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Fondazione Feltrinelli: la lunga linea d’ombra del G8 di Genova

  • Pubblicato il: 10/08/2017 - 10:24
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI PER LA CULTURA
Articolo a cura di: 
Amerigo Nutolo

Ci sono fatti che segnano per sempre un Paese, ferite che vanno aperte, pulite, curate e rimarginate assieme o altrimenti lasceranno un vuoto nell’esperienza e sviluppo di un gruppo sociale. A sedici anni dal G8 di Genova e al segnale di via della prima edizione del suo Master in Public History, Fondazione Feltrinelli apre le porte alla rievocazione di quell’evento e alla riflessione su quelle istanze, desideri e speranze (e una finestra sulle criticità del compito storico sul nostro presente recente).
 


Milano. Lascia un sapore amaro, il viaggio nel tempo sulla generazione che ha perso la voce, alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano (podcast di Radio Popolare). Per la ricorrenza di fine luglio del G8 di Genova del 2001, due generazioni hanno rievocato quei giorni, dopo sedici anni. I crimini attribuiti dai tribunali italiani e europei a uomini spesso promossi o ancora attivi nel corpo dello Stato; la storia di un movimento globale stroncato sul nascere; lo shock e il post-trauma, “come dopo i lager”, ricorda lo storico Carlo Greppi: l’incubo di tornare a casa e non essere creduti, l’inefficacia della testimonianza resa, una violenza in più per gli scampati – a 30 anni dai suicidi di Primo Levi e sei da quello di Fabrizio Ferrazzi, ricordato da Stefano Valenti, si contano le vittime a posteriori; la falsificazione e la negazione della verità, la lotta tra informazione di potere e indipendente – tradizionale o autoprodotta e diffusa on-line.
 
Nei giorni in cui si sfratta l’archivio del G8 di Genova ed è al via la prima edizione del Master in Public History di Fondazione Feltrinelli (con Università degli Studi di Milano), si colgono molte delle criticità legate alla percezione collettiva di fatti come questo. “Il cuore politico di Genova afferma il Segretario Generale Massimiliano Tarantino “sta nel non aver raccolto l’eredità di quel movimento.” Indagarne l’identità, l’impronta lasciata nelle generazioni di ora e allora “serve a capire come costruire un modo diverso di fare politica.” Tra i relatori: chi, troppo giovane per partecipare, evoca con emozione un G8 mai (o da altri) vissuto e chi, per esserci stato, ne tenta un’appropriazione testimoniale.
Una Genova tutta narrativa: fra approcci martirologici nel discorso sulle vittime e memorialistici nella voce dei reduci, apparati retorici multimediale (audio di testimoni, fotografie crude di morti o pestaggi, montaggi teatrali o spezzoni di video entrati nel patrimonio comune), insistenze sui presenti e i passati biografici di chi fu coinvolto: fra i vetri di Herzog & De Meuron sfumano i confini fra nature e codici dei diversi speaker – ricercatori, artisti, attori, giornalisti, intellettuali.
 
Jacopo Tondelli (Gli Stati Generali) dice che di fronte a fatti come il G8, serve “far bene il proprio lavoro prima di lamentarsi” e che “la nostra generazione non si è conquistata tale merito”: nel paese della pace preventiva si è parlato poco approfonditamente di cause, dinamiche ed effetti di Genova e non si è mai avviato un confronto culturale pubblico condiviso: è eredità di pochi, lasciata al vento come soffioni di tarassaco. Forse anche perché a Genova si è consumato uno strappo che inibisce la storiografia: si sono separate istituzioni e organizzazioni da un lato e persone dall’altro.
La rottura dei patti comuni ha lasciato ferite comuni, proprio sul terreno dei beni comuni.
L’appuntamento rilancia la necessità di storicizzare quei fatti, ridefinirne l’influsso sul piano collettivo, stimolare la riflessione su quell’agenda sociale e politica. Greppi ricorda platee piene di giovani attenti e silenziosi, al film Diaz: “Come raccontare Genova a chi di Genova non sa nulla?”. L’attore Massimiliano Loizzi racconta che un ragazzo alla fine di uno spettacolo sul G8 gli chiese “Che mondo ci avete lasciato? Perché non avete reagito?” e senza volerlo lui diede una risposta uguale a quella ricevuta da suo padre, anni prima, a un’identica domanda: “Cosa potevamo fare? Ci hanno perseguitato, picchiati. Ci abbiamo provato.” Rosanna Prevete si chiede se chi, dissuaso dal perseguire le istanze di Genova, ha avviato un percorso di impresa (come accaduto a molti) non possa averle così, in qualche forma, realizzate. O se è il sogno d’una generazione, già individualizzata, che scivola in una dimensione auto-manageriale, ed il fallimento di quelle istanze.
 
La rabbia, l’aver avuto ragione, non aiuterà i nostri figli a penetrare il sangue della Diaz, non spararsi di nuovo a vicenda, affrontare le debolezze – proprie ed ereditate –, cambiare. Davvero furono le macerie securitarie delle Torri Gemelle o il crollo del benessere del 2007 – come spesso affermato – a bloccare i movimenti? Non hanno avuto ruoli più centrali la crisi dei modelli produttivi; la distanza tra i soggetti più e meno intransigenti rispetto alle dinamiche di globalizzazione; la voglia di relazioni di prossimità, disintermediate, autorappresentative, partecipate? Capire la Diaz o le reticenze a legiferare sul reato di tortura, o perché certe cose a Genova non sono accadute, ci obbliga a ricercare, guardare ai modelli, alle resistenze culturali, alle strutture narrative, mitiche, iconografiche: che non si sintetizzano in sentenze o biografie. E’ difficile agire un compito di ricerca storica, ma indispensabile: in un’epoca di storiografia del presente ormai partecipata e performativa, serve un’azione culturale multidisciplinare, permeabile e trasparente, per un’interpretazione complessa del proprio tempo.
 
La Fondazione Feltrinelli vuole sostenere la nascita di un’enclave di ricerca sulle istanze di Genova e la voce di un nuovo protagonismo civico. Serve però – e dall’impostazione del Master è evidente – che la ‘scrittura’ e la comunicazione di una storia pubblica si fondino non sull’adozione ma sullo studio delle narrative prodotte e vissute. Serve capire come il G8 è stato recepito nei diversi ambiti, livelli, media e contesti di diffusione, e prenderne distanza, agire la liberazione dai retaggi di piombo, stereotipi e semplificazioni, fatta la tara su quanto accaduto. Insistere sulle chiare colpe di De Gennaro o sul politici e poliziotti cattivi vs. egualitari buoni ostacola l’analisi dei fenomeni di partecipazione diffusa, cause, contesti, culture tanto delle violenze che delle militanze. Il setting dell’incontro in Feltrinelli, registico e frontale rispetto al pubblico, senza interazione, neppure fra i relatori; lo spleen, le analogie tirate – Tien An Men, America Latina – la chiave a tratti giudiziaria del discorso: lasciano intatti i nodi e molto all’emotività. Non quella sentita dei relatori più giovani, sobria, ma quella multimediale provocante dei più anziani: dal tono mistico, apologetico, autoaccusatorio, vocazionale.
 
C’è il sapore di irrisolto di cui già ha parlato, in relazione agli anni ’70, David Bidussa (tra i responsabili dell’incontro come del Master) – ma potrebbe trattarsi del fascismo, del colonialismo italiano o di altri eventi divisivi. I più coinvolti resistono a una profondità di sguardo: c’è il rischio che lo storico fatichi a dipanare i fatti attraverso un’attività di raccolta, confronto, analisi equilibrata.
Narrare la  propria storia da perdenti vincenti, o vittime resistenti è parte dell’oggetto, mai soggetto, del compito di storico. L’esserci o non esserci stati, in corteo, non ha valore per un’indagine che aggrega chi aprì i portoni a chi fuggiva dai pestaggi, chi dietro le divise non vi partecipò a chi aderì ai Social Forum prima e dopo o in tuta bianca e plexiglass sfoggiò una disobbedienza civile ‘tutta sua’. La persuasività, la confusione fra story e historytelling non portano a nulla. Il compito storiografico non può finire in una lotta fra narrative, Genova non può diventare un racconto immersivo: va letta sullo sfondo ambivalente delle trasformazioni profonde in corso, allora come oggi. Questo è chiaro dopo l’incontro.
 
Forse il problema è che Genova è stata la linea d’ombra di una generazione che ha ricevuto – come già Joseph Conrad l’Otago – il primo comando di una nave, proprio quando stava per lasciare il mare. Ci ha creduto. Ma il disastro l’attendeva: la sospensione infinita di un oceano immobile contro cui lottare per salvarsi. Dopo aver pregato per un filo di vento che riportasse a riva e rinunciato al viaggio, si è tornati a casa, senza lasciare il mare forse, ma certo la giovinezza, alle spalle. Una volta a terra, a pezzi, i propri limiti davanti agli occhi, salvata pelle e nave, ognuno ha preso la sua direzione. Genova è stata il nostro Otago. Il pericolo affrontato e passato, lo scontro col mare aperto e la ingestibile complessità del nostro tempo, l’imbarco e il sogno di una rotta culturale verso un mondo diverso.
Fraternità tra uomini di mare, iniziazione, sconfitta, ritorno, superamento, nuovi percorsi.
E forse per lo stesso motivo di Conrad, siamo così incapaci di distacco. Perché Genova è stata una città di Calvino: quella della giovinezza, della sua fine. E’ ciò che non siamo stati in grado di diventare. Di cui ci resta il racconto. E’ tutto quel che avremmo potuto essere – prima della linea d’ombra.

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Ph: Deriv. da originale di Ares Ferrari, Riunione del G8 a Genova, 20 luglio 2001, No global a raduno allo stadio Carlini, Creative Commons, Attribuzione-Condividi allo stesso modo 2.5 Generico.