Cultura umanistica e contemporaneo
Nel 1929, ovvero in un passato non certo antico, pur tuttavia remoto, nonostante l’attuale congiuntura economica mondiale, induca non di rado a una qualche frequentazione con l’anno fatale del crollo della borsa di Wall Street, Paul Valéry annotava: «supponiamo che l’immensa trasformazione che noi stiamo vivendo, e che ci sta cambiando, si sviluppi ancora, alteri alla fine ciò che rimane dei costumi, disponga in un altro modo i bisogni e i mezzi di vita; presto la nuova era produrrà uomini che non saranno più legati al passato da nessuna abitudine mentale. La storia non offrirà loro che racconti strani, quasi incomprensibili: perché niente nel loro tempo, avrà avuto un qualche esempio nel passato». Negli ottanta anni, circa, che ci separano da quello scritto, molto è accaduto nella direzione immaginata, tanto che una delle caratteristiche più diffuse del nostro tempo sembra essere una concentrazione ossessiva ed esclusiva sul contemporaneo che allontana lo sguardo dalla storia, salvo la più recente. Salvatore Settis ritiene che la spiegazione, o parte di una spiegazione, di questa concentrazione sul contemporaneo risieda nell’ansia di «intendere l’enorme complessità del mondo globale, limitandosi a conoscerlo quale esso è oggi, e si tratta di uno sforzo grande». Tuttavia, se l’imperativo di fondo della società contemporanea è davvero questo, appare ancora più necessario chiedersi se l’appiattimento del passato sul presente, cioè degli eventi della storia in una sorta di «soffocante simultaneità virtuale» con l’attualità, in virtù di un loro uso strumentale in funzione dell’attualità (poco importa se politica, sociale, economica) sia quello di cui il nostro mondo contemporaneo necessita. Si parla molto di Europa, in questi tempi, soprattutto dal punto di vista economico, invocando ricette comunitarie per guarire dalla grave crisi che permea il villaggio-mondo globale. E, non di rado, diversi soggetti politici, ma anche economisti e intellettuali, si chiedono se l’attuale organizzazione europea non potrebbe essere più efficiente ed efficace laddove il suo assetto politico fosse meglio corrispondente all’unità monetaria raggiunta nel 2001. Ebbene, com’è possibile riflettere seriamente su una domanda di questa natura senza rivolgere lo sguardo al passato? Secondo il professor Nezar Al Sayyad dell’Università di Berkeley,l’Europa sta abbandonando la propria memoria storica e non sa più vedere se stessa come un prodotto della storia, in quanto identifica ormai la propria tradizione solo nella modernità, e cioè in valori dati per indiscutibili, compiendo un’operazione non molto dissimile da una frequente, quanto sciagurata, petitio principii per cui si dà per scontato che le altre culture debbano condividere i valori della nostra.
Il parere dell’attuale Sindaco di Londra, il conservatore Boris Johnson, in riferimento alla utilità della storia per l’Europa contemporanea, è netto, come emerge dal titolo del suo libro, pubblicato in Italia nel 2010: «Il sogno di Roma. La lezione dell’antichità per capire l’Europa di oggi». Nei ringraziamenti contenuti nel volume Johnson scrive di avere un debito nei confronti del ministro dell’Istruzione del governo laburista secondo il quale «l’istruzione fine a se stessa è un po’ sospetta» tanto che «non si sarebbe dato troppa pena se lo studio delle lettere classiche si fosse estinto completamente in Gran Bretagna», mentre qualche settimana più tardi aveva sostenuto che lo studio della storia medievale era puramente “ornamentale”. Johnson descrive, quindi, la sua reazione a quelle affermazioni «sono stato assalito non solo dall’ira, ma anche da un vero e proprio terrore, al pensiero che tali istinti potessero albergare in coloro che dispongono del potere di vita e di morte sui curricula accademici». E per questa via, il Sindaco di Londra introduce, seppure di sfuggita, un tema di straordinaria importanza, quello riferito alla qualità delle scelte politiche, attuate e in corso di attuazione, da parte dei diversi paesi europei e non, nell’ambito dei programmi di studio della scuola, nei più diversi livelli di età, a partire da quella del cosiddetto obbligo.
Su questa specifica tematica un libro significativo è quello di Martha C. Nussbaum, «Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno delle cultura umanistica» pubblicato in Italia nel 2011. L’autrice, docente nell’Università di Chicago, sostiene che «ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale». Ma non si riferisce alla crisi economica, come si potrebbe pensare, scrive, invece di «una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro, una crisi destinata a essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione. Sono in corso radicali cambiamenti riguardo a ciò che le società democratiche insegnano ai loro giovani, e su tali cambiamenti non si riflette abbastanza. Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniere del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere ilsignificato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo».
Ma quali sono questi cambiamenti radicali? «Gli studi umanistici e artistici vengono ridimensionati, nell’istruzione primaria e secondaria come in quella universitaria, praticamente in tutti i paesi del mondo (…). Visto che la crescita economica è tanto agognata da tutte le nazioni, specialmente in questi tempi di crisi, non ci si pongono troppe domande su dove va l’istruzione e, di conseguenza, dove vanno le società democratiche. Con la corsa al profitto sul mercato mondiale, i valori più preziosi per il futuro della democrazia, specialmente in un’epoca d’inquietudine religiosa ed economica, corrono il rischio di andare perduti (…). Tali capacità sono associate agli studi umanistici e artistici: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi globali come cittadini del mondo; e, infine, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro».
Non è questa la sede per affrontare analiticamente la situazione delle cosiddette materie umanistiche nei programmi della scuola italiana, basti solo segnalare - anche senza parlare delle Università - che si assiste da anni a un costante ridimensionamento degli studi umanistici. Poiché condividiamo la forte preoccupazione espressa dalla Nussbaum sulle ricadute negative di tali scelte nelle formazioni di cittadini consapevoli e, pertanto, capaci di relativizzare i valori, pensiamo che quanto indicato dagli autori citati costituisca magna pars della risposta alla domanda formulata da Arnaldo Momigliano «Perché si studia la storia antica?». Seguendo ancora quanto scrive Salvatore Settis nel suo «Futuro del classico» si può ulteriormente precisare la risposta alla domanda di Arnaldo Momigliano: vale la pena di studiare il classico greco-romanoperché si trattadi «un incessante ricercare i nostri antenati, che per definizione sono lontani da noi e per definizione ci appartengono; che ci hanno generato e che noi generiamo e ri-generiamo ogni volta che li evochiamo nel presente (…) nella spola fra identità e alterità». Questa antichità classica che sentiamo nostra, eppure la riconosciamo diversa da noi; che è intrinseca alla cultura occidentale e indispensabile a intenderla, ma anche ci apre la porta a studiare e comprendere le culture altre; che è serbatoio di valori in cui possiamo ancora riconoscerci, come pure per quello che ha di irrimediabilmente estraneo.
A questo punto, appare doveroso chiedersi, oltre alla scuola il cui ruolo resta determinante, dove altro sia possibile oggi incontrare la cultura umanistica? In Italia, pressoché ogni giorno, nelle nostre città, più o meno grandi, e nel nostro paesaggio, più o meno preservato. Ma la città, come ricorda Italo Calvino nelle «Città Invisibili», «non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, nei corrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste della bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole» e per guardare, quindi riconoscere le linee del passato contenute in queste grandi mani delle città, come dei paesaggi, occorre saperle leggere. Il saper leggere e il conoscere si apprendono certamente a scuola, ma non esclusivamente a scuola. Il saper leggere e la conoscenza si alimentano e si arricchiscono quotidianamente della cultura diffusa delle società e grazie alla rete delle istituzioni culturali presenti nelle società. Il saper leggere e la conoscenza si possono cercare e si devono trovare nei musei, nelle biblioteche, negli archivi. E così come l’Italia è da sempre una terra di città, è altrettanto noto come sia anche il paese dei musei, tanto da essere stato definito «Museo Italia». Tuttavia, già due secoli fa, Johann Wolfgang Goethe scrivevache le discipline possono autodistruggersi in due modi: o perché si attardano troppo sulla superficie delle cose, o per l’eccessiva profondità nella quale si immergono.
Ebbene, chi operi all’interno delle istituzioni culturali, soprattutto con incarichi che implicano una notevole responsabilità, deve chiedersi quanto la nostra produzione di cultura sfugga alla dicotomia enunciata da Goethe, con tanta chiarezza e verità. Limitandoci ai musei, dei quali è maggiore l’esperienza diretta di chi scrive, e che rappresentano, inoltre, le istituzioni sulle quali appare maggiore l’attenzione del pubblico e dei media, è necessario domandarsi se i musei e le mostre che, oggi, ne costituiscono una filiazione, ma anche una sorta di competitor, operino davvero nella direzione di offrire strumenti rivolti all’accrescimento del saper leggere, quindi della conoscenza a un pubblico molto ampio che spazia dai bambini, alle famiglie, dallo specialista al semplice curioso, dal cittadino, al turista. La risposta non è sempre positiva, in quanto non abbastanza viene pensato e realizzato per offrire alle diverse tipologie di visitatori strumenti conoscitivi che non siano superficiali, ma neppure eccessivamente profondi.
Fra la superficialità semplificatrice e la conoscenza che diviene inevitabilmente erudita, esistono molte gamme intermedie di possibilità le quali, tuttavia, devono presupporre sempre la serietà come condicio sine qua non. Una serietà che riguardi la fondatezza delle ricerche e degli studi sui diversi argomenti, una serietà che si estenda all’individuazione di quanto è davvero essenziale per il confronto con pubblici costituiti da non-specialisti, una serietà che interroghi il passato, remoto o recente poco importa, alla luce delle domande del contemporaneo, ma senza forzarlo dentro categorie di pensiero che non gli sono proprie e senza mai dimenticare che «gli effetti dell’accrescersi progressivo della lontananza temporale (al di là della distruttività che il tempo comporta per la conservazione dei documenti) - specie se coniugati con la velocità della trasformazione di civiltà sono potenzialmente distruttivi per quello che riguarda la comprensione del passato - e che anche di questa lotta contro il tempo è fatto lo scrivere storia», come avverte Luciano Canfora.
Ricordando sempre, con grande cura, quanto la conoscenza del passato, costituisca un viaggio nella direzione dell’altro da noi, una immersione rispettosa nella diversità della quale il nostro mondo attuale mostra ogni giorno di avere la più grande delle necessità.
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Paola Pacetti, laureata in Storia economica, è stata consulente dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Bologna per le politiche di valorizzazione della cultura scientifica, coordinatore dell’Unità organizzativa mostre e musei. Dal 1998 come consulente del Comune di Firenze idea e progetta il «Museo dei Ragazzi» che viene inaugurato nel 2000 all’interno di Palazzo Vecchio, del quale è responsabile scientifico fino al 2008, quando assume anche la direzione operativa, incarico che lascia nel marzo 2011, per mantenere la direzione scientifica.
E’ stata docente dal 2006 al 2011 nel master post-laurea in comunicazione dei Beni culturali della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze; è autore di opere multimediali e di diverse pubblicazioni, anche per ragazzi, fra le quali il libro «Che senso ha?» con il quale nel 1997 ha vinto il Premio Andersen e consulente di diverse aziende pubbliche e private.