La Medaglia d’oro della Triennale di Milano
Milano. Ha vinto Vincenzo Latina con un’architettura piccola e colta, talmente delicata da risultare impalpabile: il Padiglione di ingresso agli scavi dell’Artemision a Siracusa. È questa la scelta della giuria (Ennio Brion, Cecilia Bolognesi, Alberto Ferlenga, Massimiliano Fuksas, Fulvio Irace e Luca Molinari) nell’assegnare la Medaglia d’oro all’architettura italiana 2012. Una scelta che lascia perplessi non tanto per il valore dell’opera, quanto per la sua stazza. Personalmente sono dell’ipotesi di Gombrich che la dimensione sia un fattore essenziale e ciò specialmente per quel che riguarda l’architettura moderna. In quella antica, paratattica e a-scalare, la dimensione non era poi così importante, basti pensare a Bramante e al suo tempietto: piccolo senza dubbio, ma agevolmente pantografabile a una scala maggiore.
Nell’architettura moderna (su ciò Rem Koolhaas ha ragione) la dimensione non è tutto, ma è tanto anzi tantissimo. Nel moderno vale la legge che piccolo è (mediamente) bello, mentre grande è (mediamente) brutto e il padiglione di Latina non fa eccezione.
Tra l’altro in questa ineccepibile architettura si respira un po’ troppo Álvaro Siza, un po’ troppo Roberto Collovà e un po’ troppo Francesco Venezia e, con loro, un po’ troppa mistica della misura, della facciata composta come se si fosse ai tempi di Marsilio Ficino. Il risultato è un’opera rispettabilissima ma che, sopraesposta con la vittoria della medaglia d’oro e diventando paradigmatica per l’architettura nazionale, perde quella grazia di nicchia che intendeva testimoniare.
Convince invece la scelta di assegnare il premio speciale all’opera prima a Barozzi e Veiga per la Sede del consiglio della doc a Burgosin Spagna. Barozzi e Veiga da tempo propongono un’architettura di forme elementari, laconiche e romantiche, alle volte persino trasognanti.
Il risultato è un’attitudine teatrale che non mette in mostra, come per esempio faceva Aldo Rossi, concetti e riflessioni, ma una scena muta, che attende attori e spettatori.
In alcuni progetti quest’atmosfera di sospensione riesce a tradursi in architettura convincente, in altri invece la vena romantica dilata troppo i suoi effetti e quell’equilibrio tra espressività e laconicità evapora lasciando un sottofondo velatamente kitsch. Rimane il fatto che Barozzi e Veiga sono tra i più convincenti autori della nuova generazione in giro per l’Europa e come tali da loro ci aspettiamo molto.
Chi a mio avviso avrebbe dovuto vincere la medaglia d’oro sono Geza (Gri e Zucchi architetti associati) con la loro sede dell’azienda Pratic a Fagagna, ma invece si devono accontentare di un non so quanto consolatorio Premio speciale alla committenza privata.
Gri e Zucchi hanno avuto come maestro Gino Valle e dalle sue opere migliori hanno preso il gesto sicuro, assertivo ed essiccato, privo di orpelli e ammiccamenti, come anche quella capacità di dare unitarietà all’edificio pur utilizzando materiali differenti. La facciata in cui corre sospesa la grande trave (80 metri) in calcestruzzo tinteggiato nero è un gesto epico, augurale, raro in un’architettura italiana troppo spesso arroccata sulla piccola dimensione, su quella poetica del pezzo composto e corretto che la rende rispettabile ma che alla lunga la lascia priva della necessità ormai diventata non più procrastinabile, di andare oltre se stessa. Eleganti e perfettamente ambientate le residenze sperimentali di Botticini e de Apollonia a Selvino, che vincono il Premio speciale legno. Da tempo apprezziamo il lavoro di Botticini e de Apollonia, la chiarezza dei loro impianti e la capacità di garantire qualità architettonica in maniera equipotenziale all’intero organismo, una qualità che ritroviamo in Piuarch che, con la loro Nuova sede della società Bentini a Faenza, guadagnano una menzione d’onore che sta stretta a un edificio che porta al limite la sobrietà facendola giungere alle soglie dell’espressività. È proprio questa torsione figurativa che traduce l’ordinario in un’espressività pacata, se non riservata, quella in cui le architetture italiane si trovano a loro agio, quasi fosse la loro dimensione ideale. Ciò è valido per C+S con la loro Corte di Giustizia a Venezia (Premio speciale alla committenza pubblica) e per molti finalisti come Guidarini e Salvadeo, ifDesign, Iotti e Pavarani, Mab, Dap, Scandurra studio. L’alta prosa quindi come dimensione ideale dell’architettura italiana, un fenomeno che ha almeno venti anni su cui ancora mancano adeguate riflessioni perché (e ciò è grave) manca la critica, un settore in cui la Triennale di Milano dovrebbe sensibilizzarsi maggiormente.
Per ultimo la Medaglia d’oro alla carriera, assegnata a ben tre personalità: Gae Aulenti, Giuseppina Grasso Cannizzo e Vittorio Gregotti. Inspiegabile assegnare a ben tre autori un premio; il messaggio della giuria a riguardo è imperscrutabile.
La Grasso Cannizzo, un’autrice raffinata e levigata, avrebbe meritato di starsene da sola, se non altro perché gli altri due non hanno certo bisogno di un ennesimo premio.
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