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I nuovi dati sull’occupazione culturale dell’Unesco confermano potenziale e paradossi dell’economia creativa

  • Pubblicato il: 15/12/2017 - 00:01
Rubrica: 
STUDI E RICERCHE
Articolo a cura di: 
Valentina Montalto

In che modo la cultura contribuisce all’economia di un paese e al suo sviluppo sostenibile? Non si tratta di una domanda nuova ma nuova è la risposta dello Unesco Statistical Institute (UIS) che ha recentemente pubblicato delle statistiche sull’occupazione culturale molto dettagliate ma soprattutto comparabili a livello internazionale. Nello specifico, si tratta di 195 indicatori per 73 paesi nel mondo, tra cui quasi tutti i paesi dell’Unione europea. 


L’analisi di questi dati – liberamente accessibili qui – richiede tempo, ma giocandoci un po’ si possono subito rilevare degli elementi importanti che i dati abituali sull’occupazione culturale non ci permettono di approfondire.
Focalizziamoci per un attimo sui paesi dell’Unione europea (UE) e, in particolare, sull’Italia.
Secondo i dati dello UIS (Figura 1), nei 23 paesi europei disponibili la cultura contribuisce in media al 5,7% dell’occupazione, se si tiene conto sia dell’occupazione nelle industrie culturali sia delle occupazioni culturali presenti in altre industrie. L’Italia, al 5,3%, si colloca poco al di sotto della media UE, ma ben al di sotto di paesi come la Germania, l’Estonia, la Croazia e la Lettonia che superano il 7%, mentre per la Finlandia la percentuale sale all’8,6%
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Figura 1 – Numero di persone con un’occupazione culturale o non-culturale nelle industrie culturali o che hanno un’occupazione culturale in un’industria non culturale (% del totale delle persone impiegate) - Rielaborazione personale su dati UIS. Anno: 2015 o 2014.
Ma la peculiarità di questa base dati è proprio quella di fornire informazioni molto più dettagliate sull’occupazione, al di là del dato totale. Per esempio, è interessante notare che in Italia la percentuale di persone con un’occupazione culturale nelle industrie culturali (per intenderci, l’artista che lavora in una compagnia teatrale e non il contabile) rappresenta l’1,13% rispetto al totale delle persone impiegate a livello nazionale, di nuovo poco al di sotto della media europea (1,36%).
Il dato sale però al 4%, raggiungendo così la media dei paesi UE (3,97%), se si considera la percentuale delle persone con un’occupazione culturale rispetto al totale delle persone occupate (Figura 2). Questo dato sembra suggerirci che le competenze artistico-culturali trovano impiego soprattutto al di fuori dell’industria culturale, dove possono ugualmente contribuire all’espressione artistica o alla produzione di significati simbolici, culturali o spirituali o, detto altrimenti, a una « culturizzazione dell’economia ». Ci stupisce? Sì, forse stupisce che questa percentuale si limiti al 4% per l’Italia mentre paesi come la Finlandia o la Lettonia presentano percentuali ben più elevate. 
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Figura 2 – Persone impiegate in occupazioni culturali - Rielaborazione personale su dati UIS. Anno: 2015 o 2014.
Inoltre, i dati dello UIS ci danno diverse indicazioni sulle condizioni di lavoro dei professionisti della cultura e della creatività. Per esempio, non è una sorpresa ma è utile constatare - con dati alla mano - che ci sono molti più lavoratori autonomi nelle professioni culturali che in occupazioni non culturali (ad eccezione della Romania). In Italia, e in linea con la media europea, circa il 45% delle persone con un’occupazione culturale sono lavoratori autonomi, ossia più del doppio della percentuale di autonomi tra le persone con occupazioni non culturali (Figura 3). È un elemento che non possiamo ignorare se vogliamo far fronte alle condizioni di lavoro specifiche dei professionisti della cultura ed evitare i paradossi dell’economia creativa.
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Figura 3 – Lavoratori autonomi nelle occupazioni culturali e non culturali - Rielaborazione personale su dati UIS. Anno: 2015 o 2014.
Ancora più importante per l’avvio di politiche evidence-based per la cultura è il dato sul secondo lavoro. La percentuale delle persone impiegate nelle occupazioni culturali che hanno più di un lavoro è infatti ben più elevata di quella di chi lavora in altro tipo di occupazioni (Figura 4). Se da un lato, il dato suggerisce un maggiore dinamismo da parte di chi ha un’occupazione culturale, in linea con il dato sugli autonomi di cui sopra, dall’altro lascia intendere la necessità per i professionisti della cultura di dover integrare lo stipendio, probabilmente a causa dei compensi insufficienti che caratterizzano i « lavori culturali ».
 
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Figura 4 – Persone con occupazioni culturali e non culturali che hanno più di un lavoro - Rielaborazione personale su dati UIS. Anno: 2015 o 2014.
L’Italia è questa volta al di sotto della media europea (7,2%), ma la percentuale di lavoratori con più di un lavoro nella cultura è comunque più del doppio (2,8%) rispetto alla stessa percentuale per altre occupazioni (1,3%).
 
«Senza dati sei solo un’altra persona con un’opinione», scriveva qualche tempo fa W. Edwards Deming. Non che i dati siano necessariamente più attendibili delle opinioni ma, se raccolti in maniera rigorosa, possono aggiungere un importante  pezzo al puzzle con cui cerchiamo di ritrarre e comprendere la realtà complessa che ci circonda.
 
Questo pezzo è più che mai necessario in vista dell’Anno Europeo del Patrimonio Culturale 2018, appena inaugurato. Se vogliamo che la cultura diventi volano di sviluppo economico e sociale ma, soprattutto, vogliamo capire chi effettivamente beneficia dell’investimento in cultura, non possiamo esimerci dall’avere dei dati non solo più comparabili ma anche molto più dettagliati di quelli al momento disponibili. Se è infatti grazie ai numeri che abbiamo cominciato ad apprezzare il valore anche (ma non solo) economico della cultura, ci siamo anche ben presto accorti di quanto i dati disponibili siano spesso inadeguati. Non si tratta soltanto della difficoltà di misurare il valore di qualcosa di intangibile ed intrinseco all’essere umano, per cui probabilmente nessuna misura sarà mai adeguata, quanto della necessità di misurare correttamente ciò che invece può e deve essere rilevato con l’obiettivo di orientare, in maniera consapevole, le scelte di politica pubblica. Forse non ce ne siamo ancora accorti a sufficienza, ma la cosiddetta « società della conoscenza », di cui tanto si è parlato, rischia di sparire se i nostri sistemi di welfare non tengono conto delle condizioni lavorative dei professionisti della cultura che ogni giorno, e a volte a fatica, mantengono vivo il nostro patrimonio culturale mobilitando saperi, capacità creatività e spirito d’innovazione.
 
 
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