Beni culturali. Da attrattori di turismo ad attivatori delle comunità
Non basta assumere come punto di riferimento il rapporto domanda-offerta di cultura, agendo solamente sul versante dell'offerta per aumentare anche qualitativamente la domanda di cultura, ma è necessario superare questo approccio e cercare altre vie per le politiche di promozione culturale del territorio: per sviluppare politiche attive, a partire dalla città occorre esplorare prima e presidiare poi, almeno tre diverse dimensioni: del radicamento, dello spessore, della democraticità.
La dimensione del radicamento riguarda direttamente la città nella sua dimensione territoriale; fa riferimento alle risorse che si sono costituite durante un percorso che ha attraversato il tempo; queste risorse hanno sia forti consistenze materiali (i beni archeologici, i monumenti, le caratteristiche del tessuto urbano, il patrimonio museale e librario...) sia aspetti più immateriali ma altrettanto ricchi e condizionanti (le tradizioni, l'associazionismo, le reti di relazioni). Specificità, vocazioni, identità culturali di una città si determinano e si sviluppano a partire da questa dimensione.
La dimensione dello spessore considera i servizi culturali in base:
- alla continuità, in quanto gli eventi occasionali bruciano risorse e si pongono nella logica del consumo;
- alla progettualità, in quanto i servizi non orientati al progetto creano abitudine;
- alla sedimentazione per lasciar traccia e costruire significato.
La dimensione della democraticità fa riferimento al pluralismo, alla partecipazione, alla capacità di coinvolgimento, ai diritti d'accesso, all'informazione/comunicazione, alle reti di relazioni istituzionali e informali.
Le direttrici per realizzare un percorso logico per la gestione dei servizi culturali passano attraverso tre imperativi: attivare, associare, intraprendere.
Attivare significa sollecitare all'azione i cittadini. La diffusione del bene culturale deve avere una funzione di mobilitazione dei cittadini, di riappropriazione del patrimonio culturale attraverso un'azione di attivazione di conoscenze che diventa poi senso di appartenenza, riconoscimento, identificazione.
Associare, poter contare su di una ramificata rete associativa significa puntare sul pluralismo dei soggetti coinvolti dall'attività culturale. Infatti, se è vero che l'attivazione individuale serve a determinare positive forme di socializzazione e aggregazione che favoriscono l'identificazione, il livello associativo permette un miglior dialogo tra cittadini e istituzioni. In secondo luogo, le forze dell'associazionismo rappresentano un'importante risorsa per la realizzazione delle iniziative attraverso forme di collaborazione tra il settore pubblico e la dimensione del "privato sociale".
Quest'azione può portare a intraprendere una capacità progettuale che non si disperda in piani complessivi, ma sia agile strutturazione di processi realizzativi. Quest'opera razionalizzatrice serve a «professionalizzare» percorsi operativi e a trasformare i «circoli virtuosi» in situazioni permanenti. L'azione associativa può così diventare azione imprenditoriale, così da costruire un tessuto di produzione culturale che sappia trasformarsi in risorsa economica attraverso un ampio percorso caratterizzato da investimenti innovativi ad ampia partecipazione di intelligenze e capitali. Si chiude così il cerchio intorno alla possibilità di trasformare la cultura in potenzialità economica, attraverso un «giro largo» che impegni menti e capitali in investimenti effettivamente innovativi e non soltanto in sfruttamento del patrimonio culturale. Un sorprendente rovesciamento di prospettiva per coloro abituati a ragionare sul consumo culturale secondo la prospettiva dei mass market tradizionali, ma un dato di fatto pressoché ovvio per coloro che hanno una reale e diretta esperienza del funzionamento delle arene culturali. La produzione e la circolazione sociale della cultura si determina pro-attivamente e smaschera quella artefatta separazione tra produttori e fruitori della cultura, ovvero tra il lato dell'offerta e quello della domanda avendo come unica finalità quella di attrarre pubblico.
In questo modo assumono rilevanza solo l'intrattenimento culturale, gli eventi, la valorizzazione del patrimonio culturale tesa ad attrarre pubblico pagante. Nel contesto italiano prevale, la visibilità mediatica, il ritorno economico, diretto e indiretto, la cultura per i visitatori/turisti.
In realtà non è possibile distinguere tra offerta e domanda (chi oggi è fruitore, in altre situazioni, si trasforma in produttore). In una logica culturale pro-attiva l’ offerta culturale è rivolta principalmente ai residenti (il che non esclude il turismo culturale). In questo modo si rinforza e si amplia la catena del valore e si determina un posizionamento strategico dell’offerta culturale, in prospettiva spaziale e temporale.
La partecipazione attiva e consapevole all'esperienza/attività culturale costruisce e fa crescere il pubblico, non solo come mero consumatore di eventi, ma, favorendo lo sviluppo e l’accumulazione di capitale umano, sociale e culturale-identitario, determina le condizioni perché si vada oltre il riscontro immediato e la tendenza a considerare «vecchia» qualsiasi attività culturale, quasi contestualmente alla sua produzione. Con questo sguardo «lungo» la dimensione del finanziamento acquista un senso che va al di là del trasferimento di risorse a fondo perduto, diviene sostenibile economicamente, si trasforma in investimento sociale di riconversione creativa nel medio e lungo periodo. Nasce così quella che Pierluigi Sacco chiama la prospettiva del distretto culturale evoluto in cui «la cultura non ha valore in quanto crea profitti, ma perché aiuta la società ad orientarsi verso nuovi modelli di uso del tempo e delle risorse e così facendo produce a sua volta economie».
La cultura agisce dunque come un LIEVITO capace di contribuire alla ridefinizione complessiva dell’identità del sistema territoriale e delle comunità che lo abitano. Credo che in tempo di crisi, ciò costituisca una opportunità, soprattutto per le giovani generazioni. I contenitori culturali (musei, spazi espositivi, centri culturali, spazi polivalenti, e così via) sono formidabili interfacce per trasformare l’offerta culturale in competitività territoriale e sviluppo economico locale. Una ampia casistica internazionale dimostra che se gestiti efficacemente funzionano da attrattori di flussi turistici, di investimento, di ecc., nella misura in cui sono in grado di aumentare la visibilità del sistema locale, e da attivatori, nella misura in cui interagiscono con il territorio stimolando nuovi progetti imprenditoriali, nuove professionalità, progetti di responsabilità sociale, la rilocalizzazione di attività e funzioni.
Per gestire tutto questo necessitano strumenti/soggetti/strutture fortemente flessibili e innovativi : la «Fondazione» risponde a queste necessità? Le Fondazioni culturali dovrebbero apportare al territorio capacità gestionali, capacità di coordinamento strategico e capacità erogative, tarate sulle necessità di sviluppo del contesto territoriale e istituzionale e degli specifici progetti culturali innovativi programmati.
Il modello della fondazione di partecipazione ha riscontrato nell’esperienza italiana alcune diffidenze da parte dei soggetti privati, soprattutto imprenditoriali, i quali non riscontrano nella formula gestionale la possibilità di valutare quanto produce nel medio-lungo periodo, in termini di competitività e trasformazione innovativa territoriale.
Rispetto agli schemi fondazionali tradizionali, occorre studiare delle forme più flessibili, più rispondenti al «sentire» imprenditoriale del territorio, che incrocino forme organizzative più gestibili. Forse si deve esplorare maggiormente la modalità normativa e organizzativa della separazione tra il livello di «governance territoriale» e il livello gestionale-operativo diretto.
Il vantaggio da perseguire è quello di coinvolgere le aziende direttamente all’interno della formula gestionale, favorendo un’assunzione di responsabilità in forme ed entro limiti ben definiti e valutabili.
Chiudo con una breve riflessione sui «tagli alla cultura» di cui si parla ciclicamente: non passa anno che, in sede di manovra finanziaria o di redazione dei bilanci pubblici, non torni alla ribalta il solito ritornello «i bilanci sono in sofferenza e il primo settore in cui si taglierà è la cultura». Tuttavia, quello che sta accadendo in questi ultimi anni non è solo una necessità imposta dal rosso dei bilanci pubblici, e non solo, che portano a sacrificare quello che un tempo si chiamava effimero e a salvaguardare servizi molto più essenziali e tangibili quali il sociale, le fognature o le strade.
La cultura in Italia, in molti campi, è finanziata direttamente dallo Stato, dagli enti territoriali, dalle fondazioni . Questo non solo ci ha reso un paese ricco di iniziative ma ha fatto crescere anche professioni e imprese dipendenti da tali finanziamenti. È così che accanto a sprechi disinvolti o a cachet gonfiati (che, dobbiamo ammetterlo, ci sono e ci sono stati), vi sono moltissimi esempi virtuosi di dedizione culturale e di professionalità che meriterebbero una diversa attenzione da parte del legislatore, investimenti mirati e strategie di lungo raggio.
L’Italia, che detiene il maggior numero di beni culturali al mondo, dovrebbe considerare proprio la cultura come una delle leve di sviluppo per gli anni a venire, anziché ingegnarsi a trovare la maniera più efficace per demolirla.
Purtroppo viviamo la schizofrenia, da una parte, di un combinato di interventi legislativi, nati per razionalizzare la spesa, ma che di fatto determinano stratagemmi «fai da te» di finanza creativa per reperire contributi e definire fantasiose modalità di spesa, pur di rispettare le leggi, e dall’altra, di un vuoto normativo ingiustificabile nell’Europa del 2012 che non permette un rapporto pubblico – privato efficiente, chiaro e produttivo di effetti strutturali. Le imprese del territorio non hanno alcun incentivo ad investire in cultura. Ciò, di fatto, rende praticamente impossibile per le amministrazioni pubbliche che gestiscono i servizi e le attività culturali, continuare a svolgere i propri compiti istituzionali, andando nella direzione opposta invocata da chi, in Italia e in Europa, vorrebbe che si scommettesse sulla cultura come motore di sviluppo.
Con quali prospettive allora può un paese immaginare il proprio futuro se rinuncia già in partenza a puntare su un comparto dalle enormi potenzialità, sul quale scommettere per uscire dalla crisi e dare competitività all’economia? Chi ha scritto le leggi, chi le ha promosse, chi le ha votate, chi colpevolmente mantiene un vuoto normativo, lo sa che in Italia ci sono oltre 900mila imprese operanti in attività legate al settore culturale e creativo e che, ancora in piena crisi, la spesa delle famiglie italiane per la cultura rappresenta circa il 7% della loro spesa complessiva?
Questo Paese ha proprio bisogno di dotarsi di cultura.
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Francesca Lazzari è Assessore alla progettazione e innovazione del territorio e alla cultura, Comune di Vicenza, Palazzo Baggio Giustiniani