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CARLO MOLLINO. AMORE E MOLE

  • Pubblicato il: 15/04/2018 - 09:01
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI PER LA CULTURA
Articolo a cura di: 
Amerigo Nutolo

L’omaggio al genius loci, attraverso numerose collaborazioni istituzionali territoriali per la  mostra L’Occhio magico di Carlo Mollino. Fotografie: 1934-1973, -fino al 13 maggio, ci porta a leggere l’era Guadagnini, alla cabina di pilotaggio di  Camera-Centro Italiano per la Fotografia


L’era di Walter Guadagnini in cabina di pilotaggio di Camera-Centro Italiano per la Fotografia sta portando Torino alla massima altitudine, a maturare il ruolo di snodo privilegiato della progettazione di settore. Camera è una fondazione interamente sostenuta da imprese: i soci fondatori Eni, Lavazza, Reda, Magnum e poi Intesa San Paolo, Compagnia di San Paolo e singoli sponsor individuali).  Per fare la differenza agisce investendo sulla cosa fondamentale: aprire al pubblico esperto e nuovo o potenziale una visione, la più ampia, degli scenari dell’immagine e fotografia contemporanea e permettere di osservare dall’alto alcuni snodi della fotografia storica per avere cognizione della natura dei passaggi culturali avvenuti, e di come la rappresentazione vi abbia aderito nel corso del tempo. Se vogliamo, Camera si pone così come una agenzia di formazione diffusa – anche con incontri pubblici regolari dal taglio sempre diverso: tematico, storico, critico e tecnico – che equilibrano tutti i bisogni del pubblico e lasciano margine per un incrocio fra pubblici diversi. La mostra su Erik Kessels (che unisce i rami del suo percorso fino all’attività editoriale) ci ha portato dentro ai nodi della produzione, rielaborazione e percezione dell’immagine da parte della collettività. Quella del 70° di Magnum e quella dei paparazzi, da fronti opposti, rispettivamente hanno attraversato gli eventi storici e fenomeni collettivi, o hanno mostrato come la vita privata dei miti della collettività – già mediatori di immagini, come politici, divi del cinema, etc. – diventi evento in sé, intorno a cui i fatti si provocano e creano ad arte. Si può aggiungere il percorso delle mostre temporanee che ha visto al centro figure chiave di ambiti limitrofi come Ai Wei Wei e Paolo Sorrentino, la collaborazione con istituzioni museali cittadine e fondazioni – il Teatro Regio o il Museo Egizio (con il format dedicato alla fotografia di nuove leve, #EnjoyEternity) – o temi di rilevanza civica più stringente come nei ritratti dell’era mafiosa di Valerio Spada (che fa parte della lista di fotografi italiani ospiti in project room). Mancano molte altre iniziative all’appello, ma queste danno un’idea di come prossimità e trasversalità dei temi e dei soggetti tocchi le diverse anime della sensibilità del pubblico. Le attività didattiche e formative, che stanno per fare un nuovo salto di qualità, di cui parleremo a maggio, fanno il resto. Insomma, diciamo che c’è un profilo oramai evoluto di Camera, che la porta verso l’obiettivo di co-produzioni sempre più strutturate. Ora Camera, con Carlo Mollino, affronta un capitolo nuovo: storicizzato ma sottorappresentato, di Torino ma di rilievo internazionale, protagonista fuori dalle righe di moltissimi ambiti di attività – architettura in primis – questa mostra è una prova importante per la fondazione che Guadagnini è entrato a dirigere un anno e mezzo fa, prendendo il testimone di Lorenza Bravetta, protagonista poi della missione degli Stati Generali della Fotografia.
 
L’unica cosa da fare, se non si conoscono come si vorrebbe vita e opera di Carlo Mollino, è passare da Camera-Centro Italiano per la Fotografia entro il 13 maggio. Dite che siete arrivati per l’esposizione di Enzo Isaia sugli alpini, al Leica Store, o il reportage di Philippe Gras sul Maggio ’68 (ragioni credibili e auspicabili), poi, con calma, visitate L’occhio magico di Carlo Mollino. Fotografie 1934-1973.
 
Ci vuole discrezione. Si rischia di passare per voyeur davanti a oggetti spesso personali – appunti visuali autografi e di varia origine, fotografie di lavoro propedeutiche alla comunicazione di progetto, prove di taglio, manoscritti, scatti privati – oggi conservati dal Politecnico di Torino. Mollino ci avrebbe cacciati tutti, probabilmente, vedendoci frugare fra le sue cose. O dovremmo fare come Yuri Ancarani che, fra feticismo e biografismo, capitatogli in casa per le riprese di Séance, prima d’iniziare la seduta spiritica organizzata per intervistarlo, gli ha chiesto se fosse d’accordo.
Meglio non cercare di capire troppo Mollino: usciti, avreste la sensazione d’esserne stati sfiorati, d’averlo intravisto più volte, come il passaggio d’aria di un’automobile in corsa, sfuggita più abilmente che mai. Non è colpa dell’impianto curatoriale di Francesco Zanot, né dell’apparato didascalico e di guida, snello, preciso, generoso. È che pedinare chi è più curioso di noi può  farci perdere nell’illusione che vada – che finirà per fermarsi – da qualche parte.
 
L’architetto Maurizio Vogliazzo descrive così l’esito infelice del tentativo di afferrare Mollino: “Il logico conseguente effetto di gorgo, di vortice non arrestabile verso qualcosa di molto interno, che trappole specchianti rendono comunque inafferrabile (se mai davvero ci fosse qualcosa per altri che per sé stesso al termine di quest’inseguimento senza fine: ma non c’è […])” [Departament de Projectes d'Arquitectura, 1995, n°10]. Risolto finalmente l’enigma – che non c’è – possiamo appassionarci a Mollino.
 
L’impostazione della mostra in quattro momenti tematici, ricorda i quattro tempi di un motore a scoppio: ci inserisce nella meccanica della propulsione molliniana. Mille case, stanza sull’abitare, ospita fotomontaggi d’immagini e rielaborazioni usate per comunicare il progetto del Centro Ippico Torinese (demolito dalla lungimiranza dei contemporanei vent’anni dopo, nel 1960, in previsione di opere mai realizzate per il centenario dell’Unità d’Italia); i foto-rilievi di architetture rustiche valdostane (Mollino ne produsse preziose descrizioni, in disegni di prospetti e dettagli di soluzioni costruttive, giunzioni di travi etc.) si riflettono nelle adiacenti immagini di paesaggio degli edifici montani realizzati (come la Casa del Sole); s’aggiungono gli interni di Casa Miller, Minola, Devalle etc. con dettagli di arredi che sottolineano l’equilibrio compositivo-simbolico nel rapporto tra superfici e oggetti di produzione o selezionati da Mollino, rimembranze saviniane, e ritratti e autoritratti che evidenziano la relazione con la figura umana; poi il design, le calligrafie di legno-vetro dei tavoli Arabesque, le librerie/pareti con tiranti in acciaio e le posate di sapore aereonautico. La prima stanza ci aspira nel mondo-Mollino, ne tocca tutti gli ambiti, ambienti, approcci che riguardano, pervadono, la sua e nostra quotidianità.
 
Fantasie di un quotidiano impossibile è una stanza di compressione immaginativa: vi convergono spinte e consapevolezze, formali e simboliche, mutuate dalla riflessione surrealista e testimonianze di stili d’osservazione di Mollino, divisi fra rinvenimento e riutilizzo di pattern, temi, soluzioni che ricorrono in artefatti e opere incontrate nel corso di viaggi o osservazioni sul campo, e un occhio da passage parigino che sa cogliere fra le pieghe di strade, vetrine, manichini, manufatti comuni, le basi di un immaginario e le tracce di un inconscio collettivo utili a studiare l’effetto perturbante e le qualità emotive di elementi tipici della quotidianità. Troviamo i ritratti ambientati di Occhio Magico (Ed. Scheiwiller, 1945, con E. F. Scopinich), in cui di nuovo trionfa il ritratto femminile, allegorico o irreale. La terza, Mistica dell’acrobazia, è una stanza di scoppio e espansione, dedicata al dinamismo sportivo di Mollino, fra pratica del volo, dello sci, dell’automobilismo, che praticò e per i quali conseguì i brevetti di pilota, di istruttore, e partecipò a gare importanti su strada, conseguendo risultati apprezzabili in imprese di alto livello, anche in ambito teorico e ingegneristico, oltre che estetico, senza politicizzarne il valore, per il gusto della sfida stessa e cucendo a questi ambiti importanti amicizie, amori, collaborazioni con colleghi ed imprese. La fase di scarico, nella quarta stanza, L’amante del duca, riassume oltre un terzo dei materiali autografi esposti, oscillando fra mondo dello sci (soprattutto per l’illustrazione di pubblicazioni o manuali didattici come Introduzione al discesismo, 1950) e femminile (ritratti privati) accostati secondo suggestioni di una analogia formale nelle relazioni corpo-posa di entrambi gli ambiti. Al centro di quest’ultima sala si trova il capolavoro di “bio/iconografia critica” di Carlo Mollino, con pagine originali manoscritte delle due versioni e il plico dattiloscritto, oltre alla copia dell’edizione finale, in teca, di Il Messaggio dalla Camera Oscura – testo poco disponibile, che sarebbe bello potere, nelle prossime occasioni pubbliche, offrire in versione digitale per consultazione del pubblico. La mostra-motore di Camera ha un ciclo continuo: una volta finita si torna a riguardarla da capo, per sfruttarla appieno. Ospiti della macchina-Mollino, ci si rapporta a lui con lo stesso spirito ingegneristico con cui egli si rapportava ai propri ambiti di attività, sfruttando le forze prodotte dalla miscelazione e combustione visiva dei suoi diversi elementi, nel medesimo spazio.
 
 
Il poster di supermaschio decadente, genio sregolato, erotomane, misantropo, è sfondo da baraccone da archiviare, che contribuisce a semplificare Mollino e a eroderne la figura, compiendone una rovina analoga a quella che ha colpito l’opera architettonica, negli anni, tra rimozioni, demolizioni, alterazioni. Ogni esposizione aiuta a gettare nuova luce su questo artista.
 
Uno dei primi passi per uscire dagli stereotipi, è opporsi all’eccesso di erotizzazione della sua opera: il ciclo privato femminile è stato abusato come filtro interpretativo: se nel design d’oggetti si sottolinea una dominanza della curva, sarebbe magari, dove verificato, da metterlo in relazione equilibrata e in rapporto con le geometrie del discesismo e l’ingegneria, i dinamismi futuristi, i capisaldi dell’arte o dell’architettura, dalla statica, all’equilibrio dei volumi e delle proporzioni. Non serve calcare le curve femminili: basta sviluppare l’analogia col discesismo sotto il profilo di corrispondenze più processuali per riequilibrare la chiave di lettura diffusa. Fra Mollino e le sue donne s’interpongono attrezzature, studi, tecniche – semmai utili a costruire l’attraversamento erotico di un paesaggio, che è assimilabile al godimento degli interni  (in certe pagine dell’Amante del Duca, ci si immagina in scala ridotta su una macchina da volo simile a quelle di Leonardo – e del padre di Mollino – solcare la stanza trafitta da raggi di luce che penetrano fra i tendaggi), come bambini nei paesaggi immaginari dei giochi in casa. E vi sono travestimenti che, come il manto nevoso che dissimula e permette di scivolare sulla parte rocciosa della montagna, consentono d’entrare in contatto giocoso con l’indomabile femminile, in complicità passeggera e modo mediato. Cercata, scelta, studiata, trasformata nei punti difficili (come in tutta la sua produzione, vi è legittima post-produzione), la donna è animata da Mollino, attraversata secondo proprie linee immaginative – “costruirti come voglio io…vestirti come vedo io…sei materia che faccio vivere […] quegli imbecilli devono vederti sotto la luce che voglio io” si legge in Vita di Oberon, edito in Casabella. Come nella discesa è esclusa l’istintività e tutto si regge sul controllo e la preparazione, per arrivare a fluidità, così con la donna l’incontro è preparato – nel modo in cui John Cage, almeno, preparava le corde del pianoforte. E’ un esercizio di resa – alla gravità della montagna o della donna – che fonda la propria bellezza sulla tensione fra impossibilità di dominio e tentativo di resistenza nell’abbandono, veicolazione di quella forza che spinge l’uomo a scivolare su di essa, a una dispersione controllata dell’inevitabile movimento di fuga, il più elegante ed emozionante possibile, sulla sua superficie. La fotografia è un manto su cui s’imprime la traccia dell’esperienza del femminile, in base alle leggi del minimo sforzo e a una fisica del desiderio che fa parte di un mondo privato e di gioco. Non è importante esibirla, ma viverla. Non è performance, ma gioco. Semmai queste tracce ricordano le emozioni di quegli attraversamenti, il perfezionamento di un dettaglio, uno spostamento che produce nuove esperienze. La fotografia fissa l’effimera forma desiderata, ne rievoca la metamorfosi, il volo.
 
Gli elementi ritornano in diverso modo, come i rimandi interni tra i soggetti femminili e le cartoline di maddalene botticelliane, busti rinascimentali di nobildonne, soggetti artistici non esposti: è simile a un dipinto di Ernst, la donna velata di rosso col drago da passeggio (in mostra s’espongono la stampa del biglietto originale, leggibile, e l’esemplare dell’animale).
 
Lo sguardo stesso della donna, nell’apparizione istantanea – chissà se condivisa in tempo reale coi suoi soggetti, al tempo delle Polaroid – non pare strappato ma, per estenuazione del gioco, colto in assenza di attrito, spesso attraverso lo specchio, girata di spalle, sottratta all’occhio dell’obiettivo e finalmente alla pari (osservatrice indiretta a sua volta); o nell’atto di togliersi la maschera, abbandonata sotto la protezione del travestimento, in piedi fra veli onnipresenti – tutto compie il depotenziamento della sua cattura, smorza la forza del supposto trofeo di caccia, lo muta in scalpo simbolico di un gioco ricercato, di un’intimità che poggia su una momentanea visione comune – proibita al resto del mondo esterno.
 
Nei veli troviamo la matrice semipermeabile degli interni molliniani: la camera da letto (per due) per Cascina in risaia (1943) per Mollino è un “bozzolo”, in cui il mondo è visibile di spalle, tramite uno specchio retrovisore, dal letto protetto fra i tendaggi – che ricordano le vele d’imbarcazioni disegnate spesso da Mollino anche a bordo delle sue pubblicazioni, e mutuate forse dalla passione conradiana. Le immagini in cui il velo è segno di “passaggio”, sono il letto-barca di Villa Zaira, e la Stanza delle Farfalle,  di Casa Mollino (set prediletti) dove teche multicolori di lepidotteri ai capi del letto impero rievocano l’immagine esoterica della metamorfosi. La fotografia trasforma il pilota Mollino, in volo su New York senza esserci mai stato; ma Mollino è anche colui che vola davvero e che celebra il vuoto abissale del Furggen; la camera da letto è un tentativo di costruzione di un vuoto artificiale, l’allestimento di un paesaggio in sbilanciamento controllato, dove lasciarsi, velato, per un tempo, il mondo alle spalle.
 
In Incanto e volontà di Antonelli – la mostra ricorda, nelle didascalie – scrive Mollino: “Portare a zero quel rapporto tra forza e resistenza, condizione d’equilibrio della macchina, e questo zero sia verificato in ogni punto della struttura. Questo il sogno di Antonelli, sogno lapalissiano e millenario dell’uomo costruttore.” Ecco, questo sogno è forse lo statement di tutta la sua azione: lo stesso principio che lo guida nella discesa, lo porta a produrre le strutture erotiche degli scatti privati. Mollino, leonardesco, non risparmia lodi alla perfezione della gabbia toracica dell’airone, rispetto all’aliante: “massima forza e minimo peso: elegantia”. Per – poco dopo – tornare al fiorire antonelliano d’una “struttura viva che cangiasse volto e trasparenza e trascolori anche nel tempo al variare delle sollecitazioni, ma opera dell’umano e una con la fantasia”. Il velo spesso 12 cm del guscio della cupola esterna, l’accettazione come “funzionale” di “soluzioni fittizie” dove se ne vedesse “la ragione poetica”. A sentirlo descrivere la Mole, la cui sottigliezza è ottenuta anche con un sistema di catene di tiranti invisibili, la cui fabbrica “diviene sistema elastico soltanto pesante anziché spingente”, e il  grado d’economia tra aree occupate e aree riservate a strutture di piedritto è ridotto vertiginosamente al minimo – potremmo immaginarci Mollino, non potendo invitare la Mole a casa propria, impegnato a svilupparvi, per i giorni di neve persistente, una tecnica acrobatica di discesa di cui farsi pioniere, dalla guglia alla strada. La legge che regola – e fa piacere – il discendere della Mole, della montagna o della vita, è la medesima, e il rapporto fra forza e resistenza è a zero anche nell’ingegneria misteriosa della macchina amorosa. Non c’è da stupirsi che Mollino abbia indagato le intime strutture e architetture del desiderio. Anche esse hanno una “magicità” ed una “melanconia dell’infinito”, che come nella Mole, anche nelle fotografie è dissolta, o risolta, nell’“aspirazione di affermare comunque noi stessi, punto fermo dello spirito dell’Universo”. Un punto fermo – nel caso di Mollino – inafferrabile, e costantemente in moto.
 
 
Ph: Senza Autore, Carlo Mollino in aereo, 1950-1960 c. | Politecnico di Torino, sez. Archivi biblioteca Roberto Gabetti, Fondo Carlo Mollino
 
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