Verso il Welfare 2020
Prima di altri, proseguendo con la sua ricerca sul rapporto Stato-Cittadino, le evoluzioni possibili del Welfare(pubblicazioni dal 2002), ha parlato del «Terzo pilastro. Il non profit come motore del nuovo welfare» (2008), rileggendo la «Big Society» teorizzata da David Cameron per una declinazione possibile nel nostro Paese. Ha acceso il dibattito, promosso ricerche (l’ultima . Welfare 2020, il futuro degli strumenti di protezione sociale del nostro Paese, 2013, con l’Università Cattolica), definito strategia e azioni del suo Ente in questa direzione. Può sintetizzarci la sua visione?
Il sistema di welfare che ha fatto dell’Italia e dell’Europa l’area più civile del mondo attraversa oggi una crisi irreversibile e il Terzo settore, quel variegato mondo composto da associazioni, fondazioni, Ong, cooperative sociali, imprese sociali, organizzazioni di volontariato, costituite anche sotto forma di onlus, rappresenta oggi l’unica risposta ai problemi, in questa fase drammatica. Questa realtà cresce esponenzialmente con un volume pari al 4,3 per cento del PIL e un bacino di risorse di circa 500mila addetti, oltre a 4 milioni di volontari. Lo scorso anno le fondazioni di origine bancaria hanno erogato 965 milioni di euro a favore del proprio territorio di riferimento, con un totale di 22mila interventi. L’ottanta per cento delle aziende italiane sopra i 500 addetti ha avviato esperimenti di welfare aziendale, con risultati eccellenti: per ogni 150 euro investiti, è scaturito un guadagno di 300 euro, tra risparmi e aumento di produttività. In campo assicurativo, ci sono ben 500 fondi integrativi negoziali e volontari, oltre a duemila mutue sanitarie, che hanno erogato servizi a più di 5 milioni di persone. Questi dati non devono sorprendere perché le radici storiche di questo mondo si possono rintracciare proprio in Italia, all’interno della tradizione solidaristica, tanto cattolica quanto laica. Purtroppo però, e qui sta il paradosso, l’articolo 118 della nostra Costituzione, che dovrebbe rappresentare lo strumento atto a consentire il dispiegarsi di queste potenzialità, è in buona sostanza lettera morta, perché la norma risulta priva della capacità di sanzionare, in caso di dinieghi al suo utilizzo. Così, quello che io chiamo l’«ascensore della solidarietà», ossia ciò che permette ai soggetti privati di intervenire, sia orizzontalmente che verticalmente, laddove lo Stato e gli enti locali non sono in grado di dare risposta al bisogno, si è bloccato. L’amministrazione pubblica vede con sospetto e talvolta con ostilità il ruolo del privato, anche e soprattutto quello di natura sociale, perché vi intravede la cattiva coscienza di quello che dovrebbe essere fatto e non è in grado di fare. Sono convinto da anni che la ristrutturazione del nostro sistema di welfare sia un tema decisivo per le sorti del nostro Paese e che, all’interno di questo processo, il Terzo settore debba giocare un ruolo chiave. Ho affrontato la questione come studioso, ma sono passato dalle parole ai fatti. La Fondazione Roma, che mi onoro di presiedere, ha avviato nel 2012, in collaborazione con l’Università Cattolica, il progetto «Welfare 2020», un disegno di rinnovamento del sistema italiano ed europeo di protezione sociale in una prospettiva di lungo periodo. Questo modello si concentra non tanto sull’offerta, quanto sulla domanda di servizi, proponendo un cambio di paradigma, dal welfare statalista a quello personalista e comunitario. Lo scopo è di investire sulle persone e sulla loro responsabilità, di valorizzare i corpi intermedi della società e le risorse dei territori, costruendo un sistema che integri le politiche del lavoro, quelle dell’istruzione e quelle socio-sanitarie, e promuova il coordinamento e la cooperazione tra tutti gli attori, lo Stato, con le sue articolazioni territoriali, le imprese profit e il mondo variegato del non profit. La ricerca «Welfare 2020: il futuro dei sistemi di protezione sociale», presentata lo scorso maggio, in anticipo sulle altre indagini in materia, analizza tematiche di riforma del welfare riferendosi ad esempi virtuosi che mostrano che questa è la strada giusta e che bisogna assolutamente completare la norma costituzionale, introdotta nel 2001, per fare in modo che il Terzo Settore possa effettivamente fornire le soluzioni ai problemi del nostro Paese. Noi, dal canto nostro, stiamo proseguendo su questo percorso, con l’avvio del progetto «Wel.com.e. Verso un welfare di comunità».
La cultura è stata una cifra distintiva della sua politica in Fondazione Roma e oggi Lei è tra le voci forti che promuovono l’investimento del privato nel settore. Quali sono a suo avviso i nodi e le opportunità nell’intervento dei privati e nella cooperazione con il pubblico nella cultura?
All’inizio del mio impegno istituzionale nel campo dell’arte ritenevo che fosse giusto coniugare il settore pubblico con quello privato. Purtroppo, dopo anni di inutili tentativi, mi sono rassegnato a considerare questa strada impercorribile. Potrei citare numerosi esempi, tratti dalla mia storia personale e da quella della Fondazione Roma, che raccontano la scarsa sensibilità del pubblico alle proposte del privato non profit. Le opportunità del privato sociale sarebbero enormi, non solo in termini di capacità gestionali, ma anche nella direzione della valorizzazione dei beni artistico-culturali, un concetto contrapposto a quello della mera conservazione, che caratterizza il pensiero e l’azione di chi gestisce la cosa pubblica in questo campo. Purtroppo è impossibile condividere programmi e progetti su basi manageriali, perché queste materie non trovano sufficiente attenzione da parte di politici e funzionari statali che operano nel settore della cultura.
Quindi la Fondazione Roma interviene nella cultura prevalentemente con progettualità dirette.
Opera direttamente, con iniziative gestite dal proprio personale e con l’ausilio di collaborazioni esterne, di alto profilo professionale, ma limitate nel tempo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nel settore delle arti visive, in quello musicale, così come in tutte le attività che quotidianamente mettiamo in campo per affrontare le grandi emergenze sociali del nostro tempo.
Con l’ente strumentale Fondazione Roma-Arte e cultura, nei due storici Palazzi nel cuore di Roma, Sciarra e Cipolla, Lei ha condiviso la collezione dell’Ente e promosso oltre 40 mostre significative, con diverse partnership. In corso una preziosa occasione di leggere «Il tesoro di Napoli. Capolavori dal museo di San Gennaro», con espressioni di voto, di cultura popolare, mai uscite dalla città. Si è recentemente aperta la mostra «Modigliani e Soutine. Gli artisti maledetti» con opere dalla collezione Netter. Quali sono le linee e gli obiettivi della programmazione?
Due, che procedono in parallelo, con una profonda identità di visione. Da una parte, l’obiettivo è quello di dipanare il discorso della grandiosità dell’arte a Roma, dove la Fondazione ha sede, e dove da secoli ha contribuito, attraverso le istituzioni da cui origina, il Monte di Pietà e la Cassa di Risparmio di Roma, a costruire una città attenta all’evolversi delle tematiche del territorio. Questo interesse nei confronti della storia dell’arte prende le mosse dalla constatazione del ruolo che ha esercitato la Chiesa, a partire da quando Martino V, con felice intuizione, elevò la cultura a strumento propulsivo dello sviluppo, lasciandoci in eredità una magnificenza che, a mio modo di vedere, non è inferiore a quella dell’impero romano. Quindi la linea principale è tesa all’organizzazione di mostre connotate dall’attenzione per l’arte della Città Eterna, nei vari secoli della sua gloriosa storia. Abbiamo già organizzato un’esposizione sul Settecento romano, una sul Quattrocento ed una sul periodo rinascimentale, da Michelangelo a Raffaello. Nel 2015 sarà il turno dell’arte barocca. L’altro percorso è quello che permette di visualizzare l’influenza che la città di Roma ha avuto sulle realtà che la circondano e come, a sua volta, sia stata influenzata da esse. Da questa concezione è nato il dialogo con le altre culture, a partire da quelle più vicine a noi, come la Spagna e la Francia. Poi, fortemente convinti della necessità di una dialettica tra civiltà e mondi lontani, anche se solo geograficamente, abbiamo avviato un fecondo dialogo dapprima con l’America e poi con la Russia, il Giappone, la Cina dell’imperatore Qianlong, l’India di Akbar. Questo armonioso dipanarsi di mostre testimonia come la cultura sia lo strumento principe per il dialogo tra le classi sociali, tra mondi diversi e, in prospettiva, tra civiltà e religioni diverse.
Progetti finanziati dalla gestione del patrimonio giudicata esemplare da ricerche internazionali. Quali i punti di forza? Alla base della nostra gestione c’è la scelta, fatta in tempi non sospetti, di uscire dalla banca conferitaria, così come prevedevano le leggi Amato e Ciampi.
Abbiamo diversificato la collocazione del nostro patrimonio, lo abbiamo affidato a gestori di altissimo profilo internazionale e non abbiamo aderito alle suggestioni, peraltro contrarie alle disposizioni delle due norme già citate e allo spirito della sentenza della Corte Costituzionale del 2003, di entrare nella Cassa Depositi e Prestiti, come hanno fatto tutti gli altri, a mio modo di vedere in maniera non provvida. La conseguenza di queste scelte è una gestione molto oculata, con un ridotto numero di dipendenti, di alta qualità professionale, e con una costante visione di aggiornamento professionale.
Fondazione Roma guarda al dialogo per lo sviluppo socio-economico dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, con un ente dedicato. Come si innesta la cultura in questo indirizzo progettuale? Abbiamo preso atto del fatto che molte realtà oggi presenti nel sud non sono nelle migliori condizioni per dare una risposta ai problemi crescenti di quest’area. Intendendo il nostro Meridione come parte integrante del Mediterraneo, abbiamo poi allargato la sfera cognitiva dei problemi, e quindi la gamma dei nostri interventi, agli Stati rivieraschi, dalla Spagna alla Grecia, fino a quei Paesi nordafricani in cui la presenza italiana è significativa da secoli. Siamo convinti che, oltre alle esigenze di carattere economico-sociale, lo strumento principale del dialogo sia la cultura, e attraverso di essa abbiamo avviato un percorso che si è concretamente manifestato con interventi quali il sostegno al Festival di El Jem, in Tunisia, il restauro della Cattedrale di Sant’Agostino, ad Algeri, e la collaborazione con l’Ivam, l’Istituto di Arte Moderna di Valencia.
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Dal XIII Rapporto Annuale Fondazioni, in Il Giornale dell'Arte, 338, gennaio 2014