Faragola punto, a capo. Lo sfregio al sito archeologico come sollecitazione al presidio attivo della musealizzazione temporanea
Il rogo di Faragola invita a considerare l’ipotesi della musealizzazione temporanea come risposta alla latitanza di progetti di gestione e forme di tutela attiva, nei luoghi di interesse storico-artistico. Una proposta potrebbe essere un’esperienza già rodata in Puglia e premiata in Europa.
Faragola punto, a capo. Troppo ottimistico pensare di poter ripristinare la fruibilità che caratterizzava il sito archeologico prima del rogo divampato nella notte tra il 6 e 7 settembre? Uno sfregio che ha indotto il Presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali e paesaggistici, Giuliano Volpe, a lanciare sul web un accorato grido di dolore: “Mosaici danneggiati irrimediabilmente, marmi cotti, calcinati per il calore, strutture murarie distrutte! L’oscillum decorato con la figura di una danzatrice rubato. È la fine”. Non è un caso sia stato lui, in quanto fautore della restituzione alla collettività dei ruderi della villa di età romana e tardoantica, in quel di Ascoli Satriano, cittadina della rovente capitanata foggiana, nota per i preziosi “Grifoni” e per aver dato i natali all’attore e regista Michele Placido. Per ben quindici anni, Volpe coordinò un’équipe di archeologi, restauratori e studenti universitari di tutto il mondo, organizzando un rinomato cantiere-scuola, sino al febbraio 2017, quando l’“Area Archeologica di Villa Faragola e Parco del Serpente” furono inaugurati dalla Presidente Laura Boldrini che – affascinata dai preziosi mosaici della estesa palestra - riconobbe nell’intervento una “buona prassi nell’utilizzazione di risorse per la tutela e la valorizzazione del nostro eccezionale patrimonio artistico e culturale, il bene più prezioso e identitario che l’Italia possieda”.
Un mix di operazioni di recupero (sostenute da generosi finanziamenti, con il primo lotto dei lavori realizzato dall'Università di Foggia, poi da fondi ARCUS, quindi da MiBACT e Regione Puglia per il completamento) polverizzate in una notte. "Sembra un intervento programmato, fatto da persone esperte", commenta, sempre sul suo blog, Volpe; un’ipotesi attendibile, l’eventuale natura dolosa del rogo; incendio che ha abbattuto finanche l’estesa copertura realizzata in materiale ignifugo, sebbene dai primi sopralluoghi non siano stati rilevati inneschi o tracce di esplosivo sulla scena. Questi i fatti. Ma il gravissimo episodio, perché non resti un triste fatto di cronaca, sollecita una urgente riflessione sulla presa d’atto dell’assenza per il sito archeologico devastato, sia di forme di tutela – peraltro era disinnescato l’impianto antincendio - che di un progetto di valorizzazione: una situazione emblematica perché frequente in tutta Italia.
I lavori erano sospesi da alcuni mesi, sebbene fosse stata deliberato un finanziamento di 1.600.000,00 euro, per corredare il complesso museale anche di didattica e servizi aggiuntivi, somma che andava a sommarsi ad un precedente cospicuo budget destinato al recupero. Un lungo periodo di stasi che ha inevitabilmente spezzato quello “stretto legame tra ricerca-formazione-tutela-valorizzazione-comunicazione-fruizione”, e interrotto quella “filiera complessa, da curare in tutte le sue parti”, tanto auspicata da Volpe stesso. Ed è qui il punto: a fronte di successi nel panorama accademico internazionale, come quello di Faragola, l’atavica questione dell’interconnessione tra gestione, tutela e valorizzazione pare non abbia trovato soluzione neppure nel sito archeologico “del cuore” della massima carica dell’organo consultivo di carattere tecnico-scientifico del MiBACT, diventando così sentinella di allarme di un problema allargato, non locale ma nazionale.
Se si escludono i trenta musei e siti archeologici autonomi e i trasferimenti demaniali di caserme e beni di interesse storico artistico che necessitano, già in fase di candidatura, di un progetto di valorizzazione e gestione e qualche sporadico bando regionale o comunale finalizzato al recupero e valorizzazione sostenibile, l’ingente impegno finanziario pubblico, volto alla riqualificazione dell’immenso patrimonio italiano, resta spesso finalizzato al mero recupero e a una sorta di manutenzione ordinaria - e, nella migliore delle ipotesi, anche straordinaria - specie lì dove il bene è di competenza delle amministrazioni locali.
Se, ad esempio, facciamo riferimento alla Puglia, oggi una delle mete turistiche più ambite, dove è in atto un ambizioso progetto di destagionalizzazione (ndr. “Puglia365”), possiamo guardare al caso eclatante dell’intervento “spot” del Parco archeologico “Le Basiliche“ di Siponto, non molto distante da Faragola, frutto di visioni avanguardistiche del Soprintendente Luigi La Rocca che autorizzò la scenografia onirica di Edoardo Tresoldi per rilanciare, con una modalità differente, un sito che sarebbe rimasto uno dei tanti scavi italiani a cielo aperto: oggi, invece, selfie e numeri da capogiro per quello che è diventato un “grande attrattore” della regione. Eppure, anche questo complesso, dirimpettaio degli intriganti e preziosi Ipogei Capparelli, rischia di restare una cattedrale nel deserto, ancora privo di un progetto di gestione e decentrato rispetto a più fortunati percorsi culturali e di turismo slow.
È d’obbligo, pertanto, una risposta all’interrogativo che si pone Giuliano Volpe: “Ci sono le condizioni? Le condizioni ‘ideali’ prevedono anche che ci sia un progetto di gestione, affidabile, sostenibile, di qualità, con personale qualificato. Ma dove, in quali musei e siti archeologici, ci sono tali condizioni? Forse bisognerebbe accettare questo dato: non ci sono ancora le condizioni per realizzare un parco archeologico.” Ritengo, invece, che le condizioni si potrebbero creare anche in tempi brevi se cominciassimo ad attuare, in larga scala e in maniera sistemica, come richiamato anche dalla recente Conferenza Nazionale dell’Impresa Culturale tenutasi a L’Aquila il 5 luglio scorso, modelli di gestione dalle modalità innovative e non condizionati dalle stringenti clausole di appalti milionari che legano il “grande” soggetto gestore di turno al sito, per lungo termine; il che comporta una soluzione che, se va bene, induce spesso a un monopolio non sempre foriero di un’offerta culturale di ricerca quanto di cassetta e, qualora vada male, conduce a una ricaduta negativa sugli investimenti infrastrutturali, negando occasioni di lavoro stabile e ben retribuito. Quindi è auspicabile una gestione più flessibile del patrimonio storico-artistico, integrata e partecipata a livello territoriale e non calata dall’alto, connessa e integrata all’humus culturale e sociale autoctono anche quando l’appalto venga affidato a grandi società e cooperative ben radicate e diffuse su tutto il territorio nazionale.
La proposta dal “museo temporaneo diffuso”, strategia di valorizzazione “a progetto” mediante le arti visive contemporanee e le performing art, corredata da progetti di animazione, didattica e gestione, può rappresentare un presidio costante in quei siti differenti per natura giuridica, di proprietà statale come privata ma anche beni ecclesiali, magari poco appetibili perché predisposti ad una fruizione stagionale (pensiamo alle torri costiere, ad esempio), partnership con no profit e imprese culturali che riescono ad attrarre finanziamenti locali, statali o europei, insieme a poli museali, soprintendenze, amministrazioni comunali, industrie culturali, stakeholder istituzionali, professionisti del settore della valorizzazione dei beni culturali e di didattica museale, architetti, maestranze e tecnici, coinvolti nella realizzazione dei servizi, imprese turistiche, comparto enogastronomico, creando un network con gli uffici di promozione turistica, le organizzazioni di guide e mediatori culturali. Un modello che ha caratterizzato, per un decennio, il progetto Intramoenia Extra Art, prodotto in Puglia dall’associazione Eclettica_Cultura dell’Arte e riconosciuto dalla Commissione europea e dal MiBACT anche come nuova modalità di turismo culturale che ha toccato per Castelli di Puglia e palazzi storici di Puglia, sino ad arrivare nel porto di Rotterdam nell’edizione WATERSHED, alle cave di pietra pugliesi in CASA FUTURA PIETRA e alle periferie. Una soluzione che non sempre genera entrate dirette, bensì porta indotto ai musei e siti ospitanti preesistenti e benefici alle comunità del luogo, perché - oltre a rappresentare un presidio attivo per luoghi chiusi al pubblico o privi di un programma di gestione - rinforza il concetto di “valore del bene comune”.
Si viene così a creare quell’ecosistema che è già una forma di tutela che potremmo definire “partecipata” e che – mediante una fase successiva di messa in rete “istituzionalizzata” – potrebbe favorire il consolidamento di poli strategici di riferimento per la fruizione e valorizzazione del prodotto turistico-culturale, dedicati anche al confronto tra gli artisti, allo sviluppo di nuovi talenti, al potenziamento di forme di innovazione e sperimentazione di linguaggi molteplici.
Per questo, suggerisco agli archeologi di non preoccuparsi solo della tutela del bene, tanto da preferire - come palesava Volpe citando le parole del prof. Martens - il “rimettere tutto sotto terra a scavo finito".
La storia è prima di tutto vita e insegnamento, è patrimonio comune da scoprire e conoscere e magari re-inventare. Pertanto, estendere e rendere strategico il modello di gestione del “museo temporaneo“ potrebbe rappresentare un primo passo verso la creazione di una struttura operativa diffusa e di qualità, stabile e duratura perché parte del territorio, offrendo peraltro una forma di tutela meno onerosa per l’ente pubblico, in funzione del più moderno network tra operatori e istituzioni, in linea con quel welfare culturale che l’Europa chiede.
Giusy Caroppo, storica dell’arte e curatore indipendente, esperta di valorizzazione integrata
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