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Il pubblico è cambiato, profondamente

  • Pubblicato il: 15/05/2017 - 18:20
Autore/i: 
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Enrica Pagella

Dalla relazione di Enrica Pagella, direttore dei Musei Reali di Torino, del 26 aprile scorso al Museo Civico Pier Alessandro Garda di Ivrea, in occasione del percorso partecipato per la realizzazione del Polo Culturale di Piazza Ottinetti, avviato dal Comune di Ivrea in collaborazione con la Fondazione Guelpa, che proseguirà il 7 e 8 giugno con una due giorni di confronto scientifico aperto alla città. “Pensare a un nuovo polo culturale significa partire dalla comunità,  orsi la domanda sulle attese dei pubblici attuali e potenziali (..) lavorare in modo strategico sui contenuti identitari di questo asset. È una grande responsabilità”, afferma Pagella.
 
 
Il pubblico della Cultura è cambiato, radicalmente, rispetto agli anni ’60, epoca della famosa ricerca “L’Amour de l’Art” di Pierre Bourdieu e Alain Darbel. All’epoca, solo l’alta borghesia entrava nel museo; oggi non c’è più una sola dimensione di pubblico, ma una molteplicità di comunità che condividono gli stessi ambienti fisici e tecnologici.  
Dagli anni 2000, il consumatore ha accresciuto le sue competeze, va alla ricerca di esperienze personalizzate e coinvolgenti, multidimensionali, che legano il museo all’ambiente esterno, al contesto urbano, al territorio, con la sua offerta specifica di storia, di luoghi, di tradizioni. A Torino, per esempio, molti visitatori segnalano di essere incantati e affascinati dalle insegne storiche presenti nei locali commerciali del centro città. Un elemento apparentemente minimo, ma che contribuisce a fare la differenza, a connotare in modo indelebile un’esperienza.
In generale, il nuovo pubblico ricerca l’autenticità in esperienze di consumo non ripetitive: quasi una risposta, una controspinta alla globalizzazione. Quello che è successo per le abitudini alimentari, esemplificato dal grande successo di Slow Food, accade anche per l’esperienza culturale.
Il museo deve impegnarsi per identificare e per conoscere queste comunità, per intercettarle, capire come sono organizzate e analizzarne i bisogni. I mantra oggi sono audience development, audience engagement. Non sono più sufficienti i questionari somministrati al pubblico, dai quali arrivano spesso risposte retoriche dovute alle variabili tempo e imbarazzo, occorrono focus group per target, per lavorare insieme, per lungo tempo, in profondità e per ingaggiare un rapporto vero con attese e bisogni.
Nel mio immaginario i musei, istituzioni basate su oggetti infungibili, possono essere considerati attrattivi come “i presidi” del cibo: prodotti culturali tipici, iconici, propri di quel luogo, di quella esperienza.
Il museo deve avere uno sguardo lungo, con strategie a tre/cinque anni, da rivedere in modo “elastico”, il cui piano di attuazione sia costantemente monitorato. I prossimi decenni, secondo le fonti più autorevoli di ricerca, saranno attraversati da radicali  trasformazioni sociali, nelle quali siamo già immersi.
L’ONU stima  che nel 2060 il 30% della popolazione sarà costituita da anziani, una grande target con tempo libero, maggiore potenzialità di fruizione culturale, necessità di invecchiamento attivo. Crescerà l’urbanizzazione: nel 2050 il 70% della popolazione vivrà nelle città con effetto di spopolamento dei territori periferici e rurali. Il nostro mondo oggi è mobile e lo sarà in modo crescente. Sempre da fonte ONU, oggi 4% della popolazione europea è costituita da immigrati e il 3% degli europei emigrano verso altri paesi. Le nostre città saranno sempre più multiculturali.
Dovremo pensare a nuove interpretazioni del patrimonio, rimodulando le narrazioni, dando legittimità a nuovi  racconti, di fronte alla popolazione che arriva da nuovi mondi. Non è più sufficiente la didascalia, ma occorrono informazioni di contesto.
Dobbiamo liberarci dalle antiche categorie, come la distinzione tra cittadini e turisti, che sono di fatto “cittadini temporanei”.  Ad esempio, non esiste più il “turista balneare”: ogni “cittadino visitatore” cerca una esperienza a diversi livelli: mare sì, magari, ma anche cultura, cibo, bellezza diffusa.
In questo scenario i Musei dovranno essere luoghi ibridi, capaci di guardare a diversi aspetti dell’esperienza: cognitivi-di pensiero, sensoriali, emotivi, sociali. Dovranno apririsi a una gamma sempre più ampia di possibilità.
L’esperienza museale è collettiva. Solo lo 0,10% dei visitatori viene in museo da solo. La visita si compie in due o più. Dobbiamo pensare a questo processo, dal consentire la lettura plurima delle didascalie, ad aree di confronto che non siano attrezzate da poltrone singole, ma divani che consentano il dialogo sull’esperienza, la condivisione immediata sui social network. Le tecnologie sono un aiuto fondamentale allo sviluppo della comunicazione,  flessibile, plurima, multisensoriale.
Per questo impegno dovremo ingaggiare battaglia sui contenuti con noi stessi, con il nostro radicamento nelle discipline -e lo sento personalmente come storica dell’arte- se vogliamo creare un prodotto distintivo con il museo, nella sua città, nel suo territorio.
Pensare a un nuovo polo culturale significa partire dalla comunità,  porsi la domanda sulle attese dei pubblici attuali e potenziali, del futuro e lavorare in modo strategico sui contenuti identitari di questo asset. Una  progettualità che anticipi quella architettonica.
È una grande responsabilità e i musei territoriali, per loro natura, escono dalle loro mura, per valorizzare un  oggetto patrimoniale diffuso, la relazione con la natura, l’ambiente paesistico, le testimonianze antropiche.

(tratto dall’intervento)
 
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