LE PREMESSE PER UN NUOVO INIZIO: CAPITALISMO IN TRASFORMAZIONE. UN APPROCCIO SISTEMICO PER POLICY RESPONSABILI
A Milano, alla Società Umanitaria, il 15 dicembre si è tenuto un confronto sulle trasformazioni culturali della società digitale, sulla transizione in corso, con ospiti di eccezione. Il Rettore dell’Università di Torino, GianMaria Ajani, Francesco Samore', direttore della Fondazione Giannino Bassetti, Antonio Calabrò-Vice Presidente di Assolombarda, Michele Corradino-consigliere dell’Autorità anti corruzione (in occasione dell’uscita del suo libro “E’ normale. Lo fanno tutti”) e Paolo Zanenga-Presidente di Diotima Society, che si occupa di scienza della complessità. Questo mese, in luogo della riflessione degli artisti, riportiamo una lettura di futuro che verrà data alle stampe in un prossimo testo. Un lungo ragionamento da cogliere in profondità, fino in fondo, al punto delle soluzioni, con i tempi che la pausa di fine anno ci concede che può dare respiro a nuove politiche, in cui attori pubblici e privati collaborano per la co-creazione di una società win win. Formula proposte sulla costruzione del nuovo sapere, in connessione, prospettando un ruolo centrale per il Terzo Settore
Il rapporto tra ricchezza e potere, tra economia e politica, tra potere del sapere e potere della forza, ha sempre appassionato non solo i filosofi ma, ovviamente, tutti i protagonisti della società e della storia, e anche i loro soggetti (sub-jecti).
In un recente dibattito (1) si è affrontato il tema del presunto ribaltamento dei poteri indotto dalla transizione dal mondo industriale a quello digitale. È un ricorso storico, l’alternanza tra periodi contrassegnati da un dominio delle tecnologie di controllo dell’energia, culminate nel ‘900 col nucleare, e periodi in cui dominano le tecnologie della conoscenza (scrittura, alfabeto, stampa, telecomunicazioni... e nell’ultimo periodo computer, web, mobile, realtà aumentata, internet delle cose...).
È altrettanto evidente che questi cambiamenti hanno un peso determinante nella formazione sia della ricchezza economica, sia del potere politico. Contemporaneamente, non sfugge a nessuno il fatto che le posizioni consolidate in una certa fase, possono costituire un vantaggio per chi le detiene anche nella fase successiva, specie se le élite coinvolte hanno una visione abbastanza ampia per comprendere e governare la transizione. Considerazioni del genere accompagnano la lunga storia del capitalismo nelle sue varie fasi.
Epistemologia del potere
Da un lato appare chiaro che senza forza non c’è potere, dall’altro emerge che i sistemi di forza possono essere svuotati da un cambiamento di codici. L’esempio del transistor (2) è una metafora semplice: la generazione di segnali 0 e 1 è possibile solo se il diodo è sottoposto a una differenza di potenziale (energia – forza), ma contemporaneamente quell’energia sarebbe completamente vana se non esistesse un codice binario che la trasforma in informazione.
Il potere della forza e il potere dei codici non possono prescindere l’uno dall’altro. Il digitale apre a nuove chiavi di forza e a nuovi codici del potere: i “dati”.
Questa transizione tuttavia può essere letta in modi diversi. La visione prevalente sconta tutti i bias del paradigma preesistente, e considera i dati la nuova struttura della conoscenza, mentre sarebbe molto più proficua un’interpretazione in cui i flussi di dati non sono flussi di sapere, ma flussi di forza.
Qui sta il salto epistemico del digitale, in genere non colto: considerare i dati come corrispondenti a fatti inequivoci e costitutivi di un’informazione definibile come “sapere”, significa non riconoscere che la nuova realtà non è una realtà di fatti, ma direttamente una realtà di dati; rispetto alla quale si pone la possibilità di nuovi codici di senso. Nel nuovo mondo l’energia e la materia diventano strategicamente ed economicamente irrilevanti, perché sono disponibili e orientabili dai dati. Il rapporto stretto tra ricchezza in dati e ricchezza finanziaria testimonia già la nuova condizione della ricchezza globale, e suggerisce (anzi richiede) importanti sviluppi sia in termini di opportunità, sia di governance.
Se si rimane fermi alla vecchia realtà dei fatti, e si considerano i dati fonti di conoscenza, si cercherà, come già si sta facendo, di generare dai dati stessi, attraverso l’utilizzo di algoritmi di correlazione, una conoscenza costituita da regole applicabili al mondo dei fatti: in pratica, un metodo automatico di produzione di teorie. Tuttavia, questa scelta è destinata a essere insostenibile e a generare fallimenti, perché i dati non sono sapere e l’informazione non è conoscenza. Il dato è sempre ambiguo, il suo significato è sempre contestuale, la conoscenza è sempre situata, e quindi trarre regole dai dati, equivale a creare un potere cieco, un circuito di regole senza senso che tende a perpetuare se stesso (3).
D’altronde, vale la pena di ricordare che le cosiddette scienze della complessità, emerse con forza crescente e in vari contesti lungo tutto il secolo scorso e oggi entrate in una maturità consapevole, non fanno che mostrare una convergenza tra diversi sviluppi di pensiero, quello scientifico in testa, verso modelli che, senza smentire il riduzionismo, lo inquadrino in una dimensione più ampia. Abbiamo vissuto in una cultura che, per ricercare certezze e capacità previsionali, tende a definire sistemi chiusi, indisturbati, che si possano definire con un numero discreto di ipotesi, e di cui si conoscano le leggi regolatrici. Teniamo il caos fuori, e generiamo necessità. Crediamo di leggere la realtà con i dati, e li usiamo per creare regole. Nessuno crede più all’universo di Laplace, ma si pensa di poterlo riprodurre in piccola scala. Così funzionano le macchine: sono sistemi caratterizzati dalla regolarità del loro funzionamento, o almeno dalla sua controllabilità, il che richiede perfetto isolamento logico – oltre che fisico - dall’ambiente esterno. Così si pensa funzionino anche i sistemi economici. Un certo input genera un certo output, secondo schemi predeterminati. Così si è sperato di interpretare anche il funzionamento dei sistemi viventi, che si è rivelato uno dei campi critici per il riduzionismo.
Entanglement
Oggi emerge una maggior sensibilità verso una realtà fatta non di entità isolate, ma di interconnessioni illimitate, non analizzabili con modelli costruiti con un numero finito di variabili. La parola, ripresa dal mondo della fisica elementare, che esprime bene questa nuova situazione, è “entanglement”. Il sapere non nasce dal dato, o da moltissimi dati, ma dall’entanglement, dall’immersione del dato in un sistema complesso, di cui i codici degli algoritmi (sia quelli che generano dati, sia quelli che li interpretano), non fanno altro che costituire sovrascritture.
In un mondo lineare, oggetti, soggetti e dati sono catalogati secondo logiche di appartenenza, in mondo complesso le appartenenze sono multiple, e ciò che interessa è la fitness, la possibilità di connessione.
Questo cambia drasticamente i termini di valutazione economica: non sono sistemi chiusi in grado di concentrare molte risorse a risultare vincenti, ma sistemi aperti e leggeri, in grado di intercettare e utilizzare energie e informazioni esterne, senza avere l’onere di possederle. Si passa dal modello macchina, creazione del pensiero riduzionista, al modello vela: mentre un motore richiede l’immissione di combustibile, innescando un complesso ciclo che interferisce con l’ambiente, la vela raccoglie l’energia dall’ambiente circostante senza modificarlo.
Altra grande differenza è il carattere deterministico impresso ai processi in ambiente chiuso, cui corrisponde il carattere non deterministico dei processi in ambiente aperto: è un aspetto importante, al centro del cosiddetto paradosso della produttività, rappresentato dalla mancanza di corrispondenza tra l’efficacia di un sistema e l’efficienza delle sue parti; anzi, spesso le due cose sono in contrasto.
Omologo al modello vela è il modello del vivente, che si auto-produce, si evolve e si differenzia per generazione organica, attraverso il continuo accoppiamento strutturale con l’ambiente, e non secondo programmi predeterminati. I sistemi di codici, compresi quelli genetici, come anche quelli informatici, creano conoscenza quando si combinano con altri sistemi che incontrano nell’ambiente, fino a generare situazioni di equilibrio come quelle che denotano gli ecosistemi. Se invece sono assunti come chiavi generali della realtà, si rivelano intrinsecamente insostenibili.
Cultura
Nella società, la connessione genera nuova conoscenza attraverso la connessione di informazioni resa possibile da chiavi di relazioni fornite da “piattaforme” che si sono generate storicamente, e la cui forza deriva da visione diacronica, inclusione sincretica, molteplicità e diversità delle fonti, e ricchezza linguistica (complessità del codice relazionale): piattaforme che corrispondono a quanto chiamiamo cultura, individuale o collettiva (domani forse anche trans-umana). La cultura contiene le chiavi interpretative che consentono la moltiplicazione dei significati dei dati, un processo che potremmo definire di innovazione organica.
Trarre significati dai dati equivale a riconoscere trame dalle tracce che i dati costituiscono (4), e rivelarle al sistema sociale che li potrà riconoscere e adottare come simboli (processo di engagement) (5). I simboli sono gli elementi dei sistemi valoriali in cui gli agenti sociali, individui o gruppi, credono, e secondo i quali orientano i loro comportamenti sociali ed economici. Impossessarsi dei simboli e soprattutto del processo di engagement è una chiave di potere - religioso, politico ed economico - e se ne può ripercorrere la storia lungo i secoli. Nel paradigma industriale possiamo riconoscerla nella pubblicità, in quello digitale nel controllo dei dati generati dai singoli soggetti nella rete.
Scholè
In una società libera i simboli non sono generati da dispositivi predeterminati, ma emergono dalla condizione naturale in cui l'anelito umano per cercare risposte alle sue meraviglie trova la sua realizzazione (6). È quanto gli antichi greci chiamavano scholè e i latini otium, ed è un segno di vera libertà, disponibile a tutti gli umani. Tuttavia, come sappiamo dal mito della caverna di Platone, e da altri testi sapienziali e filosofici, senza contare il supporto più recente dalle scienze cognitive, la nostra psiche trova comodo e anche godibile rifugiarsi in gabbie epistemiche, entro le quali determinate serie di azioni diventano necessarie.
L’appropriazione e la deformazione dei sistemi simbolici diventano quindi la regola del cattivo potere, come già ricordava Aristotele. E lo stesso filosofo ci dice che le repubbliche prive di scholè sono destinate al collasso; anche qui gli esempi storici sono numerosi, e ancora oggi possiamo confermarlo. Quando un sistema basato su un determinato “dispositivo”(7) arriva a fine ciclo, le componenti e i processi culturali, sociali, economici che formano il sistema, si aggrovigliano in una ”matassa” che blocca il cambiamento, anche quando la direzione da dare a quest’ultimo appare con buona evidenza.
La “svolta paleolitica”
Prendiamo l’attuale passaggio dal paradigma industriale a quello digitale. Corrisponde alla crisi delle istituzioni, private e pubbliche, che si sono sviluppate nel periodo, lungo, che possiamo definire del trionfo del riduzionismo. Oggi infatti una serie di pilastri del sistema che conosciamo è minato alle fondamenta, e la transizione coglie la maggior parte degli agenti sociali ed economici impreparati, anche se apre interessantissime prospettive.
Una sintesi brillante descrive questo shock come “svolta paleolitica”, la fine di un ciclo iniziato con l’adozione dell’agricoltura, l’inurbamento e la nascita delle istituzioni (8). L’antropologia dell’uomo digitale fuoriesce da tutto questo, e trova nel cacciatore paleolitico una metafora molto più convincente che non nell’agricoltore, poi operaio, degli ultimi diecimila anni.
L’agricoltore è legato alla terra, l’industriale è legato agli investimenti fissi. L’uomo digitale invece approfitta della tecnologia pervasiva, che è ubiqua e mobile, come la vela che approfitta del vento giusto; è nomade, viaggia leggero, usa le risorse che trova, non le accumula. Non si avvantaggia, come gli imperi del passato, di espansioni territoriali e grandi crescite demografiche. Come il cacciatore paleolitico, non può permettersi molti figli, solo quelli in grado di accompagnarlo.
Questa metafora ci offre uno sguardo intrusivo e profondo sulla trasformazione del capitalismo che ci dobbiamo attendere.
Trasformazione del capitalismo
Quello che conosciamo, e che sta finendo, applica il modello macchina e tende a confinare i processi produttivi dentro sistemi chiusi, che riducono i costi di transazione con l’organizzazione (9) e i costi di esecuzione con l’efficienza. Impiega (o impiegava) i capitali per dotare l’organizzazione di mezzi di produzione e di lavoratori stipendiati. Nell’ultimo mezzo secolo queste organizzazioni sono diventate molto complesse rispetto ai processi tayloristici da cui avevano preso le mosse, e hanno reagito alla complessità del mondo esterno cercando di rendere i loro prodotti (sempre più svalutati) portatori di elementi simbolici (branding), o di insinuare nei loro clienti potenziali dei valori simbolici cui avessero potuto rispondere (marketing, comunicazione, advertising): sviluppi che hanno messo in evidenza come l’economia sia mossa sempre meno dall’asse produzione-consumo, e sempre più dall’intangibile, dall’emozionale, dall’inaspettato. Sono sviluppi che hanno permesso a chi li ha percorsi di diventare leader di settore, mentre chi continuava a cercare competitività sui costi si delocalizzava in paesi sempre più poveri, fino a quando (oggi) le tecnologie pervasive e il digitale rendono queste manovre perfettamente inutili.
Altri hanno operato sull’offerta, arricchendola e aggiornandola grazie all’innovazione. La focalizzazione sull’innovazione, mentre ha portato a spostare molto in alto e in avanti le prestazioni di prodotti e servizi, ha reso evidente che i processi cognitivi non si alimentano dentro le organizzazioni, ma al loro bordo, contaminandosi con intelligenze e culture esterne.
I processi di innovazione hanno portato anche alla creazione delle tecnologie digitali e pervasive che hanno reso obsolete le organizzazioni aziendali e inutilmente costosi i loro processi, e hanno drasticamente svalutato i loro investimenti fissi. Se il capitalismo rimanesse all’interno del dispositivo industriale, la sua fine sarebbe segnata. Ma da tempo il capitalismo è diventato finanziario, e può spostarsi agevolmente da un mondo a un altro.
Nulla di strano quindi se il valore finanziario delle imprese si è spostato dalle organizzazioni con vaste risorse interne ai poli di attrazione di fonti cognitive e valoriali esterne. Le piattaforme del web di maggior successo ne sono un esempio, ma sarebbe fuorviante pensare che il modello valga solo per il web. I poli di attrazione hanno la funzione di ridurre non i costi di transizione, ma i costi di emersione dei pattern destinati a informare i sistemi simbolici della società. I capitali non saranno impiegati per acquisire risorse, ma per diffondere le tecnologie che abilitano la concentrazione su piattaforme intelligenti degli input provenienti dalle reti: reti di reti, in cui confluiscono sistemi di saperi, sistemi di valori, e sistemi d’opera.
I sistemi aperti emergenti sembrano dunque assumere la tipologia della piattaforma. La piattaforma raccoglie le energie, i saperi e i valori di un numero teoricamente infinito di soggetti intorno a una polarità che possiede un’identità. Identità senza confini sembra un concetto generale applicabile alle piattaforme. Convergono verso la tipologia della piattaforma le imprese, i territori, le comunità, le scuole, i sistemi finanziari; di converso, ogni piattaforma non può non assumere più funzioni insieme, forse tutte queste. Persone e cose sono sempre più multiappartenenti, le loro identità smettono di essere esclusive.
Impatto della trasformazione
Possiamo ipotizzare come questa trasformazione impatti su alcuni aspetti di particolare rilevanza. L’inclusione sociale fu garantita dalla Seconda Rivoluzione Industriale attraverso l’efficienza dei processi (maggiori salari e minori costi dei prodotti consentirono l’accesso al consumo di più ampi strati sociali). Nell’economia digitale, la prospettiva sembra essere quella di un accesso al consumo permesso dalla riduzione a zero dei costi dei prodotti, e dalla corrispondente abolizione del lavoro nelle forme procedurate che conosciamo.
Il welfare è pagato, nel mondo industriale, dalle tasse gestite da un potere pubblico, e tratte da una ricchezza generata dalla produzione di beni e servizi. Nel nuovo paradigma, anche il welfare è gratuito, grazie al funzionamento della cosiddetta sharing economy. Peraltro, le costituenti del welfare cambieranno, perché la definizione dei bisogni nel paradigma industriale è top-down, condivisa a livello dello stato, e spesso ideologica, anche se influenzata dalle dinamiche della democrazia. Nel digitale, la definizione dei bisogni è bottom-up ed estremamente personalizzata, anche se può portare alla aggregazione di community che condividono determinati valori o interessi.
La stessa democrazia, che oggi passa attraverso scelte tra posizioni predefinite e canalizzate nella funzione pubblica, tenderà a esprimersi nella forma di valori comunitari, da concretarsi in usi civici e beni comuni (10). Di nuovo dobbiamo rilevare che il passaggio al digitale, demolendo una serie di intermediazioni storiche, mette in evidenza soprattutto la fine di un dispositivo sviluppatosi nel tempo, e ora in procinto di collassare; lasciando quindi spazio anche alla riemersione di modelli e istituzioni rilevanti in un lontano passato, ma scomparsi da tempo.
Transizione
Nel passaggio dal paradigma industriale a quello digitale, si è creato uno iato in cui le istituzioni, private e pubbliche, che costituiscono il “dispositivo industriale” vedono scomparire il proprio significato, o sono poste di fronte a trasformazioni radicali nei modi di conferire senso e valore ai rispettivi processi, ma continuano ad aggrovigliare la matassa, e nello stesso tempo non riescono più a dare a persone, gruppi e patrimoni le sistemazioni prima consolidate, abbandonandole alla ricerca di ruoli in un nuovo contesto ancora in fase gassosa.
Oggi anche la scuola, compresa l’università, è parte di questa matassa, mentre dovrebbe essere la sede principale dei processi che determinano i dispositivi, anziché esserne determinata.
La rinuncia, avvenuta in modo graduale, della scuola a essere luogo dell’intelligenza e della creatività collettiva, e il suo accomodarsi in una zona confortevole del sistema costruito intorno al dispositivo industriale, è stata giustificata da una Weltanschauung in cui la conoscenza era conoscenza di oggetti, di fatti presunti come universalmente condivisibili e classificabili in silos disciplinari e settoriali, di fronte ai quali era possibile stabilire un sistema di discipline “competenti” in grado di fornire un’interpretazione oggettiva e universale della realtà. Questo è stato il fondamento inequivocabile del dispositivo industriale e del suo schema di proprietà, produzione e consumo.
La vistosa incrinatura di questo sistema, partita proprio dal mondo scientifico e poi propagatasi nella tecnologia, nell’economia, nella finanza e nelle istituzioni, dimostra il ruolo fondamentale di un luogo di governo libero e generativo, che riassumiamo nel concetto di scholè, per evitare la problematiche che sperimentiamo oggi, come in altri periodi di “fine ciclo”, e mantenere viva e vitale una società, rigenerandone i saperi e tessendo la trama di una realtà da rimappare: un luogo quindi non solo generativo di conoscenza, ma anche centrale per un’idea alta della politica.
Dipanare la matassa
Si pone quindi il problema di comprendere come accompagnare la transizione. Alcuni capi della matassa possono aiutare a far partire un ripensamento.
- La cultura. - È finita l’idea della cultura come ciò che si consuma nel tempo libero o che può permettersi qualche élite, per riaffermare con Bauman (11) che la cultura nasce dalla storia stessa delle scelte umane, ed è il terreno da cui emergono le chiavi di “connessione”.
- L’economia. - È necessario passare da un’idea riduzionista dell’economia, non sostenibile, a un’economia consapevole del processo cognitivo e vitale che la alimenta, basato sulla “connessione”, e quindi sulla massima apertura degli agenti economici.
- La società. - Privata delle vecchie intermediazioni (culturali, sociali, economiche, politiche), scosse alle fondamenta dalla disruption provocata dalla tecnologia, la società si riorganizza in reti, formando comunità che diventano le costituenti della nuova economia: reti di conoscenze, di capacità realizzative, di capitali, e soprattutto di valori, motori della domanda e quindi dell’economia. Le loro dinamiche ridefiniscono i modelli dell’impresa, del lavoro e del welfare. L’ingresso e la partecipazione di persone, gruppi e imprese nelle comunità sono governati da un processo di engagement, in cui nuovi pattern emergenti sono riconosciuti e condivisi da gruppi sociali come simboli valoriali, spesso a fianco di quelli ereditati dal passato.
- I territori. - Non sono più una variabile indipendente ed estetica nel rapporto tra cultura, economia e società, ma direttamente soggettività politica, cioè momento essenziale della formazione e della identità economica, sociale e culturale di intere comunità e di un insieme articolato e complesso di interessi comuni, o meglio di beni comuni (12). Una definizione di “territorio” (geografico o di altro tipo) come riferimento di piattaforme generatrici di dati e di senso, permette di imbastire una ricerca sul collegamento tra patrimonio territoriale e produzione di ricchezza, attraverso sia l’abilitazione di dinamiche imprenditoriali, sia l’incremento patrimoniale dell’ecosistema.
- La scuola – La scuola passa in questo schema da condizione necessaria dello sviluppo economico, attuato prevalentemente altrove come oggi, a centro vitale e propulsivo dello stesso. Se la scuola smette di considerare i saperi come dati, e li considera invece come processi, diventa il luogo della “connessione” e assume la missione di generazione di nuova conoscenza; anche l’insegnamento diventa un “di cui” di questo percorso, così come la cosiddetta terza missione (trasferimento dei risultati della ricerca al mondo imprenditoriale), attraverso cantieri collaborativi aperti e liberi dai vincoli gerarchici delle organizzazioni classiche (13). La scuola ha anche la missione di liberare il potenziale dei saperi taciti dei singoli, dei gruppi, delle comunità, nei contesti culturali e territoriali. La scuola si pone quindi al centro della piattaforma territoriale, con un ruolo di regia, intelligence, design, misura degli indicatori e rating dei sistemi. Ne consegue un ripensamento dei sistemi formativi, diminuendo il ruolo del trasferimento di conoscenze acquisite e aumentando il ruolo del design nell’ordinamento di territori, saperi, sistemi creativi.
Una considerazione generale da porre alla base del tema riguarda i tempi e i luoghi della transizione. La transizione non sarà veloce, né sarà uniforme. Le grandi istituzioni, sia pubbliche sia private difficilmente si pongono come pionieri del cambiamento, sia per la prevalenza dell’ottica a breve termine, ancor più forte nelle democrazie, sia per le responsabilità che hanno verso la maggior parte della persone che da esse dipendono, in genere timorose di cambiamenti cui non si sentono preparate. Ancor più illusorio è attendersi rivoluzioni, destinate a non incidere in profondità e a far rinascere condizioni ancora più ostili al cambiamento. Sembra probabile aspettarsi una lenta obsolescenza dei vecchi sistemi, punteggiata tuttavia da “catastrofi” – in senso matematico – locali di varia entità, mentre il nuovo, come la storia insegna, ha più probabilità di emergere in contesti particolari e inizialmente del tutto minoritari, in cui avanguardia culturale e resilienza sociale tendono a incontrarsi. Gli esempi sono molteplici, dai monasteri dell’Alto Medioevo ai circoli umanistici dei secoli XIV e XV, fino ai garage della Silicon Valley di fine ‘900.
Sono esempi in cui il senso della scholè emerge in tutta la sua importanza. Se il passaggio dal paradigma industriale a quello digitale mette in luce la fragilità di una res publica senza scholè, evidenzia anche l’urgenza di dotarsene.
Da qui parte la proposta di Diotima Society di una “scuola di connessione”, o C-School, in cui praticare lo spirito della scholè. La fondazione in diversi territori di “Atelier” che si affiancano alle istituzioni esistenti, permette la valorizzazione delle risorse nelle nuove reti, e il loro accompagnamento lungo un processo di rigenerazione, partendo da una Nuova Mappa dei territori, fisici e virtuali, e dei loro patrimoni. La Nuova Mappa parte dalla complessità della scena urbana, delle interazioni umane, del senso dei nuovi codici digitali e di quelli precedenti, delle nuove economie generabili in sostituzione di altre in fase di estinzione, della bellezza, del benessere, della cultura, della progettualità: quali territori, quali città, quali sogni dei loro abitanti, quali patrimoni su cui fondare nuovi percorsi?
La condizione europea come opportunità globale
Lo scenario dell’Europa è caratterizzato dalla precoce smaterializzazione dell’economia e dal decremento demografico. Le proiezioni lineari, ancora oggi dominanti, portano per questo a giudizi sull’Europa in termini di “declino”. La realtà che si prospetta è diversa, sia per i limiti delle estrapolazioni lineari rispetto a sistemi complessi e privi di modelli interpretativi adeguati, sia per l’effetto che ha su tali previsioni la “disruption”: per cui insistere su schemi obsoleti e svianti di misurazione dello sviluppo porta a crisi dovute solo a rigidità culturale.
Le regioni e le città europee hanno proprio nel netto declino demografico, combinato al loro superiore patrimonio, la grande opportunità (che è anche una grande responsabilità) di sospendere le politiche indotte dai vecchi schemi, di ripensare le proprie funzioni e di aprire nuove prospettive, basate su una maggiore consapevolezza (14).
Nuovi ruoli, nuove missioni, nuove opportunità
Si apre oggi un enorme spazio per istituzioni esistenti o nuove, tra cui in primo piano il terzo settore, che ha veramente la chance di diventare il primo, se assume su di sé il compito di coordinamento - o di definizione di scenari - per coinvolgere, caso per caso, competenze altamente qualificate con lo scopo di accompagnare il governo delle trasformazioni socioeconomiche per alcuni aspetti ineludibili, ma ancora non percepite come tali.
Nelle logiche tradizionali il terzo settore, in particolare le fondazioni, hanno operato come soggetti elitari e sostanzialmente marginali ai quali la politica concedeva contributi per la gestione di eventi culturali o di generale interesse pubblico. Se le fondazioni erano quindi una nicchia marginale di recupero di valori collettivi, oggi possono occupare il vuoto che si è aperto con le disintermediazione, visto che quel vuoto (anche se indubbiamente aperto verso lo sviluppo e l’innovazione) tra Stato, Istituzioni pubbliche e le rappresentanze sociali, rischia comunque di determinare il collasso di ciò che tiene insieme una società. In altri termini, le fondazioni possono oggi essere soggetti di reintermediazione tra soggetti e processi altrimenti incapaci di vedere ciò che si prospetta nel passaggio dalla vecchia alla nuova realtà, e quindi attori di una rappresentatività diffusiva e relazionale. La C- School può rappresentare una nuova possibilità di intercettare saperi, processi e iniziative da ricomporre in un design sistemico, permettendo ai molti soggetti che operano e danno identità al proprio territorio di ritrovare opportunità, prospettive, remunerazione e libertà di concretizzare i propri sogni. Di certo non è solo questione tecnologica, ma di approccio e di visione della realtà stessa, quindi questione politica.
- Durante l’incontro “C-School: Via europea all’innovazione di sistema”, svoltosi il 29 novembre 2016 alla Triennale di Milano, in seguito a una domanda di Piero Bassetti cui ha risposto Roberto Masiero
- Esempio utilizzato da Piero Bassetti in una conversazione con me, successiva all’incontro di cui alla nota (1)
- Interessante il confronto con quanto narrato da Francesco Varanini nel suo “Macchine per pensare - L’informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi”, Guerini, 2015
- “From tracks to patterns” è un concetto espresso da Serge Salat, di cui vedi anche “Cities and Forms: on Sustainable Urbanism”, Hermann, 2011
- Il processo di engagement parte dalla consapevolezza del nuovo, passa per l’informazione e arriva alla prova ed eventualmente all’adozione dell’innovazione, per giungere spesso al proselitismo.
- Kostas Kalimtzis, Aristotle on Schole and Nous as a Way of Life, in http://www.ihnpan.waw.pl/wp-content/uploads/2014/10/3_kalimtzis.pdf
- Gilles Deleuze, “Che cos’è un dispositivo?”, 1989, trad.it. Cronopio, 2007
- Autori vari, “Paleolithic Turn”, Pleistocity Press, 2015
- Ronald H. Coase, “The Nature of the Firm”, in Economica 4, 1937
- Paolo Grossi, “Usi civici: una storia vivente”, 2008, in www.jus.unitn.it/download/usi_civici/notiziario/20080129_122707-grossi-2.doc
- Zygmunt Bauman, “Nascono sui confini le nuove identità”, Corriere della Sera, 24 maggio 2009
- Aldo Bonomi, Federico Della Puppa e Roberto Masiero, “La società circolare”, Derive Approdi, 2016
- Caso Kloeckner in “How a steel company embraced digital disruption”, McKinsey Quarterly, May 2016
- Paolo Zanenga, “Connecting Polis Europa”, in “Polis Europa”, Eurac Research, 2016
Paolo Zanenga, Presidente Diotima Society
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