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Non è crisi: è transizione!

  • Pubblicato il: 13/09/2013 - 12:47
Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Alessandra Gariboldi e Neve Mazzoleni
Luca Bergamo

Come definisci l’innovazione sociale dalla tua prospettiva europea?
Manca completamente una definizione di innovazione sociale nelle Politiche Culturali Europee. Lacuna che deriva dall’impostazione stessa della strategia 2020, interamente focalizzata alla crescita e competitività economica. Focus presente anche in altri ambiti, incluse per esempio le politiche destinate ad indirizzare le performance dei sistemi educativi negli ultimi vent'anni.
Culture Action Europe (CAE) sta introducendo relativamente da poco un discorso nuovo per il settore culturale. Esiste una distorsione nell'uso della parola Cultura, che ci porta a indentificarla come l’insieme delle espressioni più o meno artistiche e dei loro prodotti recenti e antichi. Queste sono fra le componenti fondamentali, che si riferiscono alla sfera dell’immaginario e alle emozioni degli individui e delle collettività, capaci di stimolare riflessione e rielaborazione di paradigmi sociali. Ma la Cultura di un popolo, di un tempo, di una regione sono molto più dell’insieme delle sue espressioni artistiche. Sono anche i fattori che consentono di interpretare e comunicare la realtà interna ed esterna a ciascuno di noi, di immaginare e progettare la sua trasformazione, di evolvere. La Cultura ha consentito alla specie umana di sopravvivere in un ambiente ostile e di adattarsi, con impatto così forte che ora siamo in procinto di distruggere l’ambiente stesso che ci ha garantito la sopravvivenza. Come dice Edgar Morin, siamo esseri al 100% biologici e al tempo stesso 100% culturali.

Qual’ è la lettura inedita di cui parlate?
Non siamo in una situazione di crisi, ma di transizione.
Siamo nel passaggio da un modello sociale, costruito 500 anni fa e da un’idea di redistribuzione della ricchezza sviluppata nel dopoguerra, ad un nuovo modello, i cui caratteri sono incerti. Trattandosi di una transizione, la soluzione non sta nel mettere in campo misure per tornare all'equilibrio precedente, ma nel trovarne di nuove, evolute. Dobbiamo capire come si configura il «nuovo», ma alcuni elementi sono già leggibili. Un equilibrio fondato su un nuovo patto sociale, e le  attività umane che chiamiamo «arte, scienza, educazione…», concorrono all'arricchimento o impoverimento, alla creazione o distruzione, di capacità e competenze individuali e collettive che poi si trasformano in prodotti nei cicli economici, e infine in valore.

Cosa intendi per capacità culturali?
Intendo la capacità di cooperare, di competere, la capacità di indurre e dedurre, di calcolare e di astrarre, la curiosità e il rigore, l’immaginazione e la progettazione, la capacità di comprendere e comunicare, di empatizzare e differenziarsi, di creare e ingegnerizzare,  di ascoltare e riprodurre, di essere logici o associare.Per una politica che vuole agire, l’equilibrio di questi fattori è fondamentale per dare vita ad una società organizzata in modo diverso, dove la parola «sostenibilità» abbia un senso ampio e sia riferimento non solo ambientale, ma di giustizia e compatibilità sociale per i viventi e per le generazioni future. La partita fondamentale è capire come si sviluppano queste capacità che favoriscono i processi di trasformazione.
Dobbiamo immaginare che ciascuna politica ha impatti culturali. Lo hanno le politiche educative e formative ma anche le scelte urbanistiche, gli orientamenti della ricerca scientifica e il rapporto tra la sua comunità e i cittadini, lo hanno la definizione di libertà, diritti e doveri civili, lo ha l’orientamento del servizio pubblico radiotelevisivo, oltre che ovviamente le politiche che oggi chiamiamo culturali.
Se ne deduce che il compito di un attore politico/civile sul tema culturale è quello di intervenire sull'intero spettro di politiche, in modo tale che queste concorrano a generare il cambiamento. Da uno scenario limitato ai beni e servizi per il tempo libero, soprattutto a livello locale, è indispensabile passare allo sviluppo di strategie trasversali a diversi settori d’intervento.
Con questa premessa strategica, ad esempio, non ha nessun senso per noi immaginare che le organizzazioni si limitino a rappresentare gli interessi corporativi. Sussiste il problema della trasformazione delle organizzazioni: da rappresentative di un settore a portatrici di interesse di carattere collettivo e generale. È come trasformare una lobby in una realtà come Amnesty International. CAE sta lavorando per trasformare la propria identità: da organizzazione che rappresenta interessi settoriali, a ente che organizza e da voce in Europa ad una domanda di cultura come fattore essenziale alla transizione verso un società sostenibile e prospera.

In questo contesto diventa quindi molto importante l'impatto che le attività culturali  hanno sulle persone che coinvolgono.
Nella relazione con la comunità coinvolta, si trova l'oggetto vero della trasformazione culturale, forse più che nel fatto estetico o artistico in sé, che è un innesco: nel «bello» risiede il veicolo per raggiungere il «buono». Se si osservano da questo punto di vista, appare evidente come settori apparentemente molto diversi (opera, festival, patrimonio, ecc) abbiano in realtà molto in comune. Ora i vari attori che organizzano gli interessi espressi nei diversi ambiti della vita culturale spesso non dialogano, perché concentrano l’attenzione sull’oggetto del loro discorso, la disciplina stessa che promuovono. Ma se oltre al fatto in sé si rivolge l’attenzione all’impatto generato, il campo di alleanza diventa più esteso ed interessante per due ragioni: da un lato per far uscire le istituzioni dal proprio recinto, aprendosi a contaminazioni, dall’altro l'impatto delle azioni sulla società si rivela importante quanto le azioni stesse.

E’ una consapevolezza presente?
Comincia a farsi strada. Prendiamo un caso specifico ad esempio: nei nuovi programmi per la cultura dell’Unione Europea l’accento sull’audience development è molto forte, ma inteso soprattutto come estensione della platea di consumatori. Penso invece che vada inteso come sviluppo del rapporto tra attori della produzione artistico-cultuale e cittadini. Gli stessi programmi riconoscono un ruolo importante al capacity-building – la formazione di capacità. Ma le capacità necessarie per sviluppare il rapporto con i cittadini non sono le stesse per vendere un prodotto-servizio a cui ci si è molto dedicati nel recente passato. Le prime implicano innovazione sociale, arricchimento, le seconde no.
Diventa perciò importante svolgere funzione di sensibilizzazione e capacity building di nuove sensibilità e competenze. E’ un salto di scala non semplice: non si tratta di sollecitare e accompagnare innovazione di processo, né di prodotto, ma di incentivare gli attori culturali a sapersi mettere in rapporto «non solo commerciale», ma costruttivo con la collettività. E’ una responsabilità sociale che richiede una capacità di analisi sociologica e politica.

Quindi Cultura come fattore di coesione sociale.
La vita artistico-culturale è un fattore di costruzione della trama sociale. Ne ho un’esperienza diretta e non solo teorica, come produttore culturale.
In Europa ci sono molti casi di introduzione della Cultura in processi di rigenerazione urbana, come elemento che può dare equilibrio complessivo del sistema. Città come Malmö, hanno sviluppato intere strategie su questo. Ci sono esperienze di network, come Trans Europe Halles. In questi casi, dovendo affrontare anche tensioni sociali, le organizzazioni culturali si sono trovate a fare i conti con la necessità di cambiare, in un rapporto molto più dinamico con le comunità, con processi intensamente partecipativi, che variano anche in modo determinante, in ragione della maturità del terreno civico su cui si opera. In Est Europa e nei paesi della cintura post sovietica è difficile dare vita ad esperienze simili: c'è una fortissima centralizzazione dei sistemi e le azioni di governo sono spesso di impronta nazionalista, le azioni si concentrano sul patrimonio come veicolo per affermare la prevalenza di determinate identità su altre a fini politici e contingenti. Esiste in ogni caso una società civile attiva, che si batte e importanti esperienze e attori culturali attivi a livello civile, penso al duo di artisti Dan e Lia Perjovschi ad esempio.
Come CAE, stiamo cominciando a costruire uno spazio teorico e organizzativo che dovrebbe portare a tessere un cotè fertile.

Come leggi l’Italia?
C’è un’idea distorta e conservativa del patrimonio culturale, che talune soprintendenze trasformatesi in veri e propri centri di potere, presiedono, impedendo un dialogo fertile tra la storia che il patrimonio rappresenta e le città contemporanee. La conservazione è nata per motivi legittimi. Abbiamo perso di vista il fatto che ciò che oggi è patrimonio, in altre epoche è nato come produzione culturale contemporanea, slancio della società verso il futuro. Essendo l’ltalia un Paese con la testa rivolta indietro, il rapporto che abbiamo con il patrimonio riflette il nostro immobilismo o opportunismo. Una certa intellettualità italiana, ha esercitato un potere enorme, costruendo strutture ormai burocratiche, la cui religione è indiscutibile: non si tocca niente. Penso a Roma e al Tempio di Giano: appena restaurato dopo aver subito un attentato, è stato transennato, vietando alle persone di sostare sui suoi scalini, privandolo così di una nuova vita. Talvolta il nostro patrimonio storico viene valorizzato, purché il suo uso non lo trasformi, toccando le caratteristiche fisiche o funzionali. Ma se invece un «bene» comincia a rivivere, il senso comune reputa che lo si sta snaturando. Con questo atteggiamento siamo sempre perdenti.

Difficile innovare dal basso…ma anche le Istituzioni faticano a mantenersi
È vero, ma l'unico modo di fare Cultura, è facendola insieme a chi ne beneficia. Pensiamo ad una grande città e ai suoi spazi verdi: se la gestione del verde è un servizio erogato del Comune, e maggiore è la contrazione della spesa pubblica, più troviamo spazi abbandonati. Viceversa, costruendo delle forme di welfare che siano basate sulla responsabilità collettiva di un bene comune, arriviamo a valorizzare tanti spazi verdi, anche minori. Penso alla Gran Bretagna e all’esperienza del National Trust, fondato dalla Regina Vittoria, che è un incredibile attore di conservazione, recupero e accesso al patrimonio storico e ambientale inglese, che si basa sul volontariato di anziani e giovani che concorrono alla cura dei beni a cui tengono. In Italia, sotto la prima Giunta Rutelli vennero varati diversi progetti in questo senso, purtroppo presto accantonati. Ci sono molte esperienze e persone nelle istituzioni e nella cosiddetta società civile con competenze e passione. È il momento che la Politica Italiana dia spazio a queste energie.

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