Focus Impresa Culturale. Qualche appunto sul tema delle imprese culturali
Una riflessione scientifica del prof. Marco Cammelli, l’autorevole giurista direttore di Aedon, la rivista di arti e diritto on line edita da Il Mulino, intervenuto alla prima Conferenza sull’Impresa Culturale de L’Aquila “Se è vero infatti che pochi ormai sottovalutano questa realtà, perché è chiaro che l’impresa culturale ha oggi una missione particolare in Italia per l’importanza del patrimonio culturale, l’evidente necessità di collaborazione tra pubblico e privato e le apprezzabili ricadute socio-economiche che ne possono derivare, restano invece aperti molti problemi”. Una proposta definitoria che ne indica il perimetro. L’analisi dei nodi. La proposta di soluzioni.
Una intera giornata di serio studio e confronto sul tema dell’impresa culturale aperto a una parte significativa dei soggetti socio-economici che operano in materia è un grande merito che va riconosciuto per intero ai promotori dell’incontro.
Se è vero infatti che pochi ormai sottovalutano questa realtà, perché è chiaro che l’impresa culturale ha oggi una missione particolare in Italia per l’importanza del patrimonio culturale, l’evidente necessità di collaborazione tra pubblico e privato e le apprezzabili ricadute socio-economiche che ne possono derivare, restano invece aperti molti problemi: in parte concettuali e di impostazione, ad esempio gli elementi identificativi dell’impresa culturale, e in parte attinenti alle modalità di intervento e alle politiche di sostegno.
Si tratta di cose evidentemente connesse e dunque la conferma dell’utilità di discuterne e fare chiarezza per quanto possibile.
Ulteriore merito dei promotori è il taglio dato all’incontro perché impresa non significa solo progetto, organizzazione di fattori produttivi e assunzione di rischio e responsabilità ma anche accento posto sulla gestione, cioè su un elemento nello stesso tempo chiave per la sostenibilità delle iniziative e rilevante su un versante altrettanto decisivo, quello del rapporto con i destinatari la cui domanda, natura, composizione e gradimento – determinanti per ogni impresa - ancor più lo sono per quella culturale che certo trova il proprio senso compiuto nell’incontro con coloro a cui si rivolge prima che nella soddisfazione del personale che vi opera o nel ritorno per i committenti.
Da questo, un sintetico contributo alla discussione, concentrato sui due fronti dei problemi che ci sono e del come porvi mano.
Il primo ordine di difficoltà riguarda il lessico, perché se non c’è chiarezza sul significato dei termini che usiamo non può esserci neppure chiarezza sul perimetro del nostro tema e sui relativi confini. Dell’impresa si è appena detto mentre resta molto complesso il discorso relativo alla qualificazione “culturale”: se in linea di principio questo profilo è di tale ampiezza da poter essere definito solo in negativo (attraverso ciò che ne è privo), è altrettanto chiaro che non ha senso porsi il problema dell’impresa culturale e del suo sostegno senza riconoscerle una accezione specifica. Cioè, senza definire almeno in linea di massima ciò che vi rientra e ciò che ne sta fuori.
Ebbene ai fini del discorso odierno, e dunque in via di prima approssimazione, sembra preferibile ricorrere ad una accezione stretta e considerare culturali le imprese la cui ragione sociale riguarda la diretta e prevalente produzione di attività culturali (musica, teatro, danza, spettacolo dal vivo) o l’organizzazione, produzione e fornitura di beni e servizi relativi alla valorizzazione fruizione del patrimonio culturale (beni culturali e paesaggio). Con una implicazione importante, e cioè che ne restano fuori i molti (anzi, prevalenti) casi in cui la cultura non è l’oggetto della attività ma una modalità sia pure importante del suo svolgimento come succede ad esempio nel sociale (v. teatro, per il recupero di marginalità), nell’industria (design), nella comunicazione.
Questo non toglie che le politiche pubbliche possano in certi casi (non in tutti) rivolgersi congiuntamente alle une e alle altre, ma resta chiara la differenza tra ambito culturale come oggetto principale e diretto dell’attività e profilo culturale nell’attività delle imprese industriali, sociali, turistiche o altro. Dunque, è perfettamente legittimo che in sede comunitaria e sovranazionale si impostino politiche pubbliche dedicate all’impresa culturale e creativa, ma è altrettanto chiaro che i due elementi sono del tutto autonomi e dunque contestualmente presenti o reciprocamente disgiunti a seconda dei casi senza alcuna necessaria connessione reciproca.
Sempre ai fini dell’ impostazione del tema, sembrano invece assai più labili altri elementi e in particolare la natura pubblica o privata dell’impresa e il profilo, solo in parte connesso, del profit o non profit: il primo perché in sé oggettivamente fragile, dato che la veste giuridica e la sostanza spesso non coincidono e perché gli operatori del settore restano comunque sempre fortemente condizionati da regolazioni e risorse pubbliche (oltre che dalla “banalizzazione” della loro natura operata dall’ordinamento comunitario anche ai fini della selezione e dei bandi quando si versa nell’area del servizio pubblico); il secondo perché, come ci insegna la “normalizzazione” operata dal testo del decreto legislativo sull’impresa sociale (C.d.D, Atto Governo n.418) in tema di remunerazione personale o di interessi sul capitale investito (compatibili con l’assenza di lucro in quanto pudicamente definiti “rimborso al socio del capitale effettivamente versato ed eventualmente rivalutato”, art.3.2), la distinzione in questi ambiti è sempre più tenue. Senza dimenticare tra l’altro che si può cambiare, cioè partire in un modo e arrivare in un altro con fasi e momenti intermedi di evidente sovrapposizione.
Dal questo punto di vista, sarebbe probabilmente più utile ai nostri fini distinguere tra impresa culturale in fase di avvio o comunque di dimensioni limitate e impresa che per attività, organizzazione e volume di affari è già strutturata e di apprezzabili dimensioni, perché cambiano funzioni e ruolo svolto e di conseguenza gli obbiettivi e gli strumenti delle politiche pubbliche che le riguardano.
Quanto appena visto ci porta al punto centrale, quello dei problemi e dei migliori strumenti per affrontarli.
Se si concorda che è proprio la tradizionale ed estesa sottovalutazione del profilo della gestione a complicare nel nostro Paese la valorizzazione dei beni culturali e del paesaggio e la produzione di attività culturali in senso stretto, e se si riconosce che è l’impresa (e in particolare l’impresa giovanile) uno dei modi più efficaci per venirne a capo e avviare dinamiche positive anche sul piano socio-economico e della occupazione, ne derivano i tre obiettivi principali da perseguire:
- il primo è “estrarre” dalla indeterminata e omologante nebulosa degli apparati amministrativi pubblici le “cripto imprese” che vi sono incastonate, vale a dire i segmenti chiamati a produrre beni e servizi più che a esercitare funzioni regolative o amministrative, restituendole a un regime e a un funzionamento più consono. E’ una storia antica, perché aziende autonome, enti pubblici e società pubbliche sono nate proprio per queste ragioni e in questo modo, ma anche attuale perché sta svolgendosi (sia pure tra molte difficoltà) sotto i nostri occhi, come nel caso dell’autonomia ai musei accordata dalle riforme Franceschini;
- il secondo consiste nell’assicurare alle imprese operanti nel nostro ambito una “solida flessibilità”: questa, per adattarsi alle diverse condizioni e ai diversi e mutevoli tempi ove è determinante una forte autoregolazione degli interessati ([1]), quella per non rimanere esposti alla vulnerabilità creata dalla indeterminatezza e illimitata responsabilità dei partecipanti nelle forme giuridiche associative;
- il terzo riguarda il contesto e dunque innanzitutto le azioni di sostegno in grado di supportare queste imprese nel loro operare e di garantire da parte della pubblica amministrazione un approccio adeguato.
Se questi sono gli obiettivi, il problema è come lavorarci. Accanto a numerose altre soluzioni, del tutto condivisibili, è emersa la proposta di uno speciale regime legislativo per la impresa culturale. Non è difficile riconoscere le ragioni oltre che la qualità e la serietà del progetto, che tra l’altro ha potuto contare sulla capacità ed esperienza di Pierpaolo Forte, ma è bene valutarne con attenzione tutte le implicazioni.
A parte i problemi legati alle numerose conseguenze che discendono dal qualificare di “interesse pubblico” queste attività, rese ancora più problematiche dalla labilità delle distinzioni sulla natura dei soggetti di cui si è detto, e a prescindere da implicazioni generate da problematiche molto tecniche legate ai limiti propri delle normative speciali rispetto alla disciplina ordinaria e alle successive attività legislative, amministrative e giurisdizionali, restano due considerazioni di fondo.
La prima è che alcuni problemi sono già risolti, grazie ad alcune figure giuridiche più recenti come la srl semplificata, e vanno nel senso della solida flessibilità di cui si è detto permettendo quegli adattamenti in corso d’opera che un contesto complesso come quello attuale e il naturale riassestamento funzionale e organizzativo proprio delle imprese culturali e del loro progredire rendono consigliabile.
La seconda è che il problema più importante è e resta la PA nella sua organizzazione e funzionamento, e che dunque è su questo più che sul terreno del regime normativo che è bene lavorare e incidere.
La partita infatti si gioca quasi per intero sul piano della responsabilizzazione della Pa nella raccolta e valutazione dei dati, nella predisposizione di piani e programmi, nella stabilizzazione degli interventi e delle iniziative, nella selezione e messa in opera degli interventi, nelle verifiche di processo e di prodotto.
Solo una PA cui siano riconosciuti questi poteri/doveri, con l’evidente e piena responsabilità che ne consegue, può svolgere le funzioni che le sono assegnate e sopratutto soddisfare due cruciali esigenze più volte richiamate: differenziare, che significa pur nel rispetto della legge applicare criteri diversi a situazioni diverse e che tra l’altro è essenziale per affrontare le crescenti e acute differenze tra il Centro-Nord e Mezzogiorno del nostro Paese, e semplificare che poi ne è un corollario perché si basa sulla possibilità di realizzare le finalità preseguite dalla legge in modi più lievi e spediti quando le condizioni lo consentono e quindi con apprezzamenti caso per caso che solo l’amministrazione può effettuare.
Ma anche gli altri aspetti più critici trovano risposta su questo terreno o su terreni analoghi: è il caso dei servizi di sostegno e di supporto per le imprese culturali in fase di crescita, che l’esperienza insegna spesso più importanti degli stessi contributi finanziari, o quello di modalità di formazione comune (indipendentemente dall’ente di appartenenza) del personale pubblico e privato che opera in questi ambiti. Qui sì che sarebbe utile definire in termini operativi e funzionali uno “statuto” generale di condizioni organizzative e di basi tecniche e professionali comuni a tutti gli operatori che operano in materia culturale a prescindere dalla natura (pubblica o privata, statale o locale) dell’ente di appartenenza, ciò che d’altronde già oggi è solennemente richiesto per ogni ipotesi di gestione diretta della valorizzazione da parte dell’intero sistema pubblico, per il quale si prescrivono “strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico” (art. 115.2 Codice). Cioè, a ben vedere, esattamente le premesse per l’”estrazione” dalla tradizionale struttura amministrativa pubblica di tutte le articolazioni chiamate a generare beni e servizi di cui prima si è detto. A conferma che un decennio più tardi ha preso forma concreta, con l’autonomia dei musei nelle leggi Franceschini, quanto per intero era già previsto nel Codice del 2004.
Ma c’è un altro profilo che rientra nello stesso ordine di concetti e che appare particolarmente rilevante in sé e per le imprese culturali.
Il compito di tutte le istituzioni pubbliche a cominciare dal Mibact di promuovere conoscenza, utilizzazione e fruizione dei beni culturali è un preciso dovere sancito dagli artt. 6.1 e 112.1 del Codice e riconosciuto come tale dalla migliore dottrina. Con una implicazione importante: che rispettarlo è il primo compito e che in mancanza di risorse proprie è doveroso ricorrere, ogni volta che ve ne sia la possibilità, alle modalità di gestione indiretta (concessione o altre forme cooperate). L’art.115 Codice e in particolare il suo comma n.4 vanno dunque letti nel senso che l’unica opzione esclusa a priori è l’inerzia perché l’amministrazione, prima di vedersi costretta a omettere la (doverosa) valorizzazione dei beni culturali in pubblica appartenenza, dovrà verificare l’eventuale praticabilità della gestione in forma indiretta dandone, in caso di esito negativo, adeguata ragione.
Si tratta, come si vede, di elementi squisitamente intrinseci o strettamente connessi alla amministrazione: meglio, per essere più precisi, a tutte le amministrazioni pubbliche e dunque non solo al Mibact, ma anche a Regioni e sistemi locali, cui quanto fin qui osservato si estende senza differenze sostanziali. Compresa, purtroppo, l’instabilità indotta dall’avvicendamento di amministratori e dirigenti che rende particolarmente difficile l’instaurarsi, o il mantenimento, di soddisfacenti relazioni tra apparati e imprese. La relazione tra amministrazione e imprese culturali richiede condizioni di stabilità e prevedibilità sia di regole che di criteri di azione e di organizzazione. Ma è proprio ciò che manca, per l’opacità di procedure e la fragilità del sistema politico: al centro, per l’instabilità di maggioranze parlamentari e di Esecutivi, e anche nelle regioni e nei sistemi locali ove l’elezione diretta di governatori e sindaci assicura una certa stabilità nel corso del mandato ma sconta poi forti discontinuità alla scadenza e nell’avvicendamento.
Resta infine aperto il problema delle risorse finanziarie, ma qualcosa si sta muovendo anche su questi punti sia in casi specifici e nel rapporto con gli istituti di credito e i servizi bancari (si veda il recente accordo Acri-Abi per il progetto Funder35 dedicato proprio all’impresa culturale giovanile) sia in termini più generali e sul decisivo fronte degli investimenti in equity ove si registrano innovazioni recenti, e dunque ancora tutte da verificare, come quelle dei Pir (Piani individuali di risparmio) che, introdotti con la legge di bilancio 2017, a fronte di forti sgravi fiscali stabilizzano per un periodo di almeno 5 anni investimenti privati in questo tipo di imprese.
Per concludere. Il terreno dell’impresa culturale è ancora molto mobile e eterogeneo, ma è indubbio che molte innovazioni significative possono essere introdotte utilizzando una vasta gamma di strumenti e incidendo in modo mirato sul piano funzionale e organizzativo degli apparati pubblici. Percorrendo cioè un primo tratto di strada che fin d’ora può contare sulla adesione della maggior parte degli attori interessati e avere, per questo, buone possibilità di riuscire. Un aspetto, anche questo, da considerare.
Marco Cammelli
Francesco Mannino, Focus Impresa Culturale. L’Aquila, conferenza nazionale dell’impresa culturale
Franco Broccardi, Focus Impresa Culturale. Imprese culturali e creative alla ricerca di definizione
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Claudio Bocci, La cultura fa impresa