellite della European Conference on Visual Perception – il principale congresso europeo annuale di scienza della visione – giunto quest’anno alla 41esima edizione e svoltosi anch’esso ovviamente a Trieste (ECVP 2018), con il coordinamento di Tiziano Agostini, docente di Psicologia della percezione all’Università di Trieste, e di un team di colleghi e collaboratori: Paolo Bernardis, Carlo Fantoni, Alessandra Galmonte, Mauro Murgia, Fabrizio Sors.

Nel panorama scientifico mondiale, il VSAC si contraddistingue per la peculiarità del suo principale obiettivo, che sembra ispirato a tradurre operativamente l’intuizione di Kanizsa intendendo collegare le comunità di scienziati della visione e di artisti visivi per promuovere una proficua interazione tra i due domini al fine di riuscire a comprendere sempre meglio il fenomeno artistico.

L’interesse nei confronti di tale obiettivo emerge chiaramente dalla numerosità di Paesi rappresentati al Congresso da studiosi, ricercatori e artisti (19 Paesi: Australia, Austria, Belgio, Canada, Francia, Germania, Giappone, India, Iran, Italia, Messico, Norvegia, Olanda, Regno Unito, Russia, Serbia, Stati Uniti, Svizzera, Ungheria), ed è ben dimostrato dalla varietà di approcci di ricerca, specie psicologico, ma anche storico-artistico, filosofico, sociologico, e dalla molteplicità di argomenti trattati nelle 3 giornate congressuali, scandite da 2 relazioni, 3 simposi, 5 sessioni plenarie, 4 sessioni dedicate ai poster (vedi Programma).

Sostanzialmente, i lavori delle sessioni plenarie (Aesthetic experience; Dynamics and order; Mixed session; On artists and more; Perception and techniques) e delle sessioni poster (Architecture, street art, and installations; Aesthetics, design, and technology; Crossmodal … and maybe more; Aesthetic studies; Perception and art; Portraits, selfies, self, and emotions; Art investigations from different persepctives) si sono distribuiti principalmente sulle tre componenti in cui si articola il “fenomeno artistico” – artista, opera, fruitore – e sulle loro relazioni – la “relazione artista-opera” e la “relazione opera-fruitore”[2] – con una maggiore attenzione per l’opera e per la relazione tra opera e fruitore, da sempre oggetti di ricerca privilegiati dai percettologi, così come dalla grande maggioranza degli studiosi che da altre prospettive si interessano del fenomeno stesso. Analoga attenzione si ritrova nelle 2 keynote lecture, tenute da Michael Kubovy (The place of contemplation in a world of arts), professore emerito di Psicologia all’Università della Virginia, e da Ian Koenderink (Macchie, passages and edges lost and found), fisico e psicologo, professore all’Università di Lovanio, e centrate, la prima, sulla “esperienza estetica” e sulla natura del “piacere”, la seconda su determinati accorgimenti compositivi, nella fattispecie macchie e margini, che incidono significativamente sulla percezione dell’opera artistica.

A tali ‘classiche’ componenti se n’è aggiunta una ulteriore: la relazione artista-ricercatore, alla quale è stata dedicata una specifica sessione, Art Workshop, toccando così ‘in vivo’ l’obiettivo congressuale. Due principali linee di indagine e di riflessione emergono dal ‘dialogo’ tra artisti e ricercatori.
L’una è offerta principalmente dai contributi appaiati di Patrick Hughes (Developing reverspective in form and imagery), artista noto specialmente per le sue reverspective, e di Thomas Papathomas (Patrick Hughes’s reverspectives as research tools in visual perception), professore all’Università di Rutgers e direttore del Laboratory of Vision Research. Prescindendo dalla inevitabile affinità tra la ricerca percettiva e gli effetti ottici della produzione artistica di Hughes che, oltre Papathomas, ha interessato diversi percettologi, anche italiani[3], un elemento di riflessione che riverbera da questi interventi riguarda le direzioni di cross-fertilization tra i due domini: lo studio delle acquisizioni scientifiche nell’ambito della visione – nel caso di Hughes, lunghi anni di studio, dalla “camera distorta” di Ames ai lavori sperimentali di J. J. Gibson, e così via – giova all’artista per sviluppare, affinare, orientare le sue procedure compositive; lo studio della produzione degli artisti giova allo scienziato per comprendere, approfondire fenomeni visivi, riconoscendo agli artisti stessi di essere – come nel caso di Papathomas verso Hughes – “years ahead of the vision scientists”. E tale relazione può estendersi ben oltre le ‘affinità percettologiche’: tutti gli artisti, se tali, sono “ottimi conoscitori e scopritori, per lo più a livello intuitivo e pratico, del funzionamento della percezione visiva” e dallo studio delle loro opere “si possono continuare a ottenere riscontri e indicazioni per il procedere della ricerca psicologica sulla percezione” (Argenton, 2008, p. 77)[4]; lo studio delle scienze della visione da parte degli artisti visivi, specularmente, non potrebbe che fornire conferme o giovare alla loro produzione, o, perché no, portare a suggerire ai ricercatori, ad esempio, aggiustamenti di rotta o puntualizzazioni. A tutto vantaggio, non solo della maggiore comprensione del fenomeno artistico, com’è negli intenti del VSAC, ma anche della ‘contaminazione’ di coloro che sono al di fuori delle comunità di artisti e scienziati.

La seconda linea di indagine e di riflessione che emerge dalla sessione Art Workshop deriva dal contributo di Wendy Morris – artista che lavora con animazione e video ed è ricercatrice post-dottorato in storia dell’arte all’Università di Lovanio, la cui relazione (This, of course, is a work of the imagination) riporta lo stesso titolo di una mostra da lei tenuta recentemente al Mu.ZEE di Ostenda – e da quello di Johan Wagemans, professore di Psicologia all’Università di Lovanio, che, assieme ai suoi collaboratori Vincent Janssens, Nelke Jorissen e Nathalie Vissers, ha studiato l’esperienza e l’apprezzamento di tale mostra da parte dei visitatori (A museum study with some imagination too, perhaps).

Al di là dell’interesse intrinseco dell’opera in mostra di cui ha riferito Morris – un’installazione di filmati, disegni e oggetti che esplora questioni complesse di memoria collettiva, in questo caso riferita alla segregazione sudafricana, richiedendo al fruitore un certo sforzo e impegno, che dovrebbero essere agevolati dallo “appeal estetico” dell’opera, ricercato dall’artista per “catturare e mantenere la sua attenzione” – dalla ricerca di Wagemans e collaboratori appaiono risultati che rimandano a un problema rilevante. La ricerca infatti, condotta con 135 visitatori di diverso background culturale, attraverso differenti strumenti di ricerca e in tre condizioni sperimentali, cioè senza o con ulteriori informazioni date dall’artista o dai ricercatori, ha fornito una notevole gamma di risultati, non ancora pienamente analizzati, “chiaramente correlata alle caratteristiche dei partecipanti e alle informazioni aggiuntive che hanno ricevuto”, mostrando come “esista una variabilità individuale (no single size fits all) quando si tratta di comprendere e apprezzare opere d’arte complesse”.

Il problema immediato, non certo trascurabile, della rispondenza tra intenzioni dell’artista e risposta dei fruitori, sollevato dalla ricerca, si riverbera su quello più ampio dell’engagement del pubblico, con tutto il suo risvolto culturale e sociale, che tuttavia, al di là dello studio suddetto, non sembra essere compreso nel raggio di riflessione degli attori di questo VSAC (anche dei precedenti, sembrerebbe[5]). Ci si può chiedere se questa significativa lacuna sia da ricondurre ai vincoli della ricerca sperimentale, privilegiata dai partecipanti, che rendono complesso, e spesso impediscono, il controllo dell’alto numero di variabili implicate nel fenomeno, data la sua ampiezza e varietà, o seppure non sia necessario un cambio di prospettiva, come peraltro ha suggerito Kubovy nella sua già citata relazione, criticando il “riduzionismo” della neuro-estetica e suggerendo, in un certo senso provocatoriamente, la necessità di dare allo studio della cultura (da riferire, ovviamente, all’arte) un suo “statuto autonomo tanto dalla psicologia quanto dalle neuroscienze” e di garantire che “lo studio della cultura sviluppi le sue discipline libere da ogni riduzionismo”.

In realtà, la proposta di Kubovy troverebbe già albergo nella Psicologia dell’arte, nell’assetto dato a essa in primo luogo da Rudolf Arnheim, ma anche da molti altri studiosi, tra cui Kubovy stesso. E proprio alla Psicologia dell’arte sono stati dedicati i 3 simposi (su invito) previsti nel congresso.
Uno è stato specificatamente indirizzato al tema Teaching Psychology of Art: Ideas and issues, è stato coordinato da Daniele Zavagno e vi hanno partecipato docenti della materia: Carmelo Calì, Università di Palermo (Questions for the psychology of the artful mind), George Mather e Robert Lee, Università di Lincoln (Sensation and perception in visual art) e Claus-Christian Carbon, Università di Bamberg (Teaching and Researching: Two sides of a coin), rivolgendo le loro riflessioni prevalentemente ai problemi e alle potenzialità dell’insegnamento della disciplina, come da programma, più che al suo statuto.
Gli altri due simposi sono stati dedicati a due studiosi: Alberto Argenton, docente di Psicologia dell’arte all’Università di Padova, e Manfredo Massironi, docente di Psicologia generale all’Università di Verona, con un precipuo interesse per la Psicologia dell’arte, e al tempo stesso entrambi artisti visivi, scomparsi da qualche anno.

Il primo simposio – Art and expression (In memory of Alberto Argenton) – coordinato da Ian Verstegen, vicedirettore dei Visual Studies dell’Università di Pennsylvania, ha toccato uno dei punti nodali della psicologia dell’arte – l’espressività dell’opera artistica – traendo il suo titolo da un volume di Argenton[6]. I contributi portati al simposio da Benjamin Van Buren, ricercatore post-dottorato all’Università di Yale (Ownership of Expressive Properties), da Ling Zhu, membro dell’Institute of Aesthetics and Art Theories dell’Università di Berlino (Visual Tension and the Expressiveness of Art), e da Riccardo Luccio, professore emerito di Psicometria all’Università di Trieste e percettologo (Psychology of Art vs Psychology of Expression?), hanno approfondito sfaccettature basilari del tema, richiamandosi alla trattazione fattane da Argenton. Da una parte, entrando nel merito delle qualità espressive e della loro differenziazione in rapporto all’oggetto cui appartengono (Van Buren) o della tensione visiva – “un concetto chiave per comprendere come le opere statiche di arte visiva possano provocare un senso di dinamica, che a sua volta è intimamente correlato alla loro espressività” (Zhu) – dall’altra, nel caso di Luccio, riproponendo l’annosa questione se “l’approccio idiografico”, rivolto alla analisi e alla descrizione di fenomeni, che a suo parere caratterizzerebbe la Psicologia dell’arte, e “quello nomotetico”, indirizzato a “produrre attendibili generalizzazioni”, proprio della Psicologia dell’espressione, possano fondersi insieme convergendo sullo stesso oggetto di studio (per quanto possibile), o se i due domini debbano rimanere irriducibili l’uno all’altro”, e tornando quindi indirettamente al nocciolo focalizzato da Kubovy.

L’ultimo simposio – Representation of events and dynamic content in the visual arts (In memory of Manfredo Massironi) – coordinato da Rossana Actis-Grosso, ha affrontato uno dei temi distintivi della ricerca di Massironi[7], ripreso dalla stessa Actis-Grosso nella sua relazione (Dynamic contents in the visual arts: The tricky passage between simultaneity and succession), e cioè “il modo in cui le immagini statiche visive rappresentano eventi successivi nel tempo” e “i vincoli percettivi e cognitivi coinvolti nel percepire queste immagini e nel collegarle come rappresentazioni successive dello stesso evento che si evolvono nel tempo”. Gli altri due contributi al simposio hanno ulteriormente approfondito questo tema, affrontando quello specifico della narrazione continua pittorica di storie in singole immagini, nelle quali l’artista rappresenta più eventi, e quindi, il passaggio del tempo, attraverso la raffigurazione ripetuta di uno o più personaggi. Tema che si ricollega a una questione ampiamente dibattuta negli studi sulla narrazione pittorica – ovvero se un medium visivo statico, qual è la pittura, possa consentire di narrare – e che rimanda inevitabilmente alla rappresentabilità del tempo in tale medium. Hermann Kalkofen e Micha Strack, dell’Università di Gottinga, nel loro intervento (Today’s neglect of person repetition in narrative pictures) hanno riferito di un esperimento condotto sul riconoscimento dei personaggi ripetuti in 12 opere pittoriche di narrazione continua, attraverso la rilevazione del movimento oculare di 16 soggetti adulti, riscontrando che i soggetti riconoscono che i personaggi ripetuti sono i medesimi quando ricevono un suggerimento che li indirizza a confrontare i personaggi stessi. Ian Verstegen, assieme a Tamara Prest e a Laura Messina Argenton, dell’Università di Padova, ha presentato gli sviluppi di una ricerca impostata da Alberto Argenton e rimasta incompiuta (Pictorial continuous narratives: Perceptual-representational strategies), che in un certo senso è una ‘risposta’ alla ricerca precedente, mostrando come l’artista “risolva il problema di raccontare una storia, gli episodi o gli eventi che hanno una progressione sequenziale e, quindi, temporale, utilizzando strategie percettivo-rappresentative riconducibili a categorie del pensiero visivo”.
 
Non vorremmo semplicizzare una questione complessa, ma a chi osserva la ricerca su visione e arte cercando in essa non solo conoscenza di fenomeni, ma anche indicazioni su come i suoi risultati possano contribuire alla crescita culturale della popolazione, queste ultime ricerche forniscono un buon esempio, uno dei tantissimi possibili, per immaginare percorsi di lettura ‘scientifica’ dell’arte orientati allo sviluppo culturale, che appaino i risultati della ricerca sperimentale in senso stretto – la quale consente di controllare tratti inerenti all’opera o alla risposta del fruitore – con quelli della ricerca fenomenologica, nelle linee tracciate e sviluppate magistralmente da Arnheim[8], così come da altri studiosi, quali Argenton, “forse il primo che abbia operazionalizzato aspetti nodali del pensiero di Arnheim sottoponendoli a una rigorosa verifica” (Verstegen, in press)[9].

Un approccio di ricerca, quello fenomenologico, che lascia parlare le opere artistiche – i “fatti” come avrebbe detto Paolo Bozzi[10] – le osserva e le descrive in modo obiettivo e attendibile con tutta la competenza possibile dello scienziato e le studia senza i ‘limiti’ del laboratorio, proprio con l’intento di orientare il fruitore nella osservazione o nella scoperta ‘guidata’ delle opere stesse, delle loro qualità espressive, dei loro significati percettivo e rappresentativo, dei ragionamenti percettivi e delle strategie rappresentative impegnati dagli artisti per la loro realizzazione. Il “metodo ostensivo” di cui racconta Arnheim (1992, p. 218)[11] a proposito del suo insegnamento – “l’indicare a dito, il ‘ma non vedi che …?’” – il ‘mostrare’, che in un certo senso accompagna anche la lettura di testi di psicologia dell’arte, crediamo sia uno dei più potenti dispositivi specie formativi che la competenza dello scienziato visivo possa offrire alla comunità. E certamente la competenza dello scienziato, nel nostro caso dello psicologo dell’arte, non può che essere, allo stesso grado, psicologica e storico-artistica. Lo dimostra, nei suoi lavori, Arnheim, così come lo dimostrano Argenton o Massironi, nei loro.

Quando poi la competenza ingloba anche quella del fare artistico, come è stato per Argenton o per Massironi o per Kanizsa, in ambito pittorico, o per Bozzi in campo musicale, o per artisti con competenze storico-artistiche e percettologiche, come ad esempio Augusto Garau, i percorsi di lettura ‘scientifica’ dell’arte, rivolti alla crescita culturale, possono davvero diventare a tutto tondo, giovandosi anche di quei piccoli tesori, talvolta sconosciuti, che sono le produzioni artistiche degli scienziati che studiano l’arte.

Forse non a caso, il VSAC 2019, che si svolgerà a Lovanio dal 22 al 24 agosto, organizzato da Johan Wagemans, ha affidato la keynote lecture a Robert Pepperell, professore di Fine Art alla Cardiff Metropolitan University, il quale è sia uno studioso che si occupa di arte e percezione sia un artista, e forse non a caso la keynote lecture sarà su “Integrating art and science: Challenges and opportunities”.

© Riproduzione riservata

Ph: Alberto Argenton, Battaglia. Omaggio a Paolo Uccello, 1998, olio su tela, cm. 58.5 x 87.5. Collezione privata
 

[1] Kanizsa, G. (1991). Vedere e pensare. Bologna: Il Mulino.
[2] Si rimanda a: Argenton, A. (1996). Arte e cognizione. Introduzione alla psicologia dell’arte. Milano: Raffaello Cortina, cap. 6. Edizione 2017 on line di Arte e cognizione nel sito di Alberto Argenton (www.albertoargenton.it).
[3] Malisano, C., & Agostini, T. (2014). Usi e abusi della prospettiva: osservazioni sperimentali sulle reverspective di Patrick Hughes. In C. M. Fossaluzza & I. Verstegen (Eds.), Ragionamenti Percettivi. Saggi in onore di Alberto Argenton (pp. 51-71). Milano: Edizioni Mimesis.
[4] Argenton, A. (2008). Arte e espressione. Studi e ricerche di psicologia dell’arte. Padova: Il Poligrafo.
[5] Si rimanda a: C. C. Carbon & J. Fingerhut (2017). Abstracts from the 5th Visual Science of Art Conference (VSAC). Art & Perception, 5(4), 337 - 426.
[6] Volume già citato in una nota precedente, che sarà pubblicato in inglese, nel 2019, per i tipi di Routledge: Art and Expression. Studies in the Psychology of Art, by Alberto Argenton, edited by Ian Verstegen.
[7] Si rimanda, per esempio, a: Massironi, M. (2002). The Psychology of Graphic Images. Seeing, Drawing, Communicating. Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum Associates. Massironi, M., Alborghetti, A., & Petrucelli, F. (1989). Indici visivi del tempo in sequenze di configurazioni statiche. In A. Garau (Ed.), Pensiero e visione in Rudolph Arnheim (pp. 169-204). Milano: Franco Angeli.
[8] Si rimanda, ad esempio, a: Arnheim, R. (1974). Arte e percezione visiva. Nuova versione. Tr. it. Feltrinelli, Milano, 1981.
[9] Verstegen, I. (in press). Editor’s Introduction. In A. Argenton, Art and Expression. Studies in the Psychology of Art. London & New York: Routledge.
[10] Bozzi, P. (1990). Fisica ingenua. Milano: Garzanti. Si rimanda anche a: Bozzi, P. (2018). Paolo Bozzi’s Experimental Phenomenology, edited by I. Bianchi & R. Davies. London: Routledge.
[11] Arnheim, R. (1992). Ma è vera scienza?. In Per la salvezza dell’arte (pp. 211-232). Tr. It. Feltinelli, Milano, 1994.