Le aziende di consulenza: come trovare un equilibrio tra il mondo feroce della competitività e i valori basilari della vita
Nel 2012, qui in Italia, nasce la Fondazione EY Italia Onlus. Segue un modello di network internazionale o è un’iniziativa dell'area Italia/Mediterraneo di cui lei si occupa?
Ci sono altre fondazioni in giro per il mondo – come ad esempio negli Stati Uniti e in Australia – ma Fondazione EY Italia Onlus nasce come iniziativa italiana per parlare solo dell'Italia, Paese che nel mondo EY occupa 3.600 persone che fatturano circa mezzo miliardo di euro.
Quali le caratteristiche della vostra azienda di consulenza?
Come industry, tipo di business, abbiamo un altissimo turn-over nelle persone. Assumiamo ogni anno circa 850 persone e 700 escono. Siamo un bacino di produzione di classe dirigente.
Elevato turn over perché la vostra è una professione che «consuma»?
Perché è un business basato sulla capacità di attrarre le migliori competenze e risorse dall'università, che porta a fare un training molto spinto, molto pesante (sia training di aula che job). Il processo fa crescere le persone più velocemente che in un’impresa. In questo modo hanno l’opportunità di divenire dirigenti in cinque o sei anni, mentre nel mondo industriale questo risultato si raggiunge in almeno il doppio del tempo. Con il nostro metodo le persone crescono professionalmente molto più rapidamente, sia per il tipo di formazione, sia per la varietà e intensità delle esperienze che fanno. Lavorano tanto e con tanto impegno.
In sostanza noi viviamo di giovani. Il business è fondato sui migliori, quelli più fortunati - o perché sono più intelligenti, o perché hanno fatto un tipo particolare di università - e spesso è un mix dei due aspetti. Quindi: ottime università e ottimi ragazzi. Ci siamo quindi posti il problema di restituire qualcosa ai giovani meno fortunati.
Come restituite opportunità alla comunità?
Abbiamo sostenuto per esempio un progetto della Fondazione Don Carlo Gnocchi Onlus per il Centro Vismara di Gratosoglio, nella periferia sud di Milano, che ha realizzato un laboratorio di forme educative destinato a giovani con un problema di drop-out. Si tratta cioè di ragazzi che abbandonano la scuola perché hanno un disagio in famiglia, contesto in cui la Fondazione interviene.
Un altro tipo di progetto in cui siamo intervenuti è quello dell’Azienda Ospedaliera Fatebenefratelli e Oftalmico di Milano in favore di bambini che vivono un disagio dovuto alla malattia, attraverso «Spazio Fondazione EY» che – anche in questo caso - tramite lo sport, mirerà alla riabilitazione di questi bambini.
Inoltre, sempre nei confronti di giovani che hanno vissuto un disagio, finanziamo da quattro anni un progetto realizzato dalla Fondazione Francesca Rava N.P.H. Onlus ad Haiti «Francisville: la Città dei Mestieri» in cui ai ragazzi viene insegnato un mestiere. Ci occupiamo anche della formazione manageriale di alcuni giovani che dall’isola vengono nei nostri uffici a Milano e nostra volta mandiamo delle nostre persone ad Haiti per visionare quanto è stato realizzato. Non si tratta quindi solo di charity, ma di una collaborazione sinergica.
Questa è la linea d'intervento che vi caratterizza nell’intervento o agite anche con grant?
La nostra strategia è chiara: intervenire con finanziamenti verso giovani che vivono situazioni di disagio, coinvolgendo le nostre persone.
Cultura d’impresa quindi. Con progetti di volontariato da portare avanti oltre l’orario d'ufficio?
È un mix: abbiamo sia progetti che si sviluppano durante l’orario di ufficio – ad esempio l’iniziativa di Haiti- sia nel tempo libero. Vogliamo che ci sia un impegno su più fronti
Però avete sentito l'esigenza di costituire un veicolo giuridico dedicato, con una sua governance e non solo come espressione della CSR dell’impresa.
Esattamente. L'idea è, dopo la spinta iniziale, di strutturarla con delle persone esterne a EY, dandole quindi una vita autonoma.
Per il momento il funzionamento organizzativo dipende dalla casa madre?
Oggi dipende molto dalla casa madre, in termini di supporto organizzativo. La governance è già separata. L’idea è completare il distacco dando vita ad una fondazione autonoma che avrà da EY i fondi per la sua partecipazione quando sarà necessario.
Oggi ha un fondo di dotazione e un fondo di gestione?
Un fondo di dotazione, un fondo di gestione e ha ovviamente ogni anno delle contribuzioni.
Delle contribuzioni sul business? In che percentuale? È quantificabile?
No, ma ogni anno riattiviamo il fondo e facciamo attività di fund-raising.
Ad esempio abbiamo finanziato la Fondazione Don Gnocchi con una serata di grande successo al Teatro alla Scala. Era la nostra prima volta e abbiamo coinvolto 1.950 persone, raccogliendo 200.000 euro. Il prossimo 25 marzo replicheremo l’iniziativa milanese e ne seguiranno altre in diverse città italiane. Ogni iniziativa si focalizza verso un progetto preciso, a cui va la somma totale raccolta. Ci teniamo molto che sia così e coinvolgiamo le organizzazioni con cui collaboriamo in tutto il processo così che possano verificare in totale trasparenza.
Trasparenza ed empowerment. In questo modo avete fatto crescere la capacità di attivare metodologicamente il fund-raising.
Nel caso della serata scaligera l’operazione è stata condotta con le Accademie di Ballo della Scala, del Bolshoi e dell'Opéra di Parigi. Uno spettacolo per il quale abbiamo pagato la sala e le spese. Questo è un filone, ma vogliamo andare avanti, vogliamo farne di più.
I progetti della Fondazione sono sostenuti anche grazie ad un'orchestra giovanile da noi finanziata, la Young Talents Orchestra EY, che si è già esibita in diversi luoghi (Milano, Roma, Brescia..) e diretta da Carlo Rizzari, il vice del Maestro Pappano al Santa Cecilia di Roma. In questo contesto, ogni anno, offriamo una master class ai ragazzi che si sono diplomati e selezionati tramite un concorso pubblico.
Un progetto costruito solamente da voi?
Costruito da EY, con un nostro team e alcuni artisti, Carlo Rizzari, e gli insegnanti di strumento. Ci ha molto migliorati lavorare a questo progetto.
Perché la musica? E’ una sua passione personale?
L'orchestra, nel suonare bene all'unisono, ha similitudini con aziende come la nostra, fa riferimento alla forza del team. L’intera formazione di ognuno di noi sembra essere quella di un solista all’interno di un'orchestra, che fa riferimento ad un suono superiore al proprio strumento. È anche vero che sono un appassionato di musica classica, ma questo non c'entra.
Quindi c'è un'osmosi con la cultura d'impresa, una condivisione valoriale.
Assolutamente sì. I giovani dell’orchestra sono, di nuovo, svantaggiati perché purtroppo la musica in questo Paese non è favorita. Noi interveniamo su loro bisogno permettendo di esprimere il loro talento nella musica e consentendo loro di trovare opportunità di lavoro.
E avete anche una linea di intervento sul settore non-profit in termini di formazione...
Esatto. Si tratta di master attivi, gratuiti, per persone che operano nel non-profit. Siamo arrivati ai temi dei master tramite dei tavoli di lavoro che abbiamo fatto l'anno scorso con tutto il mondo del non-profit (fondazioni, associazioni, ONG), culminati con un evento pubblico, che ripetiamo ogni anno: un incontro annuale del non-profit e terzo settore, in cui si discute della sua evoluzione, delle sue esigenze in termini professionali. Identificate le esigenze, lanciamo una master class, facciamo un master, una formazione in aula.
Selezionate i soggetti?
No, noi selezioniamo con le organizzazioni i temi. Poi arrivano le candidature. Fin qui siamo riusciti a soddisfare tutti, il numero era molto consistente, con classi di 20, 30 persone su temi di gestione, fiscali...
Voi avete business nel non-profit? Fate consulenza al terzo settore?
No, oggi no. Diciamo che siamo coinvolti incidentalmente su alcune fondazioni perché ne seguiamo il gruppo. Ma non è una nostra linea di business. Siamo stati, non solo accolti bene, ma anche invocati. abbiamo avviato una nuova collaborazione con l’Associazione Amici di Cometa Onlus e li ho visto una grande produttività, ma anche un grande interesse per quello che stiamo facendo. Sentiamo una sintonia, perché è pulito il messaggio, è pulito il dialogo...
Come si dice in Piemonte, una «beneficenza non pelosa».
Sì, e questo è percepito, perché quando è chiaro quello che devi fare, quello che non chiedi, alla fine funziona. Questa Associazione ci piace molto; si preoccupa dei bambini e dei giovani, e famiglie che vivono situazioni di fragilità. Donano loro un contesto in cui trovare il calore di una casa ed insegnano loro un mestiere con una scuola che ha corsi per falegnami, per designer. Ci affascina molto, perché è un segno sano, di grande civiltà.
Dialogate con altre realtà?
Siamo associati a Vita e Fondazione Sodalitas e dialoghiamo con più di 300 realtà con incontri e tavoli di approfondimento. Più ci confrontiamo e più comprendiamo che le nuove generazioni dei nostri collaboratori considerano il coinvolgimento sociale come un elemento importante di valutazione del luogo in cui lavorano. Non basta una rivista patinata sulla social responsibility, ma occorrono progetti veri, a cui addirittura poi il personale possa partecipare. Un approccio che fa la differenza rispetto a promesse vaghe.
Questo è, secondo me, il modo migliore per ottenere engagement, per fare in modo che le persone siano coinvolte nei nostri valori, nella nostra missione. È un fattore potente, imprescindibile soprattutto per i giovani. Questo fa ben sperare per il futuro, perché stanno arrivando delle generazioni molto più sane di quanto non fosse la nostra.
Quindi se si è scelti è anche in base ad una aderenza valoriale.
Esattamente. Quando noi cerchiamo di portarci a casa i migliori - quelli che si sono laureati brillantemente o che mostrano una particolare potenzialità durante i colloqui - una delle domande più frequenti che ci pongono è: «Che cosa restituiremo noi alla community nel caso venissimo con voi?». Il mondo è cambiato molto velocemente, lo vedo anche dalla risposta nei confronti dei nostri progetti.
È una bella sfida, perché il mondo delle consulenze è considerato tra i più feroci in termini di competitività e quindi, riuscire a compensare l'aggressività che porta al risultato...
Può darsi che abbiamo un gran senso di colpa di cui ci vogliamo disfare.
Può darsi anche che si possano raggiungere risultati magari anche senza sbranarsi.
E questo è quello che stiamo cercando di raggiungere. E stiamo ricevendo davvero moltissimo. Lo dico con grande sincerità. Vedere in modo diretto la sofferenza, soprattutto dei bambini, riporta ad una realtà immediata, ai valori veri della vita, fa abbassare la pressione del sangue, come per uno shock. Si sa che è importante superare un concorrente, ma quando si vedono dei bambini e giovani che soffrono immediatamente il colpo riporta in equilibrio. Non è una questione banale. Oggi in un mondo virtuale, molte persone perdono il senso delle cose che contano.
Come qualità della relazione.
Sì, per esempio. La comunicazione virtuale sta rendendo le persone molto più sole e soprattutto molto più disorientate.
Quanto investite ogni anno?
La nostra idea è di arrivare ad un paio di milioni di euro. Con il fund-raising, nel primo anno, siamo giunti a circa 4-500.000 euro. Però vogliamo arrivare a due milioni.
Ci sono anche investimenti da parte di vostre persone...
Ci stiamo aprendo adesso a contribuzioni e vorremmo ampliare la collaborazione con altre fondazioni. In Italia ognuno vuol fare la sua piccola cosa. esistono tanti piccoli progetti che però non hanno impatto. Per avere impatto bisogna mettere insieme più forze.
Ad esempio, noi non interveniamo nell’ambito della realizzazione dei progetti con cui collaboriamo, siamo sempre in compagnia di qualcun’altro che si è specializzato.
Sono progetti di terzi che sostenete.
Esatto. Siamo sempre alla ricerca di nuove collaborazioni, e vorrei come passaggio successivo, entrare in contatto con altre fondazioni d'impresa, per fare un grande progetto di impatto.
Se dovessimo passare poi a discorsi di policy e di politics, potremmo dire anche che con le singole azioni si possono avere best practices, ma non si va ad incidere sulle prime.
Condivido pienamente. E c'è un altro tema connesso da analizzare. Più siamo raccordati nell’intervento sulle priorità per l'intera comunità, definite seduti allo stesso tavolo, più possiamo convergere con la massima efficacia. Fare massa critica ed essere interlocutori.
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Donato Iacovone inizia la sua carriera in EY nel 1984 come revisore contabile presso l’ufficio di Milano, nel 1996 diventa Partner. Nello stesso anno si trasferisce a Roma dove si occupa di Corporate Finance, nel 1997 viene nominato Partner responsabile del Settore Public and Utilities. Dal 2000 al 2005 è alla guida di Business Advisory Service (BAS) in Italia e nel 2005 viene nominato BAS Leader della Central Western European Area. Dal 2008 al 2010, a seguito della costituzione dell'area EMEIA (European, Middle East, India and Africa) e della Mediterranean Sub-Area (Italia, Portogallo, Spagna), Donato Iacovone è Mediterranean Account and Business Development Leader. Da luglio 2010 è Mediterranean Managing Partner e Country Managing Partner per l'Italia. E' inoltre socio fondatore e Segretario Generale di AICEO (Associazione Italiana CEO).