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Cattive Compagnie Cercasi per Imprese Memorabili, fra utopia e latifondo culturale

  • Pubblicato il: 16/05/2017 - 11:51
Rubrica: 
DOVE OSA L'INNOVAZIONE
Articolo a cura di: 
Edoardo Montenegro

A Matera, Capitale Europea della Cultura 2019, durante la prima tappa di ArtLab 17, IL Festival delle politiche cultutali, Fondazione Fitzcarraldo ha chiamato a raccolta operatori della scena creativa lucana e i finalisti e vincitori di numerosi bandi e programmi di innovazione e imprenditoria culturale in Italia, tra cui Funder35 (comitato 18 FoB finanziatrici + ACRI), bandi Fondazione con il Sud, iC-innovazioneCulturale (Fondazione Cariplo), Culturability (Fondazione Unipolis), Open e Ora! (Compagnia si San Paolo), Culturalmente Impresa (Fondazione CariPaRo), PIN (Regione Puglia), Creative Business Cup Italia (Matera Hub) e CheFare.
 


 
Matera. Venerdì 5 maggio, alla prima tappa di Artlab 17, l’incontro  «Cattive Compagnie Cercasi per Imprese Memorabili» ha prodotto sei ore di confronto serrato – in plenaria e attraverso tre panel tematici: Fare impresa al Sud, Co-creazione coproduzioni e partecipazione, Lunga (e nuova) vita ai prodotti culturali – fra un centinaio di associazioni, cooperative e imprese che sono per lo più nate in anni recenti come prototipi e aspirano ora a trasformarsi in una vera filiera di produzione culturale.
 Che cosa accomuna queste realtà, contraddistinte in ogni caso da una forte eterogeneità settoriale, organizzativa e gestionale? La consapevolezza di essere state concepite in un contesto colmo di vincoli, in primo luogo economici e normativi, insieme all’opportunità di disarticolare un sistema culturale che per ragioni interne rischia di condannarsi ad una lenta agonia e alla marginalità; una consapevolezza che diviene più forte nella misura in cui cresce fra gli operatori italiani del settore la percezione di operare nel mezzo di un Mediterraneo deprivato e reciso in due. La guerra a Sud, l’austerità a Nord.
 Hic sunt leones. Le idee al cuore di questi progetti sondano l’orizzonte del nuovo. E l’innovazione culturale, in quanto tale, non può identificarsi con il marketing della cultura. “ Vorrei contestare la necessità dell’analisi dei bisogni – ha spiegato in uno dei panel Francesca Casula di Lìberos, che in Sardegna lavora per unire i soggetti che si occupano del libro e della lettura – se nell’Ottocento prima di introdurre l’istruzione primaria obbligatoria si fosse fatto un sondaggio, dubito che la popolazione analfabeta avrebbe manifestato il bisogno di istruirsi.”
 Stato o mercato? C’è chi chiede di non identificare la cultura con l’intrattenimento e chi suggerisce di allargare lo sguardo, come Emmanuele Curti, ‘archeologo della contemporaneità’ che a Matera vive e opera da quasi tre lustri: Noi parliamo di nostra presenza rispetto ad un qualcosa, all’interno di una cartografia ben precisa, dove la cultura è ancora percepita come sussidiaria, decorativa. Dobbiamo capire come tornare ad una centralità, e generare una nuova relazione con lo spazio misurandoci peraltro con parametri diversi di benessere (e da qui rideclinare il concetto di  welfare in termini culturali, ripensandoci anche in termini economici).
 “Un mercato in ogni caso c’è, proviamo a leggere il contesto in senso positivo – ha chiesto Nicola Facciotto di Kalatà, che a partire dal Monregalese, in Piemonte, si apre ogni anno per accogliere innovatori culturali di altri territori. – La mano pubblica, che se vogliamo accentuare il riferimento ad un ‘mercato’ potrebbe essere definita come il ’competitor’ principale, sta arretrando: la domanda aumenta, il competitor cede posizioni: dobbiamo solo inventare prodotti che funzionino. I problemi, molto spesso, nascono dal particolarismo di chi produce cultura: finché ambisci ad essere il più noto sul tuo pianerottolo, oppure ti auto-attribuisci caratteri di eccezionalismo, non fai massa critica.”
 “La standardizzazione esiste – ha confermato Federico Borreani di BAM! Strategie Culturali, cooperativa specializzata nell’audience development e nel cultural management. – Bisogna studiare e costruire a partire dagli esperimenti: ci occorrono dei format, ma usiamola questa parola.” L’offerta di valore è allora il primo elemento distintivo. Secondo Alessandro Avataneo, ambasciatore di Scuola Holden, “In Italia ci sono troppi autori scadenti. Più che chiederci cosa vogliamo esprimere come autori, noi dobbiamo tornare a creare universi narrativi. Harry Potter e Star Wars lo sono. L’Italia quando riinizierà a produrne?”
 Si sente infine l’urgenza della divulgazione, nella misura in cui l’offerta culturale non si riduce ai prodotti ma costruisce processi “Non dobbiamo soffermarci sul prodotto in sé ma su come la nostra iniziativa può incidere sui comportamenti futuri– ha insistito durante il dibattito, tra gli altri, Beatrice Giuzio di Liberascienza, associazione che in Basilicata organizza il Festival della Divulgazione. – Quanti si interessano di più alla cultura dopo essere stati a un Festival? La nostra azione può cambiare le cose.” Un’istanza, quella che chiede all’università italiana di aprirsi alla contaminazione delle discipline, alla diffusione delle arti liberali in ambito scientifico e alla divulgazione del sapere alla cittadinanza, che pare di strategica importanza; lo argomenta efficacemente Università futura, il saggio che Juan Carlos De Martin ha da poco pubblicato con Codice Edizioni.
 Precari o imprenditori culturali? Emersi attraverso esperimenti lungimiranti di mecenatismo privato, che vedono quali prime protagoniste proprio le fondazioni ma di fatto lasciati soli dallo Stato e dalle imprese private quando cercano di cofinanziare i propri progetti, questi innovatori in cerca di rappresentanza si interrogano oggi su un’identità che li tiene sospesi fra associazione e impresa, talvolta fra non profit e profit, muovendosi sul crinale insidioso e poco esplorato della ricerca di forme ibride che meglio consentano alle loro idee di crescere in modo replicabile, scalabile e sostenibile.
 Viene da chiedersi, allora, se questi braccianti della cultura – questo Quinto Stato che pare germogliare sulle macerie del sistema culturale italiano come il Terzo Paesaggio di Gilles Clément fra le fabbriche abbandonate – riuscirà davvero a emanciparsi dal latifondo degli intermediari tradizionali e a realizzare l’utopia dell’innovazione culturale.
Ricordando i taccuini di guerra del meridionalista altamurano Tommaso Fiore, Norberto Bobbio si soffermava sull’immagine del filosofo che «dice ai suoi compagni di osteria, increduli, che la guerra aveva per iscopo di conquistare il regno di Utopia. Ma dove era mai questo regno? I geografi si erano dimenticati di segnarlo sulle loro carte, e i ministri non avevano messo questa conquista tra gli scopi della guerra. Il filosofo risponde: ‘Pure, se non si conquista la regione dell’Utopia, la guerra è inutile’».
 
Edoardo Montenegro, Presidente dell’Associazione Culturale Twitteratura
 
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Ph: Italo Massari