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Distretti e ICC

  • Pubblicato il: 07/07/2016 - 14:52
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Luca Dal Pozzolo

Le politiche distrettuali concentrano a un tempo un’elevatissima eterogeneità e una altrettanto forte necessità di stretta integrazione e di coerenza interna, specie se si guarda a distretti “a guida culturale”.  Gli effetti territoriali sistemici, la spirale ascendente di sviluppo che si richiede al distretto, l’orientamento alla sostenibilità di lungo periodo affondano le radici nei caratteri economici, sociologici, paesaggistici e cultural-antropologici di un territorio e sono difficilmente costruibili a freddoin provetta e poi trapiantabili in un luogo specifico. 
La necessità di contemperare qualsiasi policy con una crescita dal basso, che metta a frutto le capacità imprenditoriali locali, che faccia dell’immanenza dei caratteri culturali e antropologici del luogo una spinta allo sviluppo e non un freno al cambiamento, non costituiscono un offerta rituale alla specificità del territorio, una sorta di tassa da offrire per ingraziarsi il genius loci, ma la spina dorsale stessa delle possibili dinamiche di sviluppo.

Senza questa intelligenza del luogo e del “dolce modo” con cui volgere a favore di un progetto futuro le potenzialità locali, i trapianti provocano rigetti, il seme si disperde e secca, lo spunto iniziale s’impaluda appena terminati gli incentivi.
In questo senso la coerenza interna, la strutturalità delle traiettorie convergenti, un filo rosso comune a tutte le iniziative costituiscono una delle precondizioni per il successo di politiche distrettuali e ciò che tiene insieme l’assoluta e necessaria eterogeneità delle azioni che si rivolgono a diverse tipologie di attività.
Soprattutto nel campo delle ICC, la pluralità dei soggetti presenti, le motivazioni e i caratteri imprenditoriali da cui sono animati, le prassi operative e gli impatti sul piano sociale non configurano una policy, ma una sciame di policies, sartorialmente diversificate e costruite sul tipo imprenditoriale di riferimento.
L’omologazione dei significati e la sinonimia retorica tra nuova impresa e start up, provoca danni concettuali e programmatori di grande portata. Non tutte le nuove imprese sono start up, un nuovo studio professionale, una cooperativa sociale, e una nuova tabaccheria non sono start up. Non per nulla, gli americani distinguono la start up dall’impresa life style: la prima usa la tecnologia e l’innovazione come propellente per deflagrare in un mercato globale. Necessita di finanziamenti ingenti e immediati, va sostenuta in una crescita abnorme e accelerata, il suo modello di competizione è estremo e vagheggia il  monopolismo, la proprietà passa velocemente di mano in mano, ed è terreno di caccia per industrie globali che si definivano start up solo qualche anno prima. L’impresa life style cresce moderatamente, non di rado ha basi famigliari, ha una cultura imprenditoriale imbevuta di caratteri locali, ha cicli di vita e necessità finanziarie completamente diversi, il suo rapporto con il territorio - a differenza delle start up – è importante, per il rapporto con i dipendenti, per il know how accumulato, per la condivisione dei valori culturali del luogo. Molto made in Italy è fatto così, molti distretti vedono in queste aziende il loro traino principale e anche molte attività in crisi, oggi necessitanti di un ripensamento e di una rifondazione,  sono di questo tipo. E non c’è dubbio che le policy di crescita o di salvataggio per questi soggetti non siano isteriche come quelle richieste dalle start up la cui veloce mobilità rende spesso irrilevante il rapporto con un territorio specifico.

Se invece si guarda a uno spin off universitario, anche qui in molti casi la logica della start up può apparire eccentrica e disassata: gli spin off, nella loro vocazione alla ricerca e all’innovazione possono irrorare di risorse preziose e di traiettorie di sviluppo le filiere tradizionali di un territorio, la struttura produttiva fortemente connessa e interrelata dei distretti della terza Italia. Non c’è dubbio che anche in questo caso servano policy specifiche e attentamente mirate.
Le attività culturali di base, specie quelle votate alla gestione del patrimonio storico e dei beni culturali, che pure rappresentano un collante prezioso e indispensabile tra struttura produttiva, paesaggio, turismo e qualità della vita locale, perseguendo impatti sociali e culturali del tutto specifici, richiedono oggi una ricerca di modelli di sostenibilità gestionale ed economica sempre più sofisticati e precisi alla fattispecie in questione, se si vuole uscire da modelli assistenziali di puro sostegno pubblico ai servizi erogati: un ampio campo di sperimentazione gestionale si apre in questo comparto, ma all’interno di un alveo di sostenibilità economica e di possibilità di produzione di profitto assai stretto e qualche volta duramente delimitato, come un corso d’acqua sprofondato in un profondo calanco.  Inutile richiamare, anche qui, la necessità di un atteggiamento sartoriale delle policy di sostegno e di raccordo tra ente pubblico e attività privata. Necessità di customizzzione altrettanto profonde e indispensabili potremmo declinarle per le imprese operanti nello spettacolo dal vivo, per i servizi al turismo, per le attività di valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, per le politiche di innovazione culturale di settori produttivi profondamente radicati al territorio come le filiere dell’enogastronomia.

Se tutto ciò deve “tenersi” all’interno di una policy distrettuale, allora non c’è dubbio che azioni di facilitazione o sostegno economico indifferenziate risulteranno inefficaci nella maggior parte dei casi e solo casualmente appropriati e capaci di intercettare un effettivo bisogno di una certa tipologia d’impresa. Dal taglio e dal tipo degli aiuti economici, alle garanzie finanziarie e storiche – l’esperienza accumulata, le professionalità – necessarie per l’accesso, alle modalità di restituzione e dialogo con gli enti pubblici, fino alle metodologie di valutazione degli impatti e dei risultati, l’accuratezza e l’appropriatezza alla tipologia economica (spinta eccezionalmente al disegno sartoriale sul caso specifico) diventano condizioni ineludibili di efficacia.
Metodo dispendioso? Sicuramente, perché richiede conoscenza specifica degli operatori di un territorio, richiede dialogo costante per capire se le azioni e i provvedimenti che si disegnano abbiano un referente o ricadano in una sciatta presunzione economicista che non prende mai in considerazione i caratteri dell’impresa e dell’imprenditore; dispendioso perché richiede negoziazione e subito dopo accompagnamento, accompagnamento lungo e dedicato a mantenere le attività entro gli alvei prefigurati, o al contrario a permettere il dispiegamento in golene impreviste, capaci di fertilizzare il campo d’azione, o ancora necessario per cambiare rotta di fronte a ostacoli troppo duri e resistenti per le azioni prefigurate.

E’ dispendioso, perché necessita di impiegare alcune risorse umane a seguire un processo con continuità per tempi medio lunghi. D’altronde, per quanto progettazioni e accompagnamenti siano costosi in termini di tempo e denaro, non rappresentano che una frazione assai modesta rispetto all’ammontare delle risorse spesso investite per policy di sviluppo, in grado, tuttavia, se ben mirate, di moltiplicare per ordini di grandezza differenti, gli impatti positivi e l’efficacia dell’azione. Risparmiare su frazioni modeste di risorse dedicate alla progettazione non è mai una politica lungimirante e, nella maggior parte dei casi, non rappresenta nemmeno una preoccupazione economica in termini monetari – visto che tra l’altro può generare ben più grandi sprechi. E’ purtroppo - e soprattutto - un’economia d’intelligenza, la manutenzione opulenta di una pigrizia intellettuale pervicace che non vuole farsi carico della specificità, che non vuole oltrepassare la barriera di un pensiero genericamente economicista, che non vuole condivisione e possibilità di aggiustamenti della rotta sul campo, che preferisce illudersi che i comandi possano essere impartiti da una cabina di regia estranea e indifferente al territorio. Tutto ciò che è alieno a qualsiasi logica distrettuale.
E’ un modo di pensare i distretti senza territorio, come un grafo di relazioni sterilizzate e rettilinee, un ossimoro banale e improduttivo, un modello concettuale palesemente inadeguato a guidare qualsiasi processo economico, la liberazione dal quale rappresenta, una piccola e necessaria rivoluzione culturale.

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