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Cultura e Startup: sinonimi o contrari?

  • Pubblicato il: 27/05/2014 - 19:40
Rubrica: 
NOTIZIE
Articolo a cura di: 
Alessandra Gariboldi

Milano. Cosa c’entrano le start up con la cultura? Se ne è parlato la scorsa settimana a Make a Cube, incubatore specializzato in imprese sociali che ha seguito l’accompagnamento alle 12 imprese vincitrici del bando Cariplo IC_ Innovazione Culturale
La domanda è pertinente, perché sempre più si sente parlare di startup, ma ancora non è chiaro come questo vero e proprio fenomeno (imprenditoriale, ma anche culturale) possa interagire con la cultura, quella dei musei e dei teatri, quella che abbiamo conosciuto sinora e che mostra le fragilità ben note. Questi mondi, così distanti per cultura e presupposti, possono dialogare? Devono Farlo? Con quali rischi?

Forse è giunto io momento di fare un po’ di chiarezza. La prima è di definizione: startup non è sinonimo di impresa culturale.  Le imprese culturali esistono da sempre. Sono molte (e sempre più) quelle che operano non solo nei servizi culturali, ma anche nella produzione, con spirito (e forma giuridica) privatistico, tradizionalmente no profit (dalle compagnie di produzione alle cooperative di servizi, dai centri culturali ai musei di impresa).

Chi opera in cultura, al di fuori del sofferente servizio pubblico, si sta imprenditorializzando, e sempre più cerca di dotarsi di strumenti gestionali, organizzativi e di sistemi di offerta volti a migliorarne la sostenibilità, svincolandosi del tutto o in parte dal finanziamento pubblico. Che, ovviamente, è sempre più scarso.

Altro sono le startup, un termine la cui definizione potrebbe tenerci occupati settimane: c’è chi evidenzia il fatto che si tratta di imprese in nuce, di soggetti imprenditoriali in crescita, chi la vocazione tecnologica – tipicamente operano nel digital – chi l’aspetto vocazionale, nel senso di imprese che hanno come obiettivo primario quello di generare un impatto nel settore in cui vanno a inserirsi.

Comunque le si definisca, e al di là della retorica che le ammanta, sono qualcosa di nuovo, di rischioso per definizione, di innovativo, che sperimenta nuove idee e soluzioni imprenditoriali. E lo fanno in forma di giovane impresa, con spirito (anche se non sempre con veste giuridica) tipicamente profit.

Oggi insomma ci sono imprese culturali – sempre di più, stando alle statistiche – che operano in campi molto diversi da quello del patrimonio. Le startup ad alto valore tecnologico sono solo una piccola parte di questo universo, tanto composito quanto sfuggente.

Cosa hanno in comune quindi queste nuove imprese con le forme in cui è organizzata la produzione e la fruizione della cultura oggi? Nulla. Le modalità operative, gli obiettivi, il rapporto con la contemporaneità, l’idea stessa di mercato, sono quanto di più lontano si possa immaginare dal mondo che oggi (e per secoli) abbiamo chiamato “Cultura”.
Come può la dimensione rapida e leggera come quella delle startup, per cui è determinante la velocità – nello sviluppare prodotti e servizi, nell’immaginare mercati, nel costruire e far crescere le strategie – relazionarsi al mondo tradizionalmente lento delle organizzazioni culturali?

Per ora il connubio è tutto teorico, e alquanto confuso. Cultura e creatività vanno a braccetto nelle politiche europee (e nei piani di sviluppo dei territori), ma la connessione tra questi due mondi è in gran parte descritta in termini farraginosi – con un appello spesso retorico alla creatività – o generici, come quando si mette in connessione il made in Italy con i musei e la cultura diffusa del nostro Paese, la cultura enogastronomica con la cura del paesaggio, le imprese artigiane con le tradizioni locali.

Non che queste cose non siano vere – lo racconta bene il rapporto annuale di Symbola – ma allargando semanticamente il concetto di ciò che è culturale e creativo arriviamo lontano ma non abbastanza: cerchiamo di portare fuori dal recinto dei singoli assessorati le politiche culturali, per reclamarne a pieno titolo la presenza nelle politiche di sviluppo, che è fondamentale ma non basta.
Perché non diamo una lettura veramente culturale – né dotiamo di strumenti operativi per crescere – a quell’immenso tessuto in sofferenza che è il patrimonio culturale e alle sue possibili relazioni con la società?

Come avviene oggi l’incontro tra questi mondi? Innanzitutto avviene molto poco: sempre Symbola ci ricorda che solo l’1% del volume delle relazioni tra imprese culturali coinvolge musei e beni culturali. E questo si deve certamente ai tempi della pubblica amministrazione – proprietario e gestore della maggior parte del patrimonio italiano – ma anche a profonde differenze culturali. Ragionevolmente, tra queste imprese ci sono ben poche startup.

Senza un cambiamento culturale da parte di entrambi, l’incontro avviene su un piano non pericoloso, una comfort zone sterile tanto per l’impresa – che piazza un prodotto ma non coltiva un mercato né genera un impatto – quanto per la realtà culturale, che si dota di strumenti  di cui non coglie il significato e non legge le opportunità. Opportunità che non sono solo di business, ma anche squisitamente culturali. Lo dimostra bene il caso di Centrica, che era una startup nel 2001, quando le startup non erano ancora di moda: un’impresa nata dall’intuizione e dalla competenza di ingegneri e informatici che intravedono un mercato potenziale promettente nella digitalizzazione del patrimonio. A tredici anni di distanza, ancora un’opportunità perduta: Centrica ha effettivamente digitalizzato il patrimonio degli Uffizi e di altre realtà culturali e ha ideato nuovi servizi, ma quella promessa di crescita e sviluppo non è stata mantenuta, e ora propone i suoi servizi anche al di fuori delle istituzioni culturali in senso tradizionale. Operare ai margini è rischioso e non sempre redditizio.

Con lo stesso spirito finiamo col dotare i musei di tablet e app per permettere una fruizione in linea con i nuovi comportamenti di consumo delle persone, ma non rivediamo i contenuti che comunichiamo, né il nostro rapporto con il pubblico, né – in ultima istanza – il nostro ruolo nella società. O meglio qualcuno lo fa, ma sono davvero pochi, come Palazzo Madama a Torino che ha impostato e sta gestendo una strategia social che poggia su una visione strategica chiara e coerente: ampliare e approfondire il suo impatto, culturale e sociale, sui pubblici.

L’incontro tra questi mondi è un’opportunità importante, un fatto culturale e in un certo senso ineludibile, per il quale oggi non siamo attrezzati. Ma dal movimento delle startup abbiamo molto da imparare (dalla propensione al rischio all’attenzione alla contemporaneità). E se vogliamo che sia davvero foriero di cambiamento, questo incontro non potrà che avvenire sul piano delle dimensioni che appartengono (o dovrebbero appartenere) a queste  giovani imprese così come alla cultura: il piano dei valori e quello degli impatti. Valori concreti e simbolici di cui la cultura – quella sedimentata e riflessiva, quella complessa e non riducibile – è interprete e attore. Attenzione agli impatti sulla società e attitudine all’innovazione, che rappresentano la sfida più stimolante delle startup, che ci ricordano che la cultura è sempre contemporanea.

Né sinonimi né contrari, dunque, ma protagonisti di un incontro auspicabile ma che, se non saprà essere pericoloso, sarà anche inutile.

Alessandra Gariboldi
Coordinatore Ricerca e Consulenza Fondazione Fitzcarraldo