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Claudia Losi, passeur di storie

  • Pubblicato il: 19/07/2016 - 11:36
Autore/i: 
Rubrica: 
LA PAROLA AGLI ARTISTI
Articolo a cura di: 
Stefania Crobe

C'è una sorta di magia nei suoi racconti. Come se quel tempo impiegato nel tessere fili e relazioni, nell'attraversare campi, nell'esplorare l'esistente e il possibile, sia per ciascuno l'occasione per 'stare', per prendersi un momento per guardarsi dentro e, in questa sospensione, ritrovare sé stesso e l'altro. Tra trame ed orditi, intrecci, incontri, strabordi, combinazioni alchemiche, riappropriazioni illegittime, come un passeur, Claudia Losi ci traghetta attraverso «Millepiani», qui e altrove.

Il tuo è un lavoro di trame e intrecci, di tessitura. E' la costruzione di nuovi immaginari partendo dall'esistente, dai frammenti, dalla lettura degli interstizi, delle intercapedini.
Penso al lavoro nel Parco Nazionale del Pollino - Qui e non altrove. Qui –, solo per citare quello a me più caro per questioni puramente personali e affettive nei confronti di quei luoghi. Attitudine, vocazione o metodo di ricerca?
In questi ultimi tempi mi è capitato spesso di sentire usare la parola “dispositivo” per indicare come, in determinati contesti, l’opera possa talvolta servire da innesco per dinamiche che cambiano gli equilibri preesistenti o possa, più semplicemente, aprire un possibilità di cambiamento. Un’ambizione enorme questa. Eppure feconda.
Più che creare nuovi immaginari, mi piace pensare che il lavoro dell’artista sia quello di “risvegliare” ciò che è nelle capacità immaginative di ciascuno. Non s’inventa ma si declina diversamente ciò che è nella materia di cui siam fatti, in parte forse dai primi Homo Sapiens. “Partire dall’esistente”, insinuarsi nei varchi in cui il giudizio può essere sospeso, e provare un nuovo intreccio, una nuova combinazione. Qui e non altrove. Qui nel Parco del Pollino ha rappresentato per me questo: un luogo straordinario dal punto di vista paesaggistico e anche umano nel quale ho provato a tessere tra loro, grazie all’aiuto di chi viveva stabilmente sul territorio, storie personali e loci (che per alcuni diventano Genius loci per la propria vita), attraverso una fare, quello del ricamo. Quindi, sì, è un metodo di ricerca, se vuoi, ma certo anche un’attitudine innata: mi piace ascoltare storie, mi piace ri-raccontarle. Passeur di storie.

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Il tuo linguaggio artistico, il continuo dialogo con l'ambiente – natura naturans e natura naturata, naturale e artificiale – e con discipline differenti, nel continuo rapporto con l'altro, più che alla ricerca di un equilibrio mi fa pensare a qualcosa ben espresso dal termine greco Metábasis, una mutazione come paradigma dinamico per la comprensione del reale. D'altronde molte le tue opere costituiscono un work in progress – come Balena project - , un processo mutevole che la tua presenza attiva ma che spesso esulano dalla tua presenza, la superano quasi. Un distacco che immagino sia insito al progetto stesso (penso al progetto a Mirafiori ad es.) ma mi domando se talvolta non provochi una certa nostalgia...
Non la definirei nostalgia, ma anzi un certo piacere nel vedere cosa si produce da questo innesco, da questo abbrivio iniziale offerto mettendo insieme spunti spesso lontanissimi.
Sono lieta che tu abbia utilizzato la parola Metàbasis: sono ossessionata da questa idea trasformativa che soggiace a ogni cosa, vivente e non.
Alcuni miei lavori chiedono, a un certo punto, di fare un passo indietro: da questa posizione privilegiata puoi osservare verso quale direzione andranno, quale la forma, quale il coinvolgimento delle persone... e alla fine, se una fine c’è, il risultato, quello che accade, è spesso ben più interessante di quanto mai avrei potuto immaginare. L’aspetto processuale libero, o meglio “controllato” a una certa distanza, permette a me, e talvolta alle persone coinvolte, di trovarsi in quello stato di meraviglia e coinvolgimento che ha forse a che fare col gioco. Balena Project, per esempio, non è finito, concluso, malgrado la “forma” balena non esista più nella sua interezza: ha preso altri rivoli, diramazioni che come una radice si muovono secondo la composizione del terreno che incontrano. Sto realizzando, finalmente, un macro-racconto di quanto ha rappresentato questo progetto, degli incontri fatti, delle storie che si sono aperte. Voglio farne una pubblicazione. Sarà questo il termine effettivo del progetto: la sua narrazione.

Non di rado con te l’arte e la scienza, le discipline biologiche si incontrano, spingendoci e invitandoci ad analizzare le realtà come organismo complesso e non distinto. Perché e quali esiti producono questi ‘incontri promiscui’?
Qualche anno fa ho realizzato una serie di sculture dal titolo Biotopes. Letteralmente, riferito a un ecosistema, significa “il complesso ecologico in cui vive una determinata specie animale o vegetale, o una particolare associazione di specie”.
Sono delle forme in tessuto imbottito che riproducevano, idealmente, delle forme simbiotiche, delle convivenze possibili. Alcune di queste sono servite come matrici per un calco in cemento. Queste ultime, lasciate all’aria aperta, diventano, nel tempo, luoghi di ulteriore convivenza (alghe, licheni, muschi, per esempio). Le superfici, che hanno mantenuto lo stampo della tessitura, accolgono trasformazioni vegetali, chimiche, interagiscono con l’aria, la pioggia, la luce. Lo stesso lavoro, mi piace pensare, può essere letto in molti modi. Come ogni fenomeno intorno a noi: bisogna decidere dove situarsi e da dove guardare.
In un mio testo, uscito recentemente con la Humboldt Edizioni, e realizzato in occasione della mia mostra personale alla Collezione Maramotti (7 maggio-16 ottobre 2016), a Reggio Emilia, racconto meglio quanto vorrei risponderti: “...cerco di mettere a fuoco la mia prima preoccupazione sulle cose, cioè l’occasione di aprire varchi possibili e immaginari che si radicano a luoghi, altre volte a luoghi-persona, a momenti in cui i piedi non vanno più avanti e allora bisogna cercare altre piste di viaggio. Spesso i piani di realtà si confondono, convivono simultaneamente, e noi non facciamo che saltare, da una parte all’altra, tra il qui e l’altrove, per riprendere l’equilibrio necessario, per rendere l’esistenza percorribile, anche nel buio. Sono due andamenti descrittivi che s’intrecciano, un canone che si sdoppia: la descrizione innescata dall’esperienza e la descrizione che nasce dall’immaginario si combinano e producono un luogo ancora diverso. How do I imagine being there?, Humboldt Books, Milano, 2016

Aggiungerei: realizzano “un luogo promiscuo”.

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Le tue opere analizzano i luoghi di interstizione. Nell'elogio della lentezza, che si esplicita nel gesto dell'attraversamento e del ricamo, i concetti si fanno immagini, simboli, miti e viceversa decostruendo l'immagine di territorio che la scienza moderna ci ha fornito, decolonizzando gli immaginari per costruirne di nuovi. Elementi ricorrono e la figura femminile assume un ruolo fondamentale, come la natura. Cosa rappresentano per te e per il tuo lavoro questi elementi?
Il tempo della mano che muove il filo, la crescita di un lichene su una superficie porosa, una storia che passa di bocca in bocca, l’ascolto di chi desidera “esserci” raccontandosi, un cammino condiviso o solitario, appartengono a un unico tempo. E se il femminile è nascita e cura, sì, allora intendo la tua osservazione. Esistono azioni fondative di senso. Che fondano, riattivandolo ogni volta, un senso profondo. Per pochi, a volte pochissimi, oppure aprendo gli interstizi di cui parli e offrendoli a una collettività. Sono argomenti talmente vasti, complessi che quasi mi sembra inopportuno parlarne io, in questo modo!
Qualche mese fa rispondevo a Pietro Gaglianò, per una sua intervista: “L’episteme che mi interessa è la tessitura. Tessitura in senso materiale: una trama e un ordito che intrecciandosi creano una struttura, che tiene, che può raccogliere, avvolgere e che ha un sopra e un sotto. Oppure un grumo di feltro, filo s’incastra a filo, squama a squama, e le direzioni sono multiple. Riprendendo maldestramente qualche ricordo da Milles Plateaux di Deleuze e Guattari, intendo la tessitura in senso metaforico: un pensiero rizomatico, una texture di connessioni, di nodi, a “macchie di crescita”. E così torno alla natura, al paesaggio spontaneo, ai percorsi: un Rizhocarpon geographicum, un lichene giallo-verde colonizza una roccia silicea esposta alla pioggia, una pianta pioniera. La texture diventa così un principio ermeneutico...” (raccolta nella pubblicazione: I can reach you (from one to many). Bianco-Valente, Claudia Losi, Valerio Rocco Orlando, Associazione Culturale Dello Scompiglio, Vorno (LU), 2016)

Qual è il tuo rapporto con il ‘pubblico’, il mondo che incroci, che coinvolgi, che fruisce le tue opere, le collettività che si creano intorno ad esse?
Ogni progetto è una storia a sé. Alcuni si “esauriscono” altri procedono, magari sotto forme diverse, e ancora animano una sorta di collettività. Un aver fatto parte di.
Ci sono stati incontri, resi possibili da queste “sollecitazioni-innesco”, che porto con me, come lares (non defunti cari ma “presenze” di sostegno). Sarebbero tanti i racconti.
Molti sono le reazioni avute da bambini, che crescendo hanno mantenuto ricordo dell‘incontro con alcuni miei lavori, trasformandolo ognuno a proprio modo.

I tuoi lavori abbracciano le situazioni, i contesti, l’«altrove»; creano un «déplacement», spaziale e mentale. C’è un progetto a cui sei particolarmente legata e che hai fatto fatica a «lasciar andare»? A cosa stai lavorando ora?
Non faccio fatica a risponderti. Sicuramente Balena Project è un progetto che non sono ancora riuscita a chiudere perché quando tento di sistematizzare tutto il materiale raccolto, si aggiungono sempre nuove possibilità di ricerca, nuovi incontri che arricchiscono ulteriormente questo paesaggio-balena in cui mi muovo da anni. Ma anche il progetto che prende avvio da un viaggio realizzato nell’arcipelago di St. Kilda, raccontato nella mostra di cui ti accennavo prima, How do I imagine Being There?, sta già prendendo possibili ulteriori direzioni.

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Ti sei confrontata spesso con l’industria della moda. Come l’arte può incontrare l’impresa?
Mi è capitato spesso di collaborare con aziende hanno deciso d’investire, in particolare con il proprio “saper fare”, a miei progetti. Spesso con un entusiasmo contagioso.
Dipende prima di tutto dalle persone, dalla visione mobile che hanno rispetto alle possibilità che il confronto con la modalità spesso “anarchica” e pure un poco insolente dell’artista, può rivelarsi un arricchimento. La capacità di guardare al lavoro di ogni giorno attraverso gli occhi di chi non sa quasi nulla di “come si fa” ma che rimane incantato di fronte all’abilità, alla sapienza dei gesti, alla tecnologia necessaria può rivelarsi utile per l’effetto moltiplicatore e creativo che può avere su chi sta “dentro”.

Una domanda che ricorre nelle nostre interviste, una ricerca che portiamo avanti e che presenteremo ad ArtVerona: «What's art for», come (e se) l'arte serve, può porsi al servizio della società?
Dio mio che domanda! Non so se l’arte serva, ma è indispensabile. E' un paradosso. Non potremmo fare a meno, come esseri umani, di un luogo dei possibili come l’arte (e la letteratura, e le arti in genere) dovrebbe sempre essere. A volte questi luoghi del possibile appassiscono. Come ogni agire umano, temo. Occorre una sorta di resistenza. Occorre una qualche forma di responsabilità rispetto a ciò che si fa e si dice. Che ci si riesca, poi, è tutta un'altra storia.

© Riproduzione riservata

Claudia Losi (Piacenza, 1971) studia all'Accademia di Belle Arti di Bologna e si laurea in Letteratura e Lingue straniere all’Università di Bologna.
Tra le numerose esposizioni in Italia e all’estero, le più recenti includono: Collezione Maramotti, Reggio Emilia (2016), Triennale Design Museum, Milano (2016); Livorno In Contemporanea; Tenuta dello Scompiglio, Vorno-Lucca (2015); La Maréchalerie_énsa V, Versailles; Studio Orta Les Moulins, Boissy-le-Châtel; MAMbo, Bologna; Monica De Cardenas Gallery, Zuoz (2013); MAXXI, Roma (2012 e 2010); Via Farini-DOCVA, Milano (2011); MAGASIN, Grenoble; Royal Academy, Londra (2010); Stenersen Museum, Oslo; Museo Marino Marini, Florence; Ikon Gallery, Birmingham (2008).
La ricerca di Losi guarda alla natura e alle scienze come fonte primaria d’ispirazione così come agli aspetti storici e antropologici dell’ambiente in cui viviamo. Lavora con diversi media come installazioni site-specific, scultura, fotografia, video e opere tessili e su carta. Losi esplora il concetto di narrazione attraverso l’arte e la scrittura creando, per esempio, nuove comunità d’interazione umana.

Credits e didascalie, in ordine di apparizione:

Les Funérailles de la Baleine (cover)
Balena Project, 2010
Photo: Dario Lasagni

Here and not Elsewhere. Here.
Project involving local communities and the Pollino National Park, Italy, 2009
Courtesy Arte Pollino e Claudia Losi
Photo Angela Rosati and the artist.

Biotopes , 
Courtesy Collezione Maramotti, Reggio Emilia e Monica De Cardenas, MilanoPhoto: Andrea Rossetti

How do I imagine being there?, 2016
Installation views of the show, Collezione Maramotti, Reggio Emilia
Photo: Andrea Rossettiwww.claudialosi.info
www.artepollino.it/artisti/claudia-losi
www.collezionemaramotti.org/it/work-in-progress/201658/Claudia-Losi-/1637
www.humboldtbooks.com/artists-books/claudia-losi/

Galleria di riferimento:
www.monicadecardenas.com/zuoz/artists/claudia-losi/#works

Video Intervista Collezione Maramotti:
https://www.youtube.com/watch?v=Ar-ByZyeFwc