Che jattura la fattura
Uno, ed è un pesce grosso, dice che preferisce non dare notizie sulle quotazioni dei suoi artisti «per salvaguardare la privacy dei nostri collezionisti»; altri non usano neanche la cortesia di rispondere; poi ci sono quelli che non rispondono, e non sono pochi, perché per loro il 2012 è stato l’anno della chiusura ufficiale dell’attività. Gli effetti dell’annus horribilis (un altro di una ormai lunga serie) delle gallerie si sono fatti sentire anche nella compilazione dell’«anagrafe» dei mercanti italiani e dei loro artisti che da quasi un quarto di secolo questo giornale pubblica, ad ogni febbraio, nel «Rapporto Arte Contemporanea», l’annuario che dà il polso di mercato e dintorni.
Alla reticenza dei predetti pesci grossi, in realtà, ci avevamo fatto il callo: anzi, più sono squali più si muovono con grottesca cautela e burocratico grigiore. Alla morìa galleristica, invece, sarà difficile abituarsi. Se gli squali rimangono, sempre più muti e monocromi, scompare, esattamente come tra i collezionisti, la variopinta «fascia media», quella su cui da sempre poggia la piccola economia dell’arte vigente in Italia. Resta la baronia, insomma, e sparisce la «borghesia» del mercato, fatta di galleristi che propongono opere tra i 20 e i 50mila euro a un ceto di professionisti e piccoli imprenditori terrorizzati dalla recessione e dalla psicosi da redditometro.
C’è un aspetto, in tutto questo, che però fa pensare male. Perché negli ultimi 15 anni mai come nel 2012 in Italia si era registrata tale epidemia di chiusure. Legittimo, dunque, un sospetto: che più della crisi finanziaria (iniziata nel 2008), più dell’Iva (altissima per gli operatori italiani da tempo immemorabile), più del droit de suite (entrato in vigore nel 2006), ovvero più dei motivi che i galleristi adducono per spiegare il fuggi fuggi, a innescare l’escalation di defezioni sia stato il giro di vite del governo Monti sui controlli fiscali e sulla trasparenza dei conti. Che altro non vuol dire se non pretendere che vengano emesse regolari fatture. Se il sommerso dovesse avere consentito per decenni ai galleristi non solo di far fronte alle crisi periodiche, ma anche di resistere (spesso floridamente) in una nazione per le cui maggioranze parlamentari l’arte e la cultura e l’economia a esse legate non contano nulla, vuol dire che quel «nero» era una gran bella fetta. Molte volte, su queste pagine, abbiamo difeso, e continueremo a farlo, i galleristi, la categoria che, nella produzione di cultura, si assume il massimo grado di rischio, e nella quale sono molti coloro che lavorano in totale regolarità. Ed è condivisibile il «cri de cœur» lanciato da Massimo Di Carlo, presidente dell’Associazione Nazionale di categoria, nello scorso numero di «Vernissage».
D’altra parte, per ammissione di alcuni esponenti della categoria, il mercato dell’arte sarebbe sempre stato particolarmente idoneo al sommerso. Senza contare che sarebbe interessante, un bel giorno, sapere quanto denaro vero circoli, in un mondo fatto di scambi, di crediti, di pagherò, di strette di mano, pacche sulle spalle, quotazioni spesso irreali e altrettanto incredibili sconti. Ora si sta delineando un piatto paesaggio fatto di pochi squali con saracinesca alzata e di centinaia di galleristi rifugiati nel meno esposto ruolo di mercanti-courtier. E in questo scenario è lecito chiedersi se può definirsi economia reale, di cui beneficiano sia i singoli sia il famoso Pil (l’Eurispes calcola che il sommerso in Italia vale, in totale, 530 miliardi di euro all’anno, il 35% del prodotto interno lordo), quella basata su un mercato che, se le cose stessero come sembrano, non esisterebbe per tanti suoi operatori se questi pagassero le tasse.
E chiedersi, come ha fatto recentemente su Radio 3 Lidia Salvini, docente di diritto tributario alla Luiss, se ha ragione di esistere un’impresa che vive solo se evade.