L’attesa del ritorno. La casa e l'intimità della famiglia come metafora di identità politica e culturale
Venezia. In occasione della 55ma esposizione Internazionale d’Arte, presso il Centro Tedesco di Studi Veneziani è stato presentato «The waiting», il libro sull’omonimo film «Al Intithar», l’attesa appunto, presentato in concorso per la prima volta lo scorso febbraio alla Berlinale e parte prima della trilogia filmica «Bayt», termine arabo per indicare la «casa» e, traendo ispirazione dagli scritti di Anthony Shadid, la sua fondamentale importanza nella cultura islamica.
Immagini e parole per fornire una riflessione sulla nascita di una nuova coscienza civica ed un nuovo senso di partecipazione alla vita politica nel mondo arabo, una visione capace di raccontare l’eccezionalità della vita quotidiana di persone comuni.
Tutto questo è Mario Rizzi, l’artista e regista Berlin based, capace di catturare con uno sguardo distante, ma sensibile e attento, il transitorio. Come un birdwatcher Mario Rizzi coglie, mediate dalla sua poesia, le sfaccettature intime di una realtà solo apparentemente lontana.
I suoi lavori sono stati presentati, tra l’altro, al MAK, Vienna (2013), al National Center for Contemporary Arts, San Pietroburgo (2011), nella Biennale di Taipei (2008); al Van Abbemuseum, Eindhoven (2008); al Contemporary Art Center, New Orleans (2008); al Museum of Modern Art, New York (2007); alla Tate Modern, Londra (2007); alla Kunsthalle Fridericianum, Kassel (2007); nella Biennale di Istanbul (2005) ed in quella di Sydney (2004). Il film «Murat ve Ismail» fa parte della collezione permanente del MoMA di New York. Nel 2012 il progetto di trilogia «Bayt» ha vinto il Production Programme Award della Sharjah Art Foundation. Il prossimo novembre l’artista avrà una personale alla Galleria Gagliardi Art System di Torino.
In occasione della presentazione del libro, che vanta una prefazione di Angelika Stepken, direttrice di Villa Romana a Firenze, e un saggio dello studioso di cinematografia e letteratura iraniano Hamid Dabashi, docente alla Columbia University di New York, Mario Rizzi ci parla del suo lavoro, della casa e dell’attraversare, due termini che ci caricano di significato nella permeabilità dell’azione che, in un flusso continuo, mette in relazione uomini, culture, luoghi e percezioni.
Come procedi nel tuo lavoro? In «Bayt» affronti il tema della casa nel mondo arabo, dell’identità familiare come narrazione di un una nuova consapevolezza civica.
A me interessa raccontare la nascita di un evento rivoluzionario, la fine del post-colonialismo, il sogno di una nuova nazione, di una nuova democrazia, di un nuovo cittadino arabo. Un cittadino capace di prendere in mano la propria vita, in termini di comunità, di città e di partecipazione politica e sociale.
Ma io non sono un antropologo, un politico, un documentarista. Non voglio narrare queste storie con interviste, o attraverso il voyeurismo mediatico della guerra. A me interessa raccontare la storia di uno di questi cittadini, scoprire come un evento rivoluzionario può essere narrato attraverso la quotidianità, l'intimità, attraverso la vita di una persona che fa la storia senza essere nominata dalla storia.
L’idea è quella di creare tre film all’interno del quotidiano, la casa, che come ben spiega Shadid in «House of Stones», nel Medioriente rimane salda quando tutto sembra crollare, e di strutturare la trilogia in 3 episodi indipendenti e legati al contempo: uno dedicato all’«impermanenza» del rifugiato, di chi deve lasciare la propria casa per andare in una situazione in cui la dignità viene persa, ed è l’oggetto di «Al Intithar»; uno alla situazione della donna del mondo islamico e sarà l’oggetto del secondo film che sarà girato in Tunisia e Egitto; nel terzo invece intendo affrontare il rapporto tra stato secolare e Stato musulmano in Egitto e Bahrain. Questo il progetto.
Per realizzare «Al Intithar» ho vissuto, tra settembre e novembre 2012, per sette settimane in un campo profughi siriano nel deserto giordano, Camp Zaatari, un luogo allora con 45000 rifugiati, oggi con più di 120000. Inizialmente i luoghi scelti per la trilogia erano Tunisia, Egitto, Bahrain e Siria, ma, essendo il conflitto ancora in corso, ho deciso di narrare l'identità siriana all'interno del campo. È mio proposito integrare la trilogia con un quarto film in cui racconterò proprio del ritorno in Siria dei rifugiati.
Come riesci a trovare una sostenibilità per i tuoi progetti?
I miei progetti hanno sempre budget artistici, non budget cinematografici. «Bayt» è prodotto dalla Sharjah Art Foundation, avendo vinto il loro Production Programme Award nel 2012 proprio con questo progetto. La mia troupe è composta da me e da un assistente per quanto riguarda la produzione ma molto importante è per me il momento della post produzione. Una fase preliminare di pre-editing avviene nel mio studio, mentre le fasi di editing finale, di colour grading e sound design avvengono in studi professionali. E’ in quel momento – oltre che quando filmo – che costruisco la narrazione, unendo e giustapponendo situazioni che forse nella realtà non erano giustapposte, ipotizzando dei legami nella vita delle persone che nella realtà necessariamente non sono tali. Creo, in un certo senso, una fiction dal reale.
Proprio per la complessità dei territori che esplori, vorrei sapere quale è il rapporto che instauri con il territorio e soprattutto come il territorio reagisce alla tua presenza. Vieni ostacolato?
Da un punto di vista personale, prima di iniziare a lavorare, amo divenire un insider nel mondo che osservo. Ho iniziato ad interessarmi al mondo islamico sin dagli anni della guerra in Bosnia, come volontario, per poi entrarci in relazione, lavorandoci in modo costante negli ultimi anni.
In Be(com)ing Dutch ad esempio, un progetto del Van Abbemuseum di Eindhoven, ho indagato il «diventare cittadino di un nuovo paese». Un progetto complesso che ha coinvolto filosofi, critici, curatori ed artisti; il mio progetto «Gefeliciteerd» è stata un'installazione multimediale di sei films nel museo, nell'estate del 2008.
In Palestina, invitato dalla Al Mamal Foundation, ho lavorato sul concetto di «stato di eccezione» di Agamben, che è in un certo senso il filo creativo in tutti i lavori seguenti, e certamente la Palestina vive uno stato di eccezione permanente. Mi interessa raccontare la storia delle persone che hanno reagito a questo stato di eccezione in modo eccezionale: attraverso la storia di un avvocato ebreo di estrema destra, ad esempio, che entra in contatto con il capo di una fazione militare palestinese e manifesta i propri dubbi ai media israeliani; attraverso il racconto della vita di un anziano medico palestinese che, in Giordania, fondò il primo ospedale privato, memoria orale di un popolo.
Di tutte queste storie io restituisco la mia personale visione. Ma il mio lavoro non sta solo nei miei films, ma anche nel tempo che io trascorro sul campo, nelle relazioni che si instaurano, nel mio ruolo di mediatore tra esigenze diverse.
Ma proprio perché io fornisco ma mia interpretazione personale della loro vita, è importante che non ci sia un rapporto di sfruttamento. Ritengo ci debba essere una responsabilità etica da parte degli artisti.
Sebbene il mio lavoro non sia relazionale – non più, per lo meno; sono partito da lì ma oggi l’autorialità del mio lavoro resta a me, non c’è una co-creazione da un punto di vista formale – non mi muovo da colonizzatore, anzi. Cerco di colmare i gap culturali e di inserirmi «come parte di loro», cercando di comprendere tutte le varie sfaccettature del territorio e del contesto.
Chi arriva dall’esterno mantiene la curiosità dell’outsider che, insieme ad un approccio «altro», può generare nuove visioni, che possono essere ancora più feconde attraverso la collaborazione.
Questo permette di diventare un po’ insider e contribuire in qualche modo alla comunità apportando la propria esperienza e il proprio vissuto.
La lingua è un ostacolo?
Fondamentale è nel lavoro la mia percezione mentre filmo, che viene enfatizzata proprio dal fatto che non sempre conosco la lingua dei paesi che esploro. Mi concentro – e forse perché ho un background in psicologia – sulle relazioni umane, sociali, sulle interazioni tra le persone, sui momenti di intimità e di poesia che osservo.
Hai parlato di responsabilità. Come si manifesta?
L’artista, in progetti come i miei o anche in progetti relazionali, crea una presenza e, quindi, un dialogo.
Un dialogo che non può essere solo funzionale alla realizzazione del lavoro.
Ecco allora che la responsabilità deve manifestarsi innanzitutto in due modi: rimanendo legati nel tempo alle persone con le quali ci si relaziona e, prima ancora, diventando insider, dando vita a dei rapporti di familiarità, di quotidianità.
Non andare via lasciando i cocci della tua presenza, ma creare una relazione in cui si è una persona e non una telecamera.
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