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L’altra economia della cultura

  • Pubblicato il: 15/10/2017 - 20:02
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Paolo Castelnovi

I piaceri culturali sono un antico antidoto alle ossessioni dell’homo oeconomicus, preziosi per chi cerca di sfuggire a una vita sotto il dominio del mercato. Forse molti giovani stanno riscoprendoli come habitat e motivazione delle proprie scelte per il futuro.

A margine del laboratorio mantovano di ArtLab, che ha reso a tutto tondo il potenziale dell’Anno europeo del Patrimonio, dove duecento adulti hanno fatto il resoconto delle potenzialità che cultura e patrimonio hanno per il futuro del continente, viene istintivo tentare di esplorare l’universo di chi dovrebbe essere il destinatario di tanto futuro: i giovani.
 
E’ un’esplorazione a tentoni, che risale alle pulsioni e ai criteri di giudizio più elementari, perché è chiaro che dobbiamo abbandonare i riferimenti di valore, di interessi, di comportamento delle nostre generazioni, dato che il mondo in cui si muovono le nuove generazioni è radicalmente diverso dal nostro. Ogni giorno abbiamo notizie che ci danno la dimensione del cambiamento in corso: ad esempio dal Festival del Lavoro 2017, svoltosi a Torino dieci giorni fa emerge una ricerca che indica in 3,2 milioni i posti di lavoro in Italia a rischio di sostituzione da parte di robot, nei prossimi anni. Il 15% del totale dei lavoratori, in gran parte quelli con lavori ripetitivi e monotoni. Lo stesso giorno la Chiesa interviene sulle crisi delle grandi aziende e dice: salviamo il capitale umano. Lo stesso giorno il Nobel per l’economia va a Richard Thaler, uno studioso che da anni dà consigli per migliorare le decisioni dei consumatori, per lo più irrazionali, rispetto agli investimenti che fanno per la propria salute, per la qualità della vita, per la felicità.
 
In un orizzonte dove il lavoro e i consumi come li abbiamo conosciuti diventano labili e infidi, oggetto di preghiera e di psicologi, è naturale che i giovani, più o meno consapevolmente, si muovano secondo nuove rotte, abbiano riferimenti radicalmente diversi, di cui vediamo solo aspetti parziali, come la parte emersa di un iceberg.
 
Quindi, come dice l’investigatore quando non sa che pesci pigliare, stiamo seguendo tutte le piste.  Anche le più asimmetriche, le meno polically correct.  Come questa, fascinosa per le sue possibili ricadute, che parte da alcune constatazioni:

  • praticamente tutti coloro che si impegnano in attività culturali (dalle performing art all’archivistica, dall’insegnamento dell’arte alla cura dei beni ambientali) accettano di essere sottopagati per lunghissimi periodi di avviamento (che finiscono per durare metà o più della vita lavorativa) e molti si prestano a forme estreme di volontariato, vicine alla dedizione richiesta ai religiosi;
  • praticamente in tutti i progetti di attività o di imprese culturali presentati da chi li vuole svolgere in prima persona, lo studio presentato per accedere a fondi o finanziamenti NON cura sufficientemente la sostenibilità dal punto di vista economico e d’altra parte, quando bandi europei lo consentono, i possibili aiuti sono spesso poco utilizzati per mancanza di pratica imprenditoriale economica di quelli che alle attività culturali si dedicano direttamente; 
  • praticamente tutti i decision maker, pubblici e privati, che da una parte trovano soldi per gli interventi edilizi o le infrastrutture tecnologiche per la cultura, fino talvolta arrivare allo spreco, non si vergognano di stanziare miserie per le attività culturali: con la cultura non si mangia (pensa per sé l’eletto).

 
A fronte di questi dati, nel nostro moralismo laico e illuminato, ci scagliamo da decenni contro l’ottusità del potere che non vede nella cultura la risorsa economica per lo sviluppo del paese, pensando con ciò di riuscire ad attivare una strategia per lenire le pene di chi con abnegazione lavora nei settori culturali.  
Pensiamo di convincere i decision maker a rendere disponibili maggiori denari, e che di conseguenza a questa offerta gli operatori nel campo si industrino per rendere sostenibili i loro progetti e vedersi finanziati, e che quindi gli impegnati nelle attività culturali possano felicemente lavorare con la giusta mercede.
 
Ma è chiaro a tutti, anche se non ce lo diciamo, che questa battaglia (santa), se vinta (forse), produrrà una goccia nel mare: moltiplicherà coloro che sanno rendere sostenibile economicamente il proprio sforzo nei settori culturali, ma questi saranno comunque pochissimi rispetto all’esercito degli sprovveduti che rimarranno a piedi, nel lumpenkulturproletariat.
 
Infatti, se mai ci saranno, sono molto lunghi i tempi per una conversione del sistema produttivo nazionale nel senso di fornire servizi per la cultura mondiale, a partire da ciò che dal nostro patrimonio paesistico e storico si potrebbe elaborare. Ed è solo questa conversione che potrebbe dare alle nuove generazioni un’offerta di lavoro diffusa e sistematica, confrontabile con quello che sono stati nella storia d’Italia prima l’agricoltura, poi l’industria e ora i servizi generali.
 
Ma allora, se è implicita questa situazione senza uscita apparente, a cosa mirano i tanti giovani che oggi scelgono risolutamente una vita di stenti, insicura, apparentemente improduttiva, irresponsabilmente assistita, purché connessa con un’attività culturale, nei più diversi campi?
 
Forse proprio perché sembra (e forse è) una via di uscita quieta e sottobanco dai vincoli a cui costringe in modo sempre più contraddittorio la via “normale” all’età adulta, con un lavoro che non piace che dà i soldi appena per passare la mesata e poco tempo per altro. Forse è un rifiuto non solo delle responsabilità ma anche delle lusinghe del mercato, una scelta di pauperismo senza ambizioni se non quella di fare ciò che si vuole (o che si pensa di volere).
 
La cultura è sempre stata l’ambiente accogliente, l’America dei pellegrini che si autoespellono dal circuito dominante di quel momento storico. Ma questo, che è stato un percorso scelto da poche centinaia di persone vocate in ogni città e in ogni generazione, rischia di diventare ora movimento di massa, moda contro il modello dominante, luterano, di lavoro come dovere.
 
E’ un esito non alimentato dal contrasto intergenerazionale, come finora, ma dal lassismo di genitori indifferenti e sufficientemente abbienti da assistere i propri figli, e da pensare che tale assistenza possa essere estesa a una generazione che passa leggera sul mondo, chiedendo l’elemosina (come la si voglia chiamare, ad esempio reddito di cittadinanza), pur di occuparsi, a modo suo, di cultura o di ambiente.
 
E’ un processo di valutazioni e scelte spinto da ingenuità infantili e ideologie personali, ma interessa una grande quantità di ragazzi, e molte delle energie e della capacità creative migliori, occupando ben oltre lo spazio che da sempre è concesso all’eccentricità degli artisti.
 
Per chi lo intraprende riempie il vuoto delle scuole e delle università interrotte, porta a disertare la ricerca di lavoro ordinario e di creazione di famiglia, mira al godimento diretto di fare quello che si vuole, con dedizione, con tutto il tempo che ci vuole.  Si cercano attività culturali di nicchia, dove si può diventare esperti in breve: usare uno strumento,  conoscere l’arte di un periodo,  acquisire una tecnica di restauro, presidiare un luogo abbandonato.
 
E’ un lusso personale che ha un costo personale molto alto, escludendo quasi tutti gli altri piaceri, ma forma attitudini resilienti, talvolta genera impegni duraturi, capacità di radicamento in settori o territori desertificati.
 
Sono caratteri essenziali per la qualità della vita di tutti e la manutenzione del creato e del patrimonio, aspetti che l’economia di mercato trascura o addirittura avversa, fino a farci dimenticare l’etimo della parola, che letteralmente significa regola per l’amministrazione della casa. La nostra: il mondo.
 
Di certo non sono la soluzione, ma ci obbligano a ripensare alla deriva storica della nostra generazione, questa davvero senza uscita.
 
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