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  • Pubblicato il: 15/09/2015 - 12:07
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Fabio Cavalli

I fondi statali destinati alla cultura in Italia sono più che dimezzati in 30 anni. Tutti i settori sono stati colpiti, ma non tutti hanno subito la triste sorte toccata al teatro di Prosa. Le Mostre d’arte triplicano le presenze dal 2007. I Concerti classici raddoppiano le vendite. Nel resto d’Europa la Prosa cresce o resiste anche in tempi di crisi, in Italia no: meno pubblico e crollo degli incassi al botteghino. E’ solo colpa dei tagli governativi? Proponiamo qualche numero e qualche interrogativo
 
 
 
 
 
Diceva Mark Twain che «la gente di solito usa le statistiche come l’ubriaco i lampioni: più per sostegno che per illuminazione». Che mi toccasse di occuparmi di statistica, non potevo immaginarlo quando cominciai a fare i mestieri vari dello spettacolo.  E invece eccomi a citare, per esempio, un recente intervento di Francesco Giavazzi su La Lettura (CorSera del 9/8/15), a proposito del fatto che «un paese che disprezza il merito non può amare i numeri». Il noto economista fa riferimento alla refrattarietà tutta italiana ad accettare il principio della «valutazione quantitativa» dei fenomeni (investimenti, produttività, tasso di successo o insuccesso di una azione…). Perché mai disprezziamo i numeri? Ce ne dice qualcosa Lord Kelvin (l’inventore del II principio della termodinamica), quando afferma che noi conosciamo davvero solo ciò che possiamo misurare ed esprimere con numeri. Ricorderete certamente la frase di Pietro Nenni: “piazze piene, urne vuote”. Allude esattamente (non so se l’illustre politico lo considerasse) al problema della dis-valutazione di un fenomeno scarsamente misurabile. Quanti erano oggi i partecipanti a quella data manifestazione di sostegno politico? - Tantissimi. Centomila. - No, un milione! – Allora vinceremo le prossime elezioni. Voteranno tutti per noi. Poi si votò e vinse la DC (1948). Nenni ci rimase così male che inventò quel monito a futura memoria. Tutta quella gente in piazza aveva offerto l’illusione dei numeri, quando vengono adoperati alla Twain: per sostegno a una tesi, per farci coraggio e darci forza fino alle elezioni. Senza star troppo lì a sofisticare se i manifestanti erano centomila o un milione. Senza star troppo a domandarsi quanta gente può entrare fisicamente in una piazza senza che si vìoli  il principio fisico della incomprimibilità relativa dei corpi. Senza domandarsi – in teatro è frequente – se alla Prima affollatissima seguiranno repliche a teatro semivuoto. E guai a far troppa luce con la statistica. Rischiamo di dover prendere atto che di quel dato fenomeno non sapevamo proprio nulla e dobbiamo studiarlo daccapo e scoprire verità noiose, faticose da dire e da perseguire con politiche attive, cambi di strategie, rigore nei provvedimenti. E magari licenziare l’incapace che non si preoccupa di decifrare il linguaggio arcano dei numeri.
 
Eccovi un esempio statistico: interventi a sostegno del Teatro e per l’incremento del numero di spettatori nelle sale italiane. Linee guida per le nuove policy si possono creare, anche ricavandole dall’analisi dei dati. Le fonti non mancano: Istat, Siae, Mibact, worldcitiescultureforum.com; tuttitalia.it, industriascenica.com… I dati ricavabili ci dicono molte cose un poco allarmanti.
Ho cominciato ad occuparmi professionalmente di spettacolo attorno al 1985. Da allora il valore reale (depurato dell’inflazione) dello stanziamento del Fus (Fondo unico dello spettacolo) è calato del 53% (dati 2012). Dal 2000 al 2011 la spesa pubblica per la cultura e i servizi ricreativi è calata del 36%, con una incidenza sulla spesa pubblica generale che passa dal 2,5% al’1,3% (dati UVAL-DPS); in rapporto al Pil (Prodotto interno lordo) l’incidenza del comparto cultura passa dall’1,2% allo 0,6%. Nel settore Prosa, fra il 2006 e il 2012 i fondi Fus sono scesi del 23%. (*)
Questi dati sono noti e fomentano una giusta polemica su cosa vogliano i vari governi per i loro cittadini: un Paese che non investe in cultura disegna un futuro culturalmente impoverito.
La giusta polemica, però, rischia di assorbire tutta l’attenzione degli analisti a proposito del problema della diffusone della cultura nel nostro paese. I governi hanno le loro responsabilità (quale più, quale meno). Ma, forse, anche le categorie del settore culturale hanno la coscienza sporca. Le categorie dello spettacolo, per esempio.
Vediamo qualche dato (avvertiti del fatto che il disastro che sto per descrivere coi numeri, coincide col crollo degli investimenti pubblici nel settore, cui abbiamo accennato sopra).
Fra il 2007 e il 2014 il Teatro di Prosa  in Italia ha perso il 18% di incassi (da € 5 mln a € 4,1 mln [Siae]). Nel complesso dell’attività teatrale si passa dai 24,3 mln di ingressi in sala del 2007 ai 21,5 mln del 2014 (-11,52%). Un calo che si perpetua anno dopo anno con un’insperata inversione di tendenza proprio nel 2014 e un magro 0,6% di aumento. Si dirà che è effetto della crisi economica che ha colpito l’Occidente e l’Italia proprio a partire dal 2007. Purtroppo, non è granché vero. Negli altri paesi europei gli incassi della prosa sono costanti, o in aumento. Ma anche gli altri settori della spesa culturale nel nostro Paese mostrano una tendenza inversa: sempre fra il 2007 e il 2014, le Mostre d’arte passano da 242 mln di incassi al botteghino a 545 mln – più che raddoppiati; i concerti passano da 273 mln a 327 mln. Anche il Circo è in crescita. E il Teatro di Figura (marionette, burattini, teatro delle ombre…). La Prosa è il problema.
 
 
Vediamo altri dati per cercare di circoscrivere il tema, almeno dal punto di vista dei numeri. Confrontiamo i biglietti staccati al botteghino in alcune capitali europee: Roma 2 mln;  Madrid: 3,6 mln; Parigi 4,7 mln; Londra 22 mln. Detti così, questi numeri non significano nulla. I biglietti del teatro vanno confrontati con la popolazione residente in città. E qui viene il difficile. Perché, la fonte giusta qual è? (quanto a “dare i numeri” i dati reperibili sul sito demographia.com/db-worldua.pdf sono i più strampalati). La faccio breve e vi dico che, dopo  parecchie consultazioni, ho deciso di considerare l’area urbana delle città secondo i confini segnati dalle rispettive amministrazioni. Così gli abitanti censiti a Roma sono 2,88 mln; a Madrid 3,25 mln; a Parigi 2,25 mln; a Londra 8,63 mln. (*)
Dunque, a Roma, con una popolazione di poco inferiore a quella di Madrid, si stacca poco più della metà dei biglietti staccati nella capitale spagnola. Il dato non ci conforta. Il confronto con Parigi, è peggiore: la capitale francese stacca più del doppio dei biglietti di Roma. Londra è fuori target: stacca 11 volte i biglietti di Roma. Certo, Londra è una delle capitali mondiali (sia della finanza che del teatro, guarda un po’); la lingua inglese è fra le più diffuse al mondo; Londra produce musical: canto, danza, recitazione, scenografie superbe, palcoscenici con supertecnologie, investimenti enormi e pubblico che arriva da tutto il mondo proprio per l’attrattiva rappresentata dai teatri; e poi il teatro inglese è alla fonte di ogni Teatro Moderno… e via giustificando (a proposito, l’Italia, a rigor di storia, sarebbe la fonte di ogni possibile Melodramma, eppure i nostri strafinanziati teatri d’Opera sono solo al V posto nel mondo sia per numero di spettacoli realizzati, sia per biglietti staccati [dati 2014]).
Ma quello che proprio non torna, in questo confronto fra le capitali europee, è il costo medio di un biglietto di teatro (in €): 11,50 a Roma;  24,6 a Madrid;  31,7 a Parigi;  42,4 a Londra. Certo – si dice – a Londra il costo medio del biglietto è alto perché là si rappresentano i musical che costano tantissimo. Che dire allora di Madrid o Parigi che hanno una programmazione simile a quella italiana?  Gli abitanti, laggiù, sono molto più ricchi che a Roma? Tanto da pagare un biglietto due, tre volte di più?
 
 
Vediamo di approfondire la questione. Cominciamo subito col dire che, parlando di finanziamenti pubblici italiani al comparto dello spettacolo, la ripartizione non evidenzia un rapporto univoco fra fondi impiegati e target raggiunto. Facciamo un esempio comparativo.
Nel 2014 le Fondazioni Liriche hanno assorbito il 46,00% dei fondi Fus, pari ad € 186.865.340, rappresentando solo il 2,57% degli eventi ed il 9,38% degli spettatori [Siae]. 
                Nel 2014 il settore Prosa ha ricevuto dal Fus il 15,83% dei fondi, pari a € 64.306.050. L’esito al botteghino è stato poco meno di 14 mln di biglietti staccati (nella sola Londra se ne staccano 22 mln ma, consolatevi, dentro quella cifra c’è anche il Musical).
Per la Lirica e  il Balletto insieme, l’esito 2013 dei biglietti staccati è stato poco superiore ai 4 mln.
L’esempio della comparazione dei dati sopra riportati, ha lo scopo di evidenziare il fatto che la relazione fra fondi pubblici impiegati, spettacoli prodotti e biglietti staccati è incerta.
A titolo di esempio, prendiamo un caso italiano: si tratta del rapporto fra quota di ripartizione dei fondi Fus per la Prosa su Roma, rispetto alla quota totale. Gli spettatori di Roma  sono circa 2 mln/anno, ma i fondi assegnati alle Compagnie private ed ai Teatri pubblici della Capitale sono pari al 20% dei fondi totali nazionali. Sulla popolazione italiana (60.795.612), la popolazione residente a Roma è circa il 5%. Ciò detto, si evidenzia che il 20% di Fus a favore del 5% di pubblico potenziale, dovrebbe avere una ricaduta sullo sbigliettamento ben più favorevole di quanto non accada. Milano - con una popolazione di interland superiore a Roma ma con residenti urbani che non raggiungono 1,3 mln - ha ricevuto il 14% dei fondi Fus per la Prosa, con risultati di botteghino migliori di quelli di Roma (circa 2,5 mln di biglietti staccati).
Il punto – i questa riflessione - non è stabilire se siano troppi o pochi i fondi per questo o quell’altro settore del Fus. Il punto è stabilire il tasso di produttività dei fondi pubblici impiegati. Sembra di poter dire che ci sia scarsa relazione fra entità degli investimenti pubblici e crescita del pubblico. Magari cresce l’offerta. La domanda no.
 
Veniamo a un altro punto importante che ci presentano i dati Istat. Ricaviamo dall’Annuario Statistico Italiano 2014 queste considerazioni: «Quasi l’80% degli italiani non è mai stato a teatro [...] A partire dalla classe di età dei 18 anni, la quota di coloro che non hanno mai assistito a uno spettacolo teatrale supera il 70 per cento. […] Sono soprattutto i bambini e i ragazzi ad andare a teatro (circa il 30 per cento), dopodiché, al crescere dell’età, la quota degli spettatori diminuisce». 
 
Ecco i dati in sintesi. Il 30% di ragazzi fra i 6 e i 18 anni va a teatro mediamente 3 volte l’anno. Oltre il 18° anno di età, la partecipazione scende di colpo fino al 18%. Un calo del 40%. Dalla maggiore età in poi il tasso di partecipazione agli spettacoli teatrali cala ancora fino al 17% e  risale di poco verso l’età matura. I ragazzi fra i 6 e i 18 anni rappresentano quel 13% della popolazione che maggiormente sostiene l’attività teatrale (si vedano i bus carichi di studenti più o meno svogliati che vengono portati alle matinée). Ovviamente, il costo del biglietto per quelle fasce di età, dovrà essere necessariamente più basso rispetto al prezzo praticato al pubblico adulto. Anche (forse soprattutto) così si spiega il basso costo medio del biglietto in Italia rispetto agli altri paesi europei.
Che il 70% dei ragazzi in età scolare non sia mai entrato in un teatro, è incomprensibile. Il fatto spiega il perché, nel nostro Paese, l’80% della popolazione non sia entrata in un teatro nemmeno una volta nell’arco dell’esistenza: ogni forma di educazione è un’abitudine acquisita, qualcosa che si apprende e poi, a gusto piacendo, si condivide, si replica nel tempo, si trasmette alle nuove generazioni (spesa e partecipazione agli eventi sportivi sono in costante aumento [Siae]).
Ecco: ciò che più preoccupa, è che nemmeno quel 30% di partecipanti all’evento teatrale in età scolare, venga fidelizzato. Tutt’altro. Compiuto il 18° anno di età, i ragazzi svoltano la vita in tre mosse: patente di guida; diritto di firma; diserzione dal teatro.
 
Non sarà che la statistica, a questo punto, ci lascia per strada? La statistica misura i fenomeni, ma non ci dice nulla sul perché i diciottenni smettano di andare a teatro (così come il pubblico di ogni età).
Dunque: come fare ad incrementare il numero degli spettacoli, degli spettatori ed anche del ricavato al botteghino a beneficio dei lavoratori dello spettacolo e del sistema?
Posto che non si può imporre al Governo di raddoppiare i finanziamenti alla cultura da un giorno all’altro, resta il problema: raddoppiando i finanziamenti, raddoppierebbero gli spettatori e gli incassi al botteghino? Oppure il “caso Roma” sopra riportato, attesta che non è affatto detto che l’investimento pubblico sia produttivo di per sé?
Non è che si dovrà intervenire sul fronte della qualità artistica dell’offerta? Sull’appeal del prodotto? Sulla capacità di seduzione degli spettacoli sulla base del target prefissato? Sulle politiche teatrali per gli studenti? Sull’utilizzo delle nuove tecnologie? Su nuove forme e contenuti  della comunicazione?
E che dire delle forme societarie dei produttori di contenuti nel comparto dello spettacolo dal vivo? Dominano le “associazioni senza scopo di lucro”; enti spesso di piccolissime dimensioni,  privi di capitale sociale e statutariamente non votati al profitto; enti “non scalabili”, sui quali nessun privato investe capitali, rileva quote, pretende un utile, si impegna nella concorrenza di mercato. Non solo in Europa il sistema produttivo funziona diversamente (almeno in parte), ma anche da noi, per esempio nel comparto cinematografico: il Mibact non finanzia associazioni culturali ma solo società con capitale versato. Così il sistema teatrale risulta estremamente parcellizzato, retto su fragili palafitte, condizionato fortemente dai finanziamenti pubblici ed incapace di affrontare sfide produttive che richiederebbero investimenti, rischio, concorrenza.  A questo proposito bisognerebbe dare un occhiata ai numeri del sistema inglese, dove lo Stato interviene per meno del 30% nelle economie d’impresa teatrale. Ma questa è un’altra storia.
 
(continua…)
 
(*)
cfr. Mimma Gallina, Ri-Organizzare teatro, Franco Angeli 2012 (con aggiornamenti 2014).
 
(**)
Sento già la voce di chi dice che non può essere vero: Londra è fra le città più grandi del mondo! Parigi è molto più popolata; sui siti si parla di 12 mln di abitanti! Roma, poi, almeno 5 mln! Mi dispiace ma i numeri ufficiali sono quelli che ho dato. Se poi vogliamo chiamare Parigi l’intera  Île-de-France, facciamolo. Allora arriviamo a 11,8 mln, sì, ma distribuiti su una superficie di poco inferiore a quella della Regione Lazio e costellata da 1281 comuni. Quanto a Roma, l’intera Regione conta 5,8 mln, e non credo si possa considerare Viterbo o Latina come quartieri di una presunta Città Metropolitana grande come il Lazio (l’area di una Metropoli si determina sulla base di un sistema integrato di trasporti, tutto il resto è banale toponomastica [Via Tal Dei Tali non può stare due volte sul medesimo stradario urbano]).  
 
FONTI
http://www.siae.it/statistica.asp?link_page=Statistica_AndamentiStagionali.htm&open_menu=yes#doc
http://www.siae.it/statistica.asp?link_page=Statistica_MappeDelloSpettacolo2013.htm&open_menu=yes#doc
http://www.siae.it/statistica.asp?click_level=3600.0700.0100.0400&link_page=Statistica_BibliotecaDelloSpettacoloDal2006.htm
http://www.istat.it/it/files/2014/11/C08.pdf
http://www.istat.it/it/archivio/cultura-comunicazione-e-tempo-li
http://www.tuttitalia.it/italia/
http://www.industriascenica.com/blog/2014/10/31/dove-finiscono-i-soldi-del-fus-2014-teatro-milano/
http://www.spettacolodalvivo.beniculturali.it/index.php/osservatorio-dello-spettacolo/panoramaspettacolo/449-panoramaspettacolo-2014
http://www.spettacolodalvivo.beniculturali.it/index.php/normativa-teatro/doc_download/927-panoramaspettacolo-2014
 
 
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